Oh Parigi, nostra Parigi…

Restano i tabelloni abbandonati delle incredibili elezioni alla Mairie, muti, con appesi i volti sorridenti e fuori luogo di candidati che furono più o meno credibili, nelle strade pressoché deserte del mio arrondissement, il XVIII°. C’è un silenzio irreale, di tanto in tanto qualche vecchio pensionato, sciarpa alla bocca, magari tenuta male con la mano, porta, con una fretta immotivata, il cane a girare a vuoto intorno all’isolato.
Il gatto dal collarino rosso e dal pelo fulvo, vaga tra le montagne di tetti e scende alla pianura della strada, si guarda intorno sospettoso, tanto silenzio e deserto resta per lui un mistero inquietante.

Sembrano lontanissime nel tempo le inopportune votazioni di primo turno delle elezioni municipali. Un vento inusualmente freddo di questo tardo marzo, sembra spazzare via tutto quello che era prima del Coronavirus. I giorni, le settimane, i mesi e gli anni che hanno cambiato il volto accogliente, pulito, gentilmente formale dei parigini.
Una città che prima del virus era diventata collerica, nervosa, scostante a volte rabbiosa, rumorosa, svogliata. Tutto ebbe inizio con gli attentati, l’ISIS, poi gli undici mesi di violenze settimanali, consumate nei sabato dei gilet gialli e infine gli estenuanti scioperi dei trasporti che per un mese hanno diviso in mille polemiche istituzioni e cittadini.

C’è da chiedersi cosa e come cambierà ancora, se cambierà, il volto di questa città, questa pandemia che in Italia sta facendo strage e qui, solo ora, comincia a pesare davvero con il suo carico di lutti, anche fra i giovani, giovanissimi. La gente lo sa, l’avverte, che l’onda anomala è arrivata con tutto il suo carico di paura. Lo si vede incrociando gli occhi dei pochi che attraversano le strade, sguardi, sospetti, furtivi, da fuggitivi. 

Neanche la guerra persa, neanche l’invasione degli “odiati” tedeschi, era stata capace di fermare la città delle luci. Finanche allora i cabaret, i café chantant, i teatri riuscivano a consolare le tristezze di tanti, oggi il virus è riuscito a fermare il cuore della più viva città del mondo.

L’unico strappo, a questo silenzio lancinante, si ha alle ore 20, quando ritualmente ma con composta commozione e partecipazione, dalle finestre e dai balconi cittadini, solitamente e paradossalmente di solito muti, perché la vita è fuori, è altrove, scrosciano gli applausi che idealmente sono rivolti alla prima linea in guerra, come dice Macron, i medici e gli infermieri che come già in Italia, cominciano a morire, nel contrastare il mostruoso nemico invisibile che ha un nome che evoca film di fantascienza, Covid19.

Sulla strada corrono inutili e vuoti gli autobus a ricordarci la vita com’era, si dice che anche le metro funzionino, ma non lo saprò mai perché le indicazioni sono di non allontanarsi dalla propria abitazione, di limitarsi alle spese necessarie per mangiare, molti, come ovunque, lavorano a casa, come possono.
Scomparsi i clochards, per ovvi motivi, nelle strade restano i rifiuti non raccolti, anche gli operatori ecologici hanno un’anima e hanno paura, ritirano in fretta i cassonetti, senza neanche guardarsi intorno, e poi si allontanano veloci, con l’ansia di terminare presto il turno.

Gli spacciatori si arrangiano. Nascondono le dosi in piante, finanche nei cestini all’ingresso dei palazzi, hanno intermediari per ricevere i soldi, negoziano con i clienti per telefono su internet. Anche la malavita cura i suoi affari con il telelavoro. L’altro giorno nel mio palazzo, un tempo abitato tutto da onesti professionisti ed impiegati, sono arrivati 16 poliziotti che entrati nell’immobile ne sono usciti con due che avevano tutta l’aria di esser dei pusher. E ieri, un’altra irruzione della polizia al cancello affianco al nostro.

Per la prima volta, Parigi è senza più turisti, le sue chiese restano con le porte aperte, bocche stupite. All’interno non c’è nessuno o quasi, ma come un periodico segnale di fiducia, all’ora giusta insiste il rintocco delle campane. Per il resto, niente messe, matrimoni e ancor meno, funerali.

Eppure, paradossalmente, questa epoca triste dell’epidemia ha portato anche degli effetti positivi. Senza auto, l’aria è più pulita, anche l’inquinamento acustico è scomparso, si riscopre il canto degli uccelli. Naturalmente si è ridotta anche la criminalità (tranne quella domestica, ovviamente), il traffico perenne dei boulevards è ormai un ricordo, ma gli effetti nocivi sono molteplici. Si avverte il senso dell’abbandono, le relazioni affettive, di qualsiasi tipo, sono davvero messe alla corda. Genitori, figli, amanti, amici, se non sono scappati (chi poteva) in campagna, al mare, sono alla perenne ricerca di mantenere i contatti. Tuttavia il lascito infinito di tempo da passare a casa induce anche a ricercare quegli amici lontani che per anni si erano persi, c’è tutto un ritrovarsi ed un perdersi, un creare e ricreare relazioni ed incontri. È, spesso, un correre dietro al rimpianto di un tempo che fu e che disperatamente vorremmo di nuovo.

Ancora una volta, il problema sono i vecchi, come nella feroce calura estiva del 2003, quando con i suoi settemila anziani morti abbandonati in solitudine, i francesi scoprirono il fenomeno. Anche in memoria di ciò, oggi si cerca di reagire, ci sono gruppi volontari e figli che con discrezione, in molti casi vanno a portare cibo, a fare commissioni per i loro parenti, per le persone sole, ma senza entrare, ci si ferma al ciglio della casa, dell’appartamento, con gli occhi pieni di dolore, perché ogni abbraccio o finanche dare la mano è interdetto, vietato dal buon senso, prima che dalle disposizioni governative.

Tra gli anziani, chi può (ma sono pochi) cerca il supporto di skype, WhatsApp, Facebook ed altro e per una volta i social non sono più il luogo dell’odio ma quello della solidarietà, del conforto.
Tutti si domandano quando e come finirà questa guerra a Covid 19, ma un fatto è certo. Il virus sembra sia mutante, ma in qualche modo mutanti diventeremo anche noi. Forse perché alla fine in questo mondo che cambia, con un ambiente in continua trasformazione, anche noi dovremo sempre più adattare la nostra vita a tutto il contesto, in qualche modo saremo meno padroni del mondo e poi ci saranno i terribili effetti economici, che non avranno una soluzione rapida. Stavano appena esaurendosi gli effetti della crisi del 2007, che ci troviamo alla vigilia di una nuova crisi probabilmente ben più grave. Qua e là, nel quartiere già si vedono negozi che cessano l’attività, sono in vendita, si tolgono insegne e il quartiere perde in pochi giorni la sua fisionomia produttiva e sociale. Naturalmente tutto questo andrà moltiplicato, in una economia sempre più globale, per mille, diecimila, con un effetto domino destinato a modificare i già instabili assetti geopolitici del mondo.

Tornando alla nostra amata Parigi, si può dire che molti comunque non reggono, al bisogno di evasione, in una capitale che dell’evasione (culturale, ricreativa) ha fatto il suo credo. Si notano inattendibili e corpulenti donne di colore che per la prima volta hanno iniziato a fare jogging, persone già attempate che in mascherina corrono per strada, ogni pretesto è usato per una boccata d’aria. C’è chi tornando a casa ha sotto il braccio l’ennesima baguette, da esibire ad eventuali zelanti poliziotti che chiedessero conto dell’autocertificazione. Tutte situazioni, tra il commovente e il comico, consacrate dai numerosi video che circolano vertiginosamente in rete.

Parigi ha resistito fino all’ultimo, tenacemente, assurdamente, con immaturità. Nel venerdì del discorso di Macron che chiudeva scuole ed università, nella stessa sera, nel mio palazzo, ma anche nei palazzi vicini, si erano organizzate feste da ballo, con canti e bicchierate. Un funebre the last waltz, come fosse la fine del secolo, di un millennio (il nostro, che è decisamente partito troppo male).
La chiusura dei locali pubblici, birrerie, pub, caffè e ristoranti è stata festeggiata da una folla strabocchevole che ha bevuto e tracannato con malinconia fino alla fatidica mezzanotte, quando poi si è scappati tutti a casa come tante cenerentole che sanno di aver rischiato, di aver “peccato” e che poi con incosciente fierezza hanno sentito di averla fatta franca.

Parigi ha resistito fino all’ultimo, ma piano piano, prima le immagini che arrivavano dall’Italia con le colonne di camion che mandano ai crematori centinaia e centinaia di bare, poi quelle degli ospedali francesi debordanti di infetti e i continui appelli di ogni autorità politica, scientifica, militare e dello star system stanno piegando ogni riottosa resistenza. Anche Parigi deve cambiare, anche i parigini ora rassegnati si guardano intorno chiusi nelle proprie mura di casa invidiando il gatto dal collarino rosso che vaga pigramente per le strade dell’arrondissement.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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