Nei versi di Gabriele De Masi una fotografia di questi giorni lenti, difficili, disperanti

È la prima volta, forse l’ultima, che provo a introdurre una poesia di mio zio Gabriele, non perché un legame di sangue non mi metta nelle condizioni di affermare, liberamente, che De Masi, in questo caso Gabriele, estrae dalla penna versi con la facilità con cui Messi realizza gol indicibili, ma perché la critica letteraria non rientra nelle mie competenze.

Oggi, sono un giovane lettore attonito, che si interroga, perlopiù, senza trovare una qualche risposta, sui tanti interrogativi dell’esistenza e su cosa significhi convivere con il coronavirus.

La poesia, “Attesa” è solo in apparenza una nitida fotografia di queste giornate lente, difficili, disperanti.
Tra tanto dolore e perplessità, alle volte, è necessario rintracciare un sentimento buono, la malinconia. Il ricordo felice, delle febbri d’infanzia. Personalmente, sono tornati alla mente, il mento gelido di mamma sulla fronte, la vivincì, i cartoni alla tivù, le boccate di aerosol al pomeriggio (antesignana delle tante odierne e vitali mascherine) e quella anarchica allegria di poter disporre del tempo, a piacimento, standosene, sdraiato a letto.
Leggendo, ho sognato che, forse per sogno, quest’anno, la febbre fosse, ancora e soltanto, una febbre. ‘Na freva ‘e crescenza, per dirla come papà.
(Antonello De Masi)

Attesa

Con la febbre, dormivo
nel letto grande, venivano le zie
da Dentecane con le pagelline
benedette di sant’Antonio
da Padova, dottore, guaritore,
le uova fresche di gallina,
il passamontagna di lana
grezza, arrossava le guance
fino a primavera, le beghine
bisbigliavano, di nascosto, il rosario,
le coperte fino al naso,
il mento di mamma alla fronte,
per quanto scottassi, ogni minuto,
pensavo di morire il giorno dopo,
m’avrebbero pianto in tanti.
Come venuta, se n’andava.
Il tempo, di mezzo. Giunto.
Le pillole al risveglio, stringo
appena la macchinetta del caffè,
le mani hanno poca presa.

Questo autunno

Dei morti, dei santi pregati
a intercessione, anche la sera
in fretta sorpassa l’indaco
per il buio, non bussa
per entrare, alle ore grevi,
dello smarrito sonno,
l’infinita notte riporta
gli amici, le donne, i giochi,
quasi, di nuovo, l’infanzia,
ci vide felici, senza ricordi,
smarriti al risveglio freddo,
seduto al bordo del letto,
le gambe tremanti alle pianelle.

Gabriele De Masi,
dall’Irpinia

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