«Essenziale per comprendere il nostro tempo»: Sciascia raccontato da Paolo Squillacioti

Dossier “Sciascia 30 anni dopo”. Paolo Squillacioti, ricercatore e filologo, ha curato per Adelphi l’edizione di tutte le opere di Leonardo Sciascia e il suo lavoro si è concluso proprio in questo trentesimo anniversario della scomparsa. In una conversazione approfondita e appassionata, Squillacioti racconta il suo approdo a Sciascia, l’approccio filologico applicato allo scrittore, le più significative scoperte fatte in mezzo alle carte dell’autore. E svela quale sia lo Sciascia da lui più amato, indicando anche due possibili percorsi di lettura per un primo incontro con le pagine dello scrittore di Racalmuto. Intervista a cura di Giovanni Capecchi, professore associato di letteratura italiana – Università per Stranieri di Perugia (giugno 2019).

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Sciascia 30 anni dopo Altritaliani

Giovanni Capecchi: Prima di parlare dei volumi che raccolgono le Opere di Leonardo Sciascia e che hai quasi finito di curare per Adelphi, ti vorrei chiedere in quale momento della tua carriera di ricercatore e filologo ti sei avvicinato a Sciascia e in che modo hai conciliato gli studi incentrati sulla letteratura medievale (ai quali ti sei dedicato a lungo) con quelli riguardanti un autore contemporaneo.

Paolo Squillacioti: Il mio interesse per Leonardo Sciascia risale ai primissimi anni universitari a Pisa, quando ancora non pensavo che sarei diventato un filologo romanzo ed ero piuttosto indirizzato verso lo studio della teoria della letteratura e della letteratura italiana contemporanea, discipline mediate in particolare da Francesco Orlando e Walter Siti che ebbi la fortuna di incrociare sul mio percorso a metà degli anni Ottanta. Quando, grazie al decisivo incontro con Pietro Beltrami, ho intrapreso l’attività filologica sul Medioevo francese, ero già impregnato di letture e suggestioni che mi portavano verso l’età contemporanea, e ho sempre cercato di coltivare entrambi i campi di ricerca.

Mi ha certamente giovato il magistero di Orlando che teneva dei corsi in cui si spaziava dalla Bibbia e i poemi omerici alla Ricerca del tempo perduto o al Processo, fino a Cent’anni di solitudine, passando per i classici internazionali, che ci leggeva rigorosamente in lingua originale proponendoci un’analisi testuale che era una sorta di filologia del significato. Ma la stessa filologia romanza che ho imparato alla scuola di Beltrami, pur solidamente fondata sul rigore del metodo aveva come obiettivo più che l’apprendimento di tecniche, lo sviluppo di un abito mentale, da far valere anche al di fuori del multiforme oggetto di studio della disciplina. Negli anni di perfezionamento alla Scuola Normale è stato essenziale il magistero di Alfredo Stussi, che mi ha introdotto direttamente alla filologia dei testi a stampa, in particolare degli autori siciliani di fine Ottocento. Insomma, grazie a questi maestri mi sono formato l’idea che studiando i trovatori provenzali, il Tresor di Brunetto Latini, o l’opera di Sciascia e di Tomasi di Lampedusa stessi facendo la stessa cosa. Non posso negare le difficoltà, che però sono state soprattutto di ordine pratico, considerata la necessità di una formazione e di un aggiornamento in campi molto diversi, ma non concettuale. E mi ha certamente giovato l’aver lavorato sempre fuori dall’università, in un istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dove ho imparato il mestiere del lessicografo, altra palestra che favorisce la flessibilità mentale. Non ho avuto insomma la necessità di dover indirizzare le mie ricerche verso uno specifico settore disciplinare.

intervista di Giovanni Capecchi Altritaliani
Paolo Squillacioti, ricercatore e filologo, curatore per Adelphi dell’edizione di tutte le opere di Leonardo Sciascia

Così, dopo alcuni anni passati sui manoscritti medievali, ho pensato di studiare, sui documenti allora a disposizione, le varianti del primo capitolo del Giorno della civetta, che Sciascia aveva anticipato su una rivista in una stesura diversa ma riconoscibile rispetto a quella del volume del 1961: l’articolo che ne è scaturito è stato il biglietto da visita per Adelphi, che nel 2009 cercava un filologo per la curatela dell’opera completa.

G.C.: L’opera completa di Sciascia che Adelphi sta pubblicando nella sua più prestigiosa collana, “La Nave Argo”, e che tu curi, prevede l’edizione di due volumi: il primo, “Narrativa-Teatro-Poesia” è uscito nel 2012, il secondo è suddiviso in due tomi e di questi il primo (“Inquisizioni e Memorie”) è apparso nel 2014 e il secondo (“Saggi”) uscirà proprio quest’anno in autunno, in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa di Sciascia. Sta quindi per arrivare a conclusione un’impresa culturale di grande rilevanza. Anche se è difficile sintetizzare le scelte editoriali che hai compiuto, soprattutto rispetto all’edizione delle “Opere” di Sciascia edita da Bompiani e curata da Claude Ambroise tra 1987 e 1991, potremmo però soffermarci un attimo sulle due novità più importanti. La prima riguarda il criterio in base al quale hai riunito nei volumi le opere di Sciascia. Potresti dirci qualcosa su questo aspetto?

Sciascia 30 anni dopoP.S.: Direi che i criteri essenziali sono stati due: la scelta di limitare la pubblicazione ai libri realizzati direttamente da Sciascia durante la sua vita, evitando perciò un’ampia pubblicazione di testi inediti e dispersi (comunque valorizzati per la contestualizzazione e una migliore comprensione delle opere selezionate), e la distribuzione nei tre volumi di quei libri sulla base del genere di appartenenza o, per meglio dire, della loro tipologia testuale.

Il primo criterio conosce delle eccezioni rilevanti nel primo volume, perché per le opere letterarie lì raccolte è stato possibile concepire una strategia tendenzialmente esaustiva, in particolare per i racconti, le poesie e le traduzioni poetiche. Ho allestito perciò una sezione di racconti dispersi e due dedicate ai versi propri o rielaborati, che non escludo possano rivelarsi incomplete (anzi, per la poesia l’incompletezza si è già manifestata, e rinvio per le integrazioni a un mio intervento sul V fascicolo del 2015 della rivista di studi sciasciani “Todomodo”), ma che hanno riunito tutti i pezzi a me noti al momento. Un criterio simile non era applicabile alla ricchissima produzione saggistica e pubblicistica dispersa, né alla prova dei fatti si è dimostrata percorribile la strada di una selezione, per cui il II tomo del II volume delle Opere a cui sto lavorando non comprenderà una sezione di “saggi dispersi”.

Il secondo criterio aveva sulla carta una seria controindicazione nel fatto che i generi coltivati da Sciascia sono tutt’altro che canonici: i romanzi sono ricchi di elementi saggistici, i saggi hanno spesso un andamento narrativo, ed esistono forme letterarie peculiari difficilmente incasellabili fra i generi tradizionali come le cronachette o le inquisizioni alla maniera di Borges. Per cui l’operazione di distribuzione dei testi si è rivelata complessa e piuttosto rischiosa, e qualcuno me l’ha rimproverata. E tuttavia occorreva correre il rischio, perché la strada più ovvia della sistemazione in ordine cronologico era stata già percorsa da Claude Ambroise nei volumi che hai ricordato, ed era necessario adottare un criterio alternativo. Si  è trattato comunque di un rischio relativo, perché il lettore che affronta un’ampia opera omnia a partire dalle prime parole dall’introduzione e legge in stretta sequenza tutti i libri raccolti, semplicemente non esiste e in ogni caso non poteva essere il tipo di lettore ideale per l’opera di un autore ormai classico e ben noto. L’idea di base che ha sorretto il mio lavoro sin dall’inizio era fondata sull’ambizione di proporre l’opera di Sciascia da un punto di vista inedito che fosse guidato dall’esame filologico dei materiali d’autore, e il ‘rimescolamento’ dei libri rispetto a un ordine precedente è stato funzionale all’idea di rivitalizzare lo sguardo su ciò che era già noto a molti.

Altritaliani Sciascia Trenta anni dopoG.C.: La seconda grande innovazione che la tua edizione propone è quella di affrontare per la prima volta le opere di Sciascia con criteri filologici, analizzando la storia dei vari testi: di questo lavoro rendono conto le accuratissime note ai testi. Per citare le parole che adoperi nell’introdurre il primo volume, l’obiettivo dell’edizione “è quello di gettare per la prima volta lo sguardo nell’officina di Sciascia”. E’ possibile sintetizzare i risultati di questo approccio, citando magari un caso esemplare?

P.S.: Nella frase che hai citato ci sono due elementi che vorrei mettere a fuoco: le caratteristiche dell’officina di Sciascia, ovvero il modo in cui componeva le sue opere e l’entità e le peculiarità dei materiali che ho sottoposto all’analisi filologica, e le conseguenze di un approccio che è avvenuto per la prima volta.

Sciascia è stato uno scrittore alieno da ansie compositive: il suo metodo di scrittura, da lui stesso descritto più volte in varie interviste e interventi, prevedeva una stesura diretta con la macchina da scrivere, su cui agiva azionando i tasti con un dito per mano, lentamente ma con una costanza che gli consentiva di completare 3-4 pagine al giorno; il giorno dopo riscriveva l’ultima pagina perché ritenuta la più “fiacca”. Il tutto dopo un’elaborazione tutta mentale del testo, senza bisogno di appunti preparatori e con il supporto di una poderosa memoria, che lo portavano a un risultato subito definitivo. I suoi fogli dattiloscritti (o i più rari manoscritti) sono perciò piuttosto puliti, avari di correzioni e ripensamenti, come sono pochissimi i casi di riscrittura di ampie porzioni di testo o di interi racconti. Si potrebbe perciò pensare che lo spazio per l’attività filologica sia limitato e in fin dei conti poco utile; ma in primo luogo la filologia non si occupa solo di variantistica, e poi proprio perché poco frequenti, le correzioni e le varianti sono particolarmente interessanti, e rivelano spesso aspetti decisivi sul piano contenutistico (meno su quello stilistico, perché Sciascia non indugiava in formalismi e preziosismi).

Sciascia 30 anni dopo AltritalianiDati questi presupposti, ho ritenuto che l’analisi filologica non dovesse essere eccessivamente minuziosa, ma dovesse illustrare la genesi e l’evoluzione dei testi sciasciani sulle situazioni testuali davvero significative, limitando al minimo indispensabile l’uso dei tecnicismi. Il lettore di Sciascia non era infatti abituato a descrizioni, sia pure sommarie, delle vicende testuali, e anche la consistenza stessa della bibliografia degli scritti gli era nota in modo piuttosto approssimativo: dei romanzi e delle inchieste non era ben conosciuta la storia compositiva, dei racconti raccolti in volume non si aveva piena consapevolezza delle sedi di prima pubblicazione e quindi della data di stesura, per non dire dei saggi e degli articoli riuniti in sillogi famose come Cruciverba (1983) o Nero su nero (1979), di cui non era stata ancora ben messa a fuoco l’origine. Fare filologia su Sciascia ha richiesto perciò un intenso lavoro preliminare di reperimento e acquisizione della bibliografia degli scritti e di schedatura delle numerose interviste rilasciate dallo scrittore (ricche di notizie sui testi), prima ancora dei materiali d’autore, dispersi fra la casa palermitana, gli archivi delle case editrici e la Fondazione che lo scrittore volle fosse istituita a Racalmuto, il suo paese natale) e dell’indagine su un epistolario ricchissimo e per lo più inedito (altra miniera di informazioni per il filologo). Ma fare filologia su Sciascia, considerata l’assenza di lavori a cui appoggiarsi, ha significato soprattutto navigare in mare aperto, tracciando la rotta man mano che il viaggio andava avanti, e cercando di utilizzare soprattutto le parole di Sciascia – e quindi le autovalutazioni affidate a interventi, interviste, lettere – e dei suoi interlocutori diretti. Le mie Note vorrebbero essere un ampio autocommento diretto o indiretto dell’autore.

Dovendo scegliere un caso emblematico mi viene in mente l’Affaire Moro, scritto nell’estate del 1978, poche settimane dopo l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana per mano dei terroristi che lo avevano rapito, sterminando la sua scorta, e tenuto prigioniero per 55 giorni. Ho rintracciato una fotocopia del dattiloscritto che si credeva perduto presso dei parenti di Sciascia, a poche settimane dalla chiusura del volume, e grazie al suo esame ho potuto ricostruire degli aspetti testuali piuttosto rilevanti: per esempio il fatto che Sciascia non trascrisse citazioni più estese dalle lettere che Moro inviò dalla prigionia, ma le ricavò da una pubblicazione ritagliando le pagine e incollandole sul suo dattiloscritto. Ciò spiega la presenza di brani differenti da quelli che possiamo leggere nelle edizioni più affidabili dell’epistolario di Moro (per es. le Lettere dalla prigionia curate da Miguel Gotor per Einaudi nel 2008), che sono stati presi per refusi e impropriamente corretti nelle edizioni precedenti alla mia. L’esame del dattiloscritto è risultato inoltre decisivo per destituire di fondamento la notizia che circolò poco dopo la pubblicazione del libro di un taglio autocensorio di un centinaio di pagine. Ed è servito infine per evidenziare alcune varianti, fra le non molte che si possono cogliere in un manufatto molto ‘pulito’ e ordinato, a dispetto di una materia che lo aveva letteralmente angosciato e che gli aveva tolto il sonno. Ma soprattutto per confermare in modo inequivocabile la sostanziale bontà del testo della prima edizione (due soli gli interventi correttori: un “soprattutto” emendato “sopratutto”, che è la forma prediletta da Sciascia, e l’aggiunta di un punto interrogativo saltato nella stampa), là dove la versione confluita nelle Opere Bompiani curate da Ambroise, e ripresa anche da Adelphi nel volume apparso nel 1994 nella “Piccola Biblioteca”, presenta alcuni errori che talvolta falsano in modo significativo il pensiero di Sciascia. Faccio un solo esempio: a p. 502 del vol. II delle Opere Bompiani (o a p. 58 dell’edizione Adelphi del 1994), si legge a proposito di un documento diffuso dalle Brigate rosse: “Soltanto dai simpatizzanti, un po’ dovunque sparsi, la Risoluzione può esser letta con profitto: ma c’è da dubitarne”, da cui sembrerebbe quasi che Sciascia avesse a cuore la piena e corretta ricezione degli scritti dei terroristi. Ma il testo della prima edizione del 1978, confermato dal dattiloscritto, è diverso e mette le cose a posto: “Soltanto dai simpatizzanti, un po’ dovunque sparsi, la Risoluzione può esser letta con entusiasmo. E potrebbe, dalla polizia, esser letta con profitto: ma c’è da dubitarne”. È molto diverso.

Altritaliani Sciascia 30 anni dopoG.C.: In questi anni, durante i quali hai curato per Adelphi anche l’edizione di altri testi di Sciascia (penso al recente volume “Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo” oppure ad “A futura memoria”, uscito nel 2017) quale è stata la “scoperta” o l’acquisizione critica relativa all’autore di Racalmuto che ritieni più significativa o che, per lo meno, ti ha maggiormente colpito?

P.S.: La cosa che mi ha colpito di più in A futura memoria, una raccolta di articoli assemblata da Bompiani negli ultimi mesi di vita di Sciascia e pubblicata un mese dopo la morte, riguarda il (fin troppo) famoso articolo sui Professionisti dell’antimafia, che uscì sul “Corriere della Sera” nel gennaio 1987 e suscitò intense polemiche. È un caso a mio avviso emblematico di quanto sia necessario anche l’approccio filologico per comprendere appieno episodi decisivi nella storia di un intellettuale come è stato Sciascia. Perché, letto sul dattiloscritto, l’articolo non appare diverso dai tanti stesi con scioltezza dallo scrittore: un articolo sicuramente incisivo e pungente in alcuni passaggi, al limite inopportuno considerato il momento storico (ma fu Sciascia stesso a dire di non possedere il dono dell’opportunità), ma scritto sine ira et studio, e di cui evidentemente non aveva preventivato le conseguenze. Gli articoli immediatamente successivi, invece, concepiti come repliche agli attacchi scomposti e ingenerosi che gli furono mossi e per fornire l’interpretazione autentica del suo pensiero, sono affidati a dattiloscritti ricchi di ripensamenti, correzioni, aggiunte, che mostrano uno stato di acceso e sorpreso disappunto (ma forse si può azzardare di vera e propria rabbia) che i testi pubblicati sul giornale non lasciano trasparire. Il filologo vive emozioni di questo tipo…

Sciascia 30 anni dopo AltritalianiNel Metodo di Maigret, che invece non è una silloge d’autore, sono state la ricchezza e la profondità degli scritti sul romanzo giallo a stupirmi mentre la assemblavo. Il rapporto di Sciascia con il genere è davvero cruciale, perché, oltre che uno studioso della grande tradizione dei racconti polizieschi, è stato un grande lettore (e spettatore di film) e scrittore di gialli molto particolari e per nulla rassicuranti, vere e proprie indagini sulla società del suo tempo. Nei saggi raccolti nel Metodo di Maigret gli aspetti che mi pare d’aver messo a fuoco sono molti, e vorrei menzionarne solo un paio che hanno un riflesso sulla sua attività di scrittore: la predilezione più volte dichiarata per il Maigret di Georges Simenon lo portò ad attribuire all’ispettore Rogas del Contesto alcuni tratti del peculiare metodo d’indagine del commissario francese, fondato in una sorta di ‘impregnamento’ nella vicenda criminale e nell’ambiente con cui entrava in contatto, e in un’identificazione con gli attori di quella vicenda, con il colpevole da individuare non meno che con la vittima; e il tutto conversando con le persone del luogo o guardandosi intorno bevendo il pastis in bar fumosi. Esattamente come Rogas, che indaga passeggiando nelle città in cui si sono consumati i crimini o facendo delle lunghe nuotate in mare. Il meccanismo dell’identificazione è, secondo Sciascia, fondamentale anche per capire il successo di pubblico dei gialli, perché si tratta di vicende in cui si resta sospesi tra l’esigenza che l’ordine infranto dall’atto criminale venga ricomposto con la spiegazione delle dinamiche e la punizione del colpevole, e una sorta di identificazione con quest’ultimo, che ci fa stare col fiato sospeso per il suo destino e ci fa oscuramente desiderare che la faccia franca. E nel Contesto questo principio trova uno sviluppo narrativo molto interessante, perché ad un certo punto Rogas incontra l’assassino dei giudici Cres in un ascensore ed ha l’impressione di vedere sé stesso allo specchio; per di più lo lascia andare a uccidere l’ultimo delle vittime designate, il Presidente della Corte Suprema Riches, perché a quel punto ha interiorizzato le ragioni del colpevole, e mettendole a confronto con le colpe delle vittime le ha riconosciute come ben più gravi anche se meno percepibili dall’opinione pubblica. Un rivolgimento dello schema classico che avvince il lettore e lo conduce a simpatizzare con la coppia Rogas-Cres e a interrogarsi sulle dinamiche e le storture del Potere.

G.C.: C’è un testo di Sciascia al quale ti senti particolarmente legato? E perché?

Sciascia 30 anni dopo AltritalianiP.S.: Sì, ed è proprio Il contesto un romanzo che oggi diremmo noir, pubblicato nel 1971 con l’eloquente sottotitolo di Una parodia. È a mio avviso il libro più inquietante e intricato di Sciascia, una sorta di giallo metafisico, che apre la stagione più innovativa della produzione dello scrittore siciliano. Parla di omicidi di giudici prima che in Italia venissero uccisi magistrati impegnati in indagini di mafia o sull’eversione politica; parla di gruppi terroristici con largo anticipo sulle notizie sulle prime azioni delle bande armate; parla di accordi politici fra partiti con ideologie contrapposte prima del lancio della formula tutta italiana del ‘compromesso storico’ fra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana; parla degli intrighi del Potere, dei rapporti oscuri fra la politica, gli apparati dello stato, il mondo degli affari, l’intelligencia sedicente progressista, prima che si manifestassero i segni di quegli intrecci. E ne parla in modo diretto e coinvolgente, tracciando un quadro desolato della realtà italiana di quegli anni. Quando ho studiato la storia redazionale del romanzo l’interesse è molto cresciuto: Sciascia lo concepì nel 1967 e ne trascinò la stesura per anni, in modo del tutto inusuale per uno scrittore che i suoi romanzi li stendeva in pochi mesi, al modo descritto sopra. E quindi con un anticipo ancora più sorprendente di quanto non dica la data di pubblicazione. Ma il tutto è presentato senza alcun compiacimento, ma semmai con una divertita ironia che si volge in una sorta di angoscia man mano che la stesura, più lentamente del solito, andava avanti: un romanzo sofferto, che Sciascia ha avuto la tentazione di abbandonare, e che alla fine definì una “mala azione”.

G.C.: È questo testo che consiglieresti come punto di partenza a chi, oggi, volesse avvicinarsi all’autore siciliano? Oppure proporresti un altro libro per fare l’ingresso nell’opera sciasciana?

P.S.: Direi di no, e la descrizione che ne ho dato spiega le ragioni. E comunque più che un libro è opportuno indicare un percorso d’ingresso nell’opera dello scrittore siciliano, che inizi con Il giorno della civetta (1961) e Le parrocchie di Regalpetra (1956), due “buone azioni” letterarie secondo il giudizio dello stesso Sciascia, e prosegua – se i primi due sono piaciuti – con Il Consiglio d’Egitto (1963) e A ciascuno il suo (1966). A quel punto il lettore avrà acquisito una certa consapevolezza dei temi e delle modalità espressive del primo Sciascia: l’ambientazione siciliana che acquista una valenza universale, l’impegno civile volto allo svelamento di verità taciute, un modo affascinante di affrontare la Storia intrecciandola sapientemente con la storia narrata e con i destini individuali dei personaggi, la convinzione che occorra battersi contro le storture del mondo, sorretti dalla ragione e dal senso di giustizia, uno stile di scrittura scorrevole e leggibile, alieno dalla retorica, e con frequenti aperture all’ironia. E sono pronto a scommettere che ne vorrà sapere di più e sarà pronto per le opere meno ottimistiche degli anni Settanta e Ottanta, a cominciare dal Contesto.

Oppure si potrebbe consigliare un percorso à rebours, forse più arduo per la maggiore densità degli ultimi libri ma più prossimo nel tempo e meno bisognoso di contestualizzazione storica. E allora a Una storia semplice (1989), l’ultimo romanzo scritto nell’anno della scomparsa, potrebbe seguire Il cavaliere e la morte (1988), che Cesare Segre ha definito “un piccolo capolavoro”, e quindi L’Affaire Moro (1978) e La scomparsa di Majorana (1975), per arrivare per altra via ai due gialli politici Todo modo (1974) e Il contesto.

G.C.: Si ha la forte impressione che Sciascia sia veramente un autore che è cresciuto nel tempo e la cui rilevanza è ancora destinata ad aumentare. Lo pensi anche tu? Quali ritieni che siano i valori più importanti che Sciascia può portare nel presente?

P.S.: Sciascia non ha mai smesso di interessare il pubblico dei lettori e gli studiosi: finché è stato in vita ha avuto una presenza nella società che lo ha posto spesso al centro del dibattito pubblico: i suoi libri, gli interventi sui media (molto sui giornali e sui settimanali d’attualità e politica, meno – ma in modo non trascurabile – alla radio e in televisione), l’attività parlamentare fra il 1979 e il 1983, la più discreta ma non meno incisiva attività editoriale e di critica d’arte, insomma le varie facce della sua presenza pubblica gli hanno assicurato una capacità di influenza sulla società italiana ed europea che oggi difficilmente riusciamo a concepire per un intellettuale. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto, perché ogni suo libro diventava naturalmente, senza bisogno di campagne promozionali, un momento di discussione, le sue idee circolavano e convincevano, le sue analisi avevano la capacità di cambiare le cose. Oggi che non può più avere un certo tipo di presenza lo conosciamo meglio, sappiamo molto di più sul suo conto e sulle opere e possiamo affermare che si tratta di un autore essenziale per chi voglia comprendere il nostro tempo. Sciascia è stato pienamente un uomo del Novecento: nato nel 1921, pochi anni dopo la Rivoluzione russa e un anno prima della marcia su Roma, morì qualche settimana dopo l’abbattimento del muro di Berlino, vivendo emblematicamente quasi per intero quello che lo storico inglese Eric Hobsbawm (particolarmente apprezzato dallo scrittore per l’interpretazione del fenomeno mafioso nel libro del 1959 sulle forme primitive di rivolta sociale, che Einaudi tradusse nel 1966 col titolo I ribelli) ha definito ‘il secolo breve’. Del secolo scorso ha conosciuto e patito le tragedie e condiviso senza illusioni le speranze, riuscendo a cogliere il senso e le contraddizioni della sua epoca con una capacità di penetrazione che è stata considerata divinatoria, tante erano le occasioni in cui riusciva ad anticipare situazioni e fenomeni per altri inattesi (l’ho mostrato quando ho parlato del Contesto). La sua opera complessiva, oltre a contenere dei meccanismi narrativi affascinanti e coinvolgenti, è un antidoto alle semplificazioni del presente, alle mistificazioni che ci vengono propinate quotidianamente, alle logiche del Potere.

Vedo però il rischio, forse inevitabile, che anche Sciascia venga fagocitato nel mainstream massmediale che oggi domina in un sistema culturale molto diverso da quello in cui lui si è formato e ha operato, e che passi un’immagine dello scrittore ridotta a slogan. Sciascia può essere ricordato semplicemente come colui che ha detto “né con lo Stato, né con le Brigate rosse” (frase mai detta né mai pensata in questi termini), o che ha lanciato la formula dei “Professionisti dell’antimafia” (anche questa non sua ma del titolista del “Corriere della Sera”), ieri usata maliziosamente per indebolire l’azione giudiziaria e politica di chi combatteva in varie forme la criminalità organizzata, e oggi assunta come un’ulteriore prova della preveggenza di Sciascia, considerati i casi eclatanti di antimafia finta e paracriminale svelati negli ultimi anni. Semplificazioni che non fanno bene a un autore la cui opera mostra una ricchezza tale che provo una certa difficoltà a indicare i valori più importanti che continua a proporci. E allora preferisco proporre un alfabeto di parole-chiave (struttura argomentativa particolarmente cara a Sciascia) che possano fornire una mappatura della sua concezione della vita e dell’attività intellettuale e servire da stimolo per un approfondimento della conoscenza della sua opera: amicizia, bibliofilia, cultura, diritto, eguaglianza, famiglia, gioia, ironia, libertà, memoria, normalità, onestà, politica, quadro, radici, scrittura, tradizione, uomo, vacanza, Zeitgeist.

Intervista a cura di Giovanni Capecchi

(articolo pubblicato il 21 giugno 2019 e aggiornato il 30 novembre 2019)


Leonardo Sciascia
Opere
Volume I: Narrativa – Teatro – Poesia
A cura di Paolo Squillacioti
La Nave Argo, 15
2012, pp. XLII-2023
https://www.adelphi.it/libro/9788845927447

Leonardo Sciascia
Opere
Volume II: Inquisizioni – Memorie – Saggi, Tomo I: Inquisizioni e Memorie
A cura di Paolo Squillacioti
La Nave Argo, 16
2014, pp. 1431
https://www.adelphi.it/libro/9788845929441

Leonardo Sciascia
Opere
Volume II: Inquisizioni – Memorie – Saggi
Tomo II: Saggi letterari, storici e civili
A cura di Paolo Squillacioti
La Nave Argo, 18
2019, pp. 1476
https://www.adelphi.it/libro/9788845934438

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Giovanni Capecchi
Giovanni Capecchi è nato e vive a Pistoia (Toscana). E’ professore associato di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha dedicato i suoi studi soprattutto all’Ottocento e al Novecento, seguendo alcuni filoni di ricerca: l’opera di Giovanni Pascoli, la letteratura e il Risorgimento, la letteratura della grande guerra, il romanzo nel Novecento.

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