La solitudine della sinistra d’élite.

Ridurre la crisi della sinistra alla fine delle ideologie seguita al crollo del muro di Berlino è oggi riduttivo e non spiega tutto.

La fine dei regimi socialisti e l’inspiegabile affermazione, di alcuni nostalgici, per cui un vero socialismo non si è mai realizzato e che quindi l’ideale socialista possa essere considerato sempre valido è una suggestione che resta tale. L’ideale socialista è fallito perché era sbagliato sin dalle sue premesse, il che non toglie che gli eredi di quell’utopia (in Italia il PD ed in parte Italia Viva) facciano bene ad aspirare ad un mondo con maggiore equità sociale.
Tuttavia, se il novecento è stato caratterizzato dal confronto tra le classi lavoratrici ed il capitale, oggi, cambiato il capitalismo e cambiato il lavoro, il confronto è di tutt’altro tipo e coinvolge le persone trasversalmente, assumendo un carattere che valica i confini delle singole realtà nazionali.

Da dopo la caduta del muro di Berlino, il confronto si è spostato tra i fautori di una visione globale del mondo e chi cerca di difendere e costruire solide identità nazionali, magari anche contro una realtà che impone sempre più (piaccia o no) modelli di società ed economie che agiscono fuori da qualsivoglia geografia politica. Sempre più appare difficile conservare quello status mentale, culturale e sociale che si era stratificato in secoli di storia.

Archiviata, come perdente, l’idea socialista, la sinistra aveva applaudito alla globalizzazione proprio nel nome di una maggiore equità mondiale ed è indubbio che le distanze economiche specie tra l’est e l’ovest si sono accorciate. Una circostanza questa che ha permesso, in una prima fase, alla sinistra di allargare e plaudire le prospettive di un pensiero globale.

E’ proprio grazie alla globalizzazione che paesi che nel novecento erano annoverati nel terzo mondo, come l’India, la Cina, la Thailandia, il Viet-Nam, o il Brasile, sono oggi, pur con molte contraddizioni, diventati paesi evoluti economicamente, che gareggiano nei terreni della new-economy, capaci di industrie di primo livello e di personale altamente qualificato, proprio lo stesso stato di benessere di quei paesi l’attesta. Le file per il pane, che vi erano nella Russia sovietica sono scomparse, le scene dei bambini indiani o cinesi che nelle campagne e nelle città erano morenti di fame sono ormai rintracciabili solo negli archivi dei giornali e nelle teche delle televisioni, semmai la povertà è diventata questione principalmente africana, ed anche li occorrerebbe fare dei distinguo.

La fine dei blocchi ha riaperto i giochi geopolitici, creando scenari e situazioni che appena cinquanta anni fa sarebbero stati considerati impensabili. La Cina, che si fa paladina, per sue convenienze, del mercato globale, estendendo il suo impero, retto da una democrazia « a bassa intensità », ben diversa da quella occidentale, estende il suo dominio fino in Africa; la Russia che pian piano riconquista un suo ruolo internazionale, non rinunciando ad interferire (Russiagate in America, sovvenzioni a Salvini in Italia a Le Pen in Francia) con quel mondo occidentale da cui è attratto e allo stesso tempo respinto. Gli USA prima con Obama e poi con Trump che abbandonano di fatto il loro ruolo di arbitri del mondo (American First!), fino ad arrivare alla guerra dei dazi che pesa enormemente sulla crescita mondiale, mentre sempre più la sfida tra i nuovi imperi va spostandosi anche sui temi ambientali e climatici ormai percepibili facilmente sulla pelle di tutti, con una Europa miope che perde sempre più peso internazionale.

I dragoni asiatici che alzano la testa (Hong Kong docet) e tessono, specie in quel quarto di mondo, trame che modificano profondamente secoli di consolidato quadro geopolitico.

Il tutto con un occidente in crisi non solo di ruolo ma anche d’identità, fiera sostenitrice, a parole, di una laicità che appare sempre più opaca e debole contro realtà identitarie molto più solide. La debolezza su questo terreno dell’occidente si è potuta verificare proprio negli anni più duri del terrorismo dell’Isis.

Oggi, la realtà è complessa. La sinistra si è fin qui fatta interprete di questo pensiero globale. Già negli anni novanta era di moda un suo slogan: « Pensare globalmente ed agire localmente” e cosi mentre la torta economica si riduceva per l’occidente in favore di società emergenti, il pensiero della sinistre, vecchia e nuova, finiva per essere sempre più astratto, perdendo contatto proprio con quelle realtà territoriali e sociali di cui per secoli era stato difensore e rappresentante.

La Fiat a Detroit

L’Occidente resta ancora oggi un modello culturale e sociale apprezzato, specie per quei paesi che, dopo questo potente sviluppo economico, tendono oggi ad avere maggiori spazi di libertà e benessere, riconoscendoci un sostanziale primato rispetto ai propri modelli che ancora oggi sono segnati da carenze specie sul piano dei diritti e sul terreno della libertà.

Non è un caso che molti informatici indiani, cinesi, arabi, e dell’America Latina ambiscono a sistemazioni a New York, finanche a Londra o Parigi ed in Italia. Per non parlare dei tanti emigrati “poveri”, spesso giovanissimi che fuggono dalle loro realtà per inseguire un tipo di civiltà che da loro non c’è ancora e forse non ci sarà mai. Se fosse solo una questione economica converrebbe emigrare nei paesi arabi come l’Arabia Saudita, l’Oman il Kuwait che sono enormemente più ricchi della Spagna, Italia e della stessa Francia o Germania.
Le democrazie americane ed europee sono oggi in evidente crisi eppure Il sogno europeo o americano restano ancora vivi come modello di benessere e non solo economico ma anche sociale, culturale.

Ad aggravare il quadro per l’occidente (già privato per la globalizzazione di parte delle sue ricchezze ed in crisi di identità e di ruolo geopolitico) è il fatto che lo sviluppo di queste nuove economie non si è combinato con uno sviluppo equo e regolamentato del mercato internazionale del lavoro. Paesi come la Slovacchia, la Romania, la Bulgaria per non parlare dei paesi del sud-est asiatico e della stessa Cina hanno un tasso di crescita, ancora oggi più che invidiabile, non sono state sostanzialmente colpite dalla pesante crisi economica del 2008 e hanno un tasso di competitività nel mercato del lavoro insostenibile per noi occidentali, ultra sindacalizzati, fautori di leggi rigide sul lavoro anche se di alto valore etico, e con una burocrazia che rende la vita impossibile a qualsivoglia impresa. Da li il facile affermarsi di delocalizzazioni di industrie nostrane in territori con meno tasse, meno burocrazie e con una mano d’opera molto più disponibile a redditi ben inferiori dei nostri.

Trump a Detroit ha imposto alla Ford di non delocalizzare in Messico, una scelta contro il mercato, che non rispetta uno dei sacri principi delle liberaldemocrazie, ma questo è stato molto apprezzato dagli operai che stavano perdendo il lavoro, molto più delle invocate quote rosa di Hillary Clinton. E, incredibilmente, proprio nelle zone più ricche degli States la Clinton ha vinto, sono peraltro le zone dove l’integrazione è meglio riuscita, mentre ha perso li dove era visibile l’abbandono del proprio tradizionale elettorato lasciato alle proprie paura del futuro.

Tutto questo per anni la sinistra (non solo quella italiana) non l’ha compreso e mentre plaudiva alla globalizzazione che sembrava offrire tante cose compreso nuove rive ideologiche dopo il crollo del muro, andava perdendo il suo elettorato popolare rinchiudendosi sempre più nella sua cerchia d’élite, con una supremazia culturale (già espressa in tutta la seconda metà del novecento), che sempre più diventava illusoria nella sua costante perdita di contatto con le proprie realtà territoriali.

Dietro la fine della sinistra, almeno quella che ha caratterizzato tutto il novecento in Italia, come in America, in Francia, in Germania, nella stessa Gran Bretagna e in tutto quello per capirci è l’Occidente, con i suoi modelli ideali e culturali, c’è tutto questo, il senso di un popolo (che un tempo era definito proletario) che si è sentito abbandonato, prima dalle industrie, con cui costruiva le proprie famiglie, offriva prospettive allettanti ai propri figli, vivendo in quartieri dove all’attività di lavoro si aggiungevano le tante attività di aggregazione sociale, politica e culturale, poi abbandonata proprio da quella sinistra che storicamente l’aveva rappresentata, incapace, forse per la propria natura ideologica ed internazionalista, di opporsi a questo mercato globale che delocalizzava altrove interi comparti industriali, togliendo sviluppo per cercare nuove avventure capaci di garantire guadagni più lucrosi.

Quella sinistra a tutto cio’ non ha reagito finendo per lasciare il campo a quelle forze di destra che si sono fatte portavoce di questo abbandono arrivando ad offrire risposte, forse demagogiche, inattuabili, ma che davano speranza e comprensione a quella massa di cittadini frustrati che chiedevano semplicemente di essere ascoltati.

Personalmente, ricordo cosa era Bagnoli a Napoli, con le sue industrie siderurgiche, i suoi cementifici, con la vicina Olivetti di Pozzuoli, e poi con le sue sezioni sindacali e l’egemone presenza del Partito Comunista ma allo stesso tempo con i suoi numerosi centri sociali, culturali, associazioni dove era possibile fare teatro, c’era finanche un seguito giornale di quartiere, i suoi cineclub e le sue mille piccole e grandi attività di indotto. Oggi Bagnoli è un dormitorio, privo di politica ma anche di altre associazioni aggregative, nei suoi palazzi vive una forte comunità straniera fatta di pakistani, malgasci, cinesi, africani, arabi, che spesso lavorano con prospettive ma sottocosto, magari togliendo lavora alla comunità di bagnolesi che si ritrovano disoccupati o a competere al ribasso sul mercato del lavoro. La microcriminalità è in crescita e lo spaccio, a volte anche condotto da immigrati, è una costante contribuendo alle paure e alle rabbie di chi in quel quartiere ci ha vissuto una vita. Paure e rabbie che si materializzano nello straniero vicino che spesso è anche più considerato, curato, assistito, coccolato dai media, rappresentato come lo sfortunato ultimo che pero’ cancella da ogni considerazione proprio il penultimo, l’ex operaio, magari ammalato nel cementificio, con i figli che non possono continuare gli studi e che stanno in mezzo ad una via a cercare un futuro che non arriva mai.

A New York, alle presidenziali, ha trionfato la Clinton (li c’è un sostanziale benessere) mentre a Detroit, anche contro le indicazioni dei sindacati, gli operai in massa hanno votato Trump. Non è un caso che gran parte di Londra ha votato contro la Brexit, mentre nelle campagna inglesi e gallesi la massa votava per l’uscita dall’Europa. Non è un caso che la scomparsa dei partiti socialista e comunista francesi sia iniziata nelle cittadine operaie e negli ampi territori agrari della Francia dove oggi raccolgono messi di voti Le Pen e i suoi amici. Certo ogni paese ha il suo specifico, il suo di più o di meno che spiega questa dinamica comune, ma la dinamica esiste. E cosi, non è un caso che a Roma, a Monte Mario la sinistra vince, come in altri quartieri della buona, colta ed istruita borghesia, mentre nei quartieri disperati della periferia degradata viene finanche superata da Casa Pound, per non parlare della Lega o di Fratelli d’Italia della romana Meloni.

La sinistra è scomparsa dalle periferie non per sua scelta o meglio non per suo desiderio, è scomparsa perché fisicamente si è trasferita nelle zone buone delle città, oggi sociologicamente la sinistra è in gran parte rappresentata proprio da persone che se non sono i caricaturali radical chic (in Francia i bobos), sono certamente configurabili come l’élite della società, ampiamente acculturati, istruiti, con ottime prospettive per il proprio futuro. Hanno spesso giardinieri di colore, badanti per i propri genitori dell’est Europa, filippini, possono adottare bambini (magari di colore), a volte hanno cameriere colombiane, etiopi, se non del nord Africa, vivono in quartieri inacessibili economicamente per gli immigrati (di qualunque provenienza).

L’archeologia industriale di Bagnoli.

Gli immigrati sono stati spesso e volentieri depositati proprio dove non dessero fastidio all’élite, in quelle periferie, un tempo industriose e laboriose e che oggi sono abbandonate tristemente diventando il centro di attività spesso illegali. Gli immigrati, non senza averne diritto, sono diventati assegnatari spesso di queste case, diventando i vicini « maledetti » di quella che in America oggi viene detta “Povertà bianca”, quella dei tanti licenziati, cassaintegrati, ridotti all’assistenzialismo, spesso costretti ad attività che in ogni caso sono percepite come umilianti per quanto necessarie. Conosco storie di operai specializzati che si sono ridotti a fare i cassieri nei supermercati, avendo magari al proprio fianco proprio quegli immigrati. Vicini anche socialmente ma con due sentimenti diversi l’occidentale, l’italiano, che si sente degradato e perdente e l’immigrato che si sente avviato verso la realizzazione del suo sogno, americano, italiano e comunque occidentale.

Lo sforzo, giusto e necessario, di integrazione ha finito per drammatizzare ulteriormente la situazione. Proprio l’élite, ormai prevalentemente di sinistra, avverte la necessità, anche nel nome del politically correct, di non sfavorire i nostri nuovi e futuri concittadini e mentre si batte, a mio avviso giustamente, per lo Ius Soli o lo Ius Culturae, proprio per riconoscere, a tanti bambini nati e cresciuti in Italia, il sacrosanto diritto alla cittadinanza, si sforza di favorire in ogni momento i desideri degli immigrati, ingresso nelle scuole e nelle università, riconoscimento del diritto a portare il velo, apertura di moschee, riconoscimento a potersi nutrire con la carne halal, assegnazione di case, e poco importa a questa élite se poi bisogna rinunciare a tratti identitari (o percepiti come tali) propri dei “poveri bianchi” a cui in vari casi viene imposto di rinunciare al Presepe, di accettare che i raduni musulmani delle venerdi avvengano fuori dalle Moschee, con preghiere che occupano, per ore intere, strade e piazze. Segnalammo con un reportage il caso di Chateau Rouge a Parigi. Fummo ospiti, non a caso, di un socialista che ci giurava che non avrebbe mai più votato a sinistra, ma casi cosi ve ne sono diversi anche in Italia. La sinistra si è battuta contro il caporalato ma chiude un occhio sulla manodopera “straniera” che si offre a prezzi stracciati, imponendo cosi anche ai nostrani di rinunciare ad anni di conquiste salariali, e sindacali per manifesta impossibilità di competere.
Questa élite di sinistra, si è battuta per anni per una laicità a senso unico che era solo contro la religione cattolica, riuscendo ad ottenere importanti vittorie sui diritti civilli e per le donne, ma ora fa spallucce sul tema del velo musulmano, con l’ipocrisia che quelle donne desiderano portarlo, i casi sono due: o è un falso o io sono sfortunato perché, ogni volta che all’Università chiedo ad una qualsiasi mia allieva velata perché lo sia, la risposta è sempre la stessa: “Ho il velo perché voglio studiare e senza il velo mio padre non mi manda all’Università”. I figli dei “poveri bianchi” nelle mense a volte devono rinunciare a determinati alimenti perché non contemplati come commestibili, per alcune etnie di immigrati.
Per carità il tema dell’integrazione è serissimo e va perseguito con tenacia, ma resta il puntro che gli occidentali delle periferie di Detroit come di Parigi piuttosto che di Roma o della Germania est, si sentono abbandonati e su di loro vengono immessi consistenti numeri di immigrati, che proprio per i loro problemi d’integrazione finiscono per contribuire al degrado di quei territori.
L’élite, ormai è bene ripeterlo, prevalentemente di sinistra, vuole gli immigrati, li vuole a proprio servizio (giardinieri, autisti, camerieri, badanti, spesso portieri di palazzo, li vogliono nei campi a lavorare, nei cantieri a costruire e non sono tutti lavori che i “bianchi occidentali” non accettano, questa è un’altra leggenda della sinistra), ma non li vuole come vicini e cosi questa massa di variopinta etnicità ogni mattina all’alba ed ogni sera occupa trasporti pubblici spostandosi dagli opulenti centri cittadini alle tristi e degradate periferie, entrando in contatto e in concorrenza proprio con quegli abbandonati che se li ritrovano davanti con ben altre speranze e prospettive delle loro.
Rispetto a tutto cio’, la Brexit, l’American First di Trump, il: “Prima gli italiani” di Salvini in Italia, diventano delle promesse ben gradite proprio dalla massa di scontenti e frustrati abbandonati dalla sinistra, che, invece di porsi in una severa autocritica, e all’ascolta di quei cittadini abbandonati, si limita a dileggiare i vari Le Pen, Salvini, Trump ed Orban, ecc. ecc., a farne con disprezzo la caricatura, spesso chiamando i loro elettori (quegli operai di Detroit, quelli delle periferie parigine o quelli delle nostre città) rozzi, ignoranti, bifolchi, fascisti, quanto non peggio, salvo poi magari dimostrarsi comprensivi anche verso fenomeni di integralismo musulmano (la sinistra francese arrivo’ al record di invitare, per un comizio di chiusura delle elezioni regionali, come oratore Tariq Ramadam noto intellettuale salafita ed integralista che sostiene che se le leggi francesi contrastano con il Corano non vanno applicate), una vera follia!
La sinistra qualche domanda dovrebbe porsela, e bene farebbero anche le nascenti forze politiche progressiste a porsi da subito questi temi. Alludo ad En Marche di Macron in Francia, le forze ecologiste che in Europa vedono crescere i propri consensi, cosi come la nascente Italia Viva nel nostro paese, perché occorre probabilmente dare una risposta meno demagogica, più realista e davvero più equa per tutti e da tutti i punti di vista.
La Francia lo insegna, se questi fenomeni non sono governati con equilibrio, giustizia, responsabilità e serietà, creano bombe sociali pronte ad esplodere con tutte le consequenze del caso.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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