Oggi come ieri. Angelina va a Parigi.

Il breve racconto che chiude il nostro Dossier “Odissea italiana. Storie dell’immigrazione italiana in Francia 1860-1960 e oltre” descrive l’esperienza migratoria di una ragazza, proveniente da un paesino qualunque della campagna italiana e trasferitasi a Parigi in epoca attuale. I fatti narrati traggono ispirazione dalla particolare esperienza dell’autrice e dalle testimonianze raccolte dei molti connazionali emigrati in Francia.

Link alla presentazione del Dossier bilingue: «Odissea italiana» e agli articoli pubblicati in lingua italiana.

Angelina era contenta. Non le mancavano le urla della madre che risuonavano nella tromba delle scale prima di pranzo, né la mancata intimità di quella camera solcata dai fratelli e dai loro amici, in una promiscuità gioiosa ma comunque eccessiva per il suo carattere timido e riservato.

Quel nuovo paese individualista, in cui ognuno conduceva la propria vita secondo ciò che lei amava definire un «sano cinismo», sembrava fatto apposta per lei. Contrariamente dal suo paese natale, in quella società prendeva forma la selezione naturale di Darwin. Il sostegno reciproco aveva sempre costituito un comandamento quasi religioso nella comunità del quartiere in cui era cresciuta; legge non scritta di un povero ma virtuoso regno i cui confini erano delimitati dalla fine di una strada sterrata o dall’inizio di un terreno incolto.

ricordiL’appartenenza al borgo determinava la natura degli scambi relazionali fra coloro che vi transitavano: i parenti degli abitanti erano tutto sommato bene accetti (poiché «il sangue non è acqua»), mentre gli amici erano visti con sospetto e non era scontato che gli fosse ricambiato il saluto, i coniugati tramite matrimonio religioso diventavano invece i figli di tutti: passerotti da cibare ed educare alla vita come appena usciti dal nido. Entrare a far parte di quel “clan” non era cosa di poco conto: significava assumerne i diritti e i doveri soprattutto quelli ai quali non si poteva in nessun modo sottrarsi, come la raccolta delle olive e l’organizzazione del pranzo della domenica, seduti ad una lunga tavola assieme ai vicini e ai parenti: non parteciparvi sarebbe stato considerato un vero affronto, quasi un segno di guerra, inaccettabile e, come diceva la madre, irrispettoso nei confronti della parmigiana di zia Concetta o del baccalà della signora Anna. Solo un funerale o una calamità naturale avrebbe potuto far vacillare quell’ordine, sedimentato da decenni di pratiche e succedutosi con un rigore ed una fede quasi religiosa. «Non ho voglia», mormorava rassegnatamente Angelina al fratello Antonio ogni volta che veniva richiamata ai suoi doveri domestici.

A Parigi tutto le sembrava così semplice e leggero… Nessun richiamo all’ordine, nessuna responsabilità. Non aveva da pensare che a se stessa, chiunque ne avrebbe gioito eppure Angela, durante i primi giorni, si sentiva traditrice e irriconoscente, l’una e l’altra cosa, nutrendo un forte senso di colpa per aver abbandonato la sua famiglia. Le capitava spesso di domandarsi come si svolgesse la vita giù al borgo. Sarebbe stato Pietro a rincalzare le copertine di Chicca durante la notte? Chi si sarebbe ricordato di mettere al sole la cuccia di Bacco dopo la pioggia? Chi avrebbe aiutato Mario a fare i caffè nell’ora di punta? Chi avrebbe scambiato due parole con la vecchierella all’angolo della chiesa? Molte altre domande le affollavano la mente procurandole una fastidiosa fitta allo stomaco e riempiendole gli occhi di lacrime… La verità era che di quell’auspicata indipendenza finalmente raggiunta non sapeva proprio che farsene e quel declassamento da Angelina a cittadina metropolitana l’aveva decisamente disorientata. Ci mise del tempo a capire che da quella nuova libertà avrebbe tratto un grande giovamento.

«Aveva ragione la nonna: guardati bene da chi pensa solo al proprio conto». Avrebbe dovuto reprimere, perciò, quella parte di sé che l’aveva spinta ad investire nel proprio futuro? Riconosceva che ogni minima azione che aveva preceduto la sua partenza, nonché la decisione stessa di farlo, era nata dal suo egoismo e dalla sua ambizione che le avevano permesso, però, di trovare un lavoro e di sentirsi in sintonia con quel nuovo mondo. Zia Maria avrebbe sicuramente visto la manifestazione del diavolo in Parigi: folle di individui che affollano le strade premendo distrattamente l’uno contro l’altro, ognuno con i propri pensieri, dimentichi del plumbeo colore delle nuvole che avrebbe portato la pioggia nel pomeriggio, o delle grandinate invernali per le quali tutti nel paese correvano nei campi a mettere al riparo i raccolti. «I tempi sono cambiati» le dicevano i suoi genitori, ma questa semplicistica spiegazione non la convinceva. Lei, classe 1986, proveniente da un piccolo paese del sud Italia, aveva vissuto entrambe le realtà ed era convinta che l’una non escludesse l’altra.

Fu in balia di questi pensieri che Angela si risvegliò nel suo appartamento di rue Saint-Georges. Sentì il rumore ovattato di uno sciacquone in lontananza e uno scalpiccio. Dalla cucina provenivano rumori di stoviglie. Si sforzò a fantasticare sulla familiarità di quei suoni: Alberto che usciva dal bagno con i capelli ancora bagnati, la sorellina che rincorreva il gatto nel corridoio e la madre che preparava la colazione per lei e i fratelli. Avrebbe dato qualsiasi cosa per farsi buttare giù dal letto da Antonio o per farsi rimproverare dal padre di non essersi ancora alzata; la verità era che nessuno sarebbe mai venuto a tirarla fuori da lì: «Se mi prende un malore sono morta. Mi troveranno solo dopo giorni, a causa dalla puzza che emanerà il mio corpo in stato di decomposizione o indispettiti per il mancato pagamento dell’affitto». Era questo che durante i primi giorni di permanenza a Parigi soleva ripetere all’amica Gianna durante le lunghe chiacchierate su Skype.

L’emigrazione oltre i confini nazionali non era un fenomeno sconosciuto nel paesino di Angela se non fosse stato che, da qualche tempo, nessuno ne parlava più. Lei, a differenza dei suoi antenati, non scappava dalla fame, né era stata posta difronte ad una scelta forzata. La decisione di partire era stata appoggiata dai genitori che vedevano in lei la possibilità di vivere, indirettamente, ciò che a loro non era stato concesso…

Ad un tratto qualcuno bussò alla sua porta facendola sussultare: era il coinquilino Lucas che la invitava a bere il caffè. Quando Angela, un giorno, gli aveva chiesto perché avessero preferito lei agli altri candidati lui le aveva risposto che Juanita (la ragazza cilena) l’aveva adorata fin dal primo momento poiché le ricordava una cugina di Valparaíso, mentre lui ed Erick erano sicuri che, in quanto italiana, sarebbe stata brava in cucina. «Che stupida» si disse, era chiaro che i pregiudizi sulla sua italianità l’avessero preceduta… Ricevette con piacere i complimenti di Lucas per il caffè che, alla fine, aveva preparato lei servendosi della caffettiera che la madre le aveva regalato poco prima di partire. Raccolse con il cucchiaino le ultime gocce sul fondo della tazza e, guardando il sole che si rifletteva a intermittenza sulle finestre del palazzo di fronte, si disse che se quel giorno avesse più o meno piovuto, in fondo, non avrebbe avuto tutta questa importanza.

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Giulia Del Grande
Giulia Del Grande, toscana di origini, dopo una lunga permanenza in Francia, dal 2018 risiede stabilmente a Copenhagen. Dopo aver ottenuto la laurea in Relazioni Internazionali ha specializzato la sua formazione nelle relazioni culturali fra Italia e Francia in epoca moderna e contemporanea lavorando a Bordeaux come lettrice e presso varie associazioni e istituti del settore, svolgendo, in ultimo, un dottorato in co-tutela con l'Università per Stranieri di Perugia e quella di Toulouse 2 Jean Jaurès. Collabora con Altritaliani dal 2016.

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