«Se un giorno capirò». Un’infanzia da emigrante.

Questa è la testimonianza di Tina, una bambina nata e cresciuta nella campagna Toscana. Nel marzo del 1936 fuggì con la madre a Marsiglia per raggiungere il padre, emigrato politico antifascista. Il racconto è nato dalla fantasia dell’autrice ma si ispira a storie e fatti realmente accaduti.


Link all’insieme del Dossier bilingue «Odissea italiana». Storie e analisi dell’immigrazione italiana in Francia. 1860-1960. Tutti i contributi.

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Avevo solo sei anni. Ricordo che mi piaceva sedermi sul muretto di fianco al pollaio dondolando le esili gambe e tenendo per mano la bambola dagli occhi di bottone. Mi capitava spesso di riscaldarmi, così, al tiepido sole invernale, intonando fra me e me un ritornello imparato a scuola con gli altri Balilla: «L’Italia il primo fiore è donato a chi ha nel cuore il suo grande condottier…»

Volgeva l’anno 1936, Tina abitava in un casolare nella campagna lucchese, con la madre Emilia ed il nonno Ugo.

Avevo unicamente un vago ricordo di mio padre del quale la mamma, ogni sera prima di andare a letto, mi narrava le gesta descrivendolo come un eroe cavalleresco nell’atto di portare a termine un’importante missione: salvare il suo Paese.

Piero mancava da casa da circa quattro anni ed Emilia era una donna forte i cui nervi crollavano unicamente all’arrivo del postino quando, con la lettera in mano, correva a chiudersi in camera affogando i singhiozzi nel cuscino. I pianti della madre erano la conferma per Tina che il padre fosse ancora vivo e le infondevano ogni volta un senso di inspiegata euforia. La camera era adorna di un armadio in noce, un comò ed una grande valigia che Emilia faceva e disfaceva ad ogni nuova stagione, custodendovi i suoi migliori vestiti e il corredo di nozze, come in attesa di un’improvvisa partenza per la luna di miele.

La mia giornata ruotava attorno alle attività contadine del nonno, con il quale mi divertivo a cibare i conigli, snocciolare i fagioli e mettere i pomodori ad essiccare al sole, e anche alle adunate dei Balilla alle quali ero obbligata a partecipare.

Ugo era di corporatura robusta e dall’aspetto burbero, era geloso della nipote e protettivo nei confronti di quella figlia tanto giovane quanto bella che in molti, credendola ormai vedova, non si facevano scrupoli ad avvicinare scatenando le sue ire.

Tina, alla sera, gli si accoccolava in grembo, appoggiandogli la testa sul petto e, ascoltando ogni suo stanco respiro, si lasciava avvolgere dal caldo profumo di carne e pomodoro che esalava dalla cucina.

Seppure i giorni scorressero uno uguale all’altro, tutto era assopito in una febbrile e tacita attesa.

Nella notte del 23 marzo 1937 la mamma mi svegliò improvvisamente, dicendomi di non fare storie e togliendomi frettolosamente il pigiama… Notai che le sue mani stavano tremando e il nonno provvide ad allacciarmi le scarpe.

Tina fu velocemente vestita con un giacchettino di panno azzurro, troppo leggero per la stagione, e con un cappello di lana pungente che le fu calato fin sopra gli occhi. D’un tratto le sicure e forti braccia di Ugo la alzarono, stringendola a sé; egli mosse delicatamente le robuste e ruvide dita sul volto della bambina liberandole gli occhi dal panno infeltrito e descrivendo lentamente con la punta dell’indice i suoi tratti infantili: l’incavo degli occhi, il piccolo naso, la rotondità delle narici, la pienezza delle guance e l’angelica carnosità delle labbra. D’un tratto la voce di Emilia li chiamò a sé per poi confondersi nuovamente nel mormorio notturno che si era creato fuori del portone di casa. Da quel momento tutto iniziò inesorabilmente a correre. Alla rassicurante stretta di Ugo, si sostituì bruscamente quella incerta della madre. Un camioncino al di là della corte le aspettava.

Quando mi volsi per incontrare nuovamente il volto del nonno tutto si era fatto nero intorno a me. L’oscurità mi aveva sottratto per sempre al suo affetto e alla spensieratezza della mia infanzia.

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Sobbalzando per un tempo che le parve infinito, giunsero finalmente ad una stazione. Il sole, rischiarando timidamente l’orizzonte, mostrò loro un vagone merci che le avrebbe condotte a Ventimiglia dove una «persona fidata» le avrebbe aiutate a passare la frontiera.

A circa metà del viaggio avevo la gola arsa dal calore e dalle polveri sprigionate dal motore del treno. Io e mamma passammo diverse ore arrotolate l’una sull’altra, accennando unicamente piccoli e scomodi gesti e ascoltando il fischio del treno che urlava al veloce passaggio in ogni stazione…

Durante una sosta più lunga delle altre, udirono le voci di due uomini e la porta si aprì di schianto accecandole di una calda e bianca luce che a Tina sembrò di riportarla alla vita. Uscirono lentamente stendendo le articolazioni doloranti. I due indicarono alla donna una macchina parcheggiata dall’altro lato della ferrovia e, appena Emilia intravide l’uomo al lato della vettura, si lasciò scappare un urlo di gioia e gli corse incontro. Tina la seguì e quando riconobbe i familiari singhiozzi materni nel bavero dell’uomo, finalmente capì: quello era suo padre.

Piero era un emigrato politico, dopo aver perso il lavoro in Italia in quanto socialista, aveva deciso di combattere il regime all’interno di una delle organizzazioni antifasciste che si era creata in Francia, sfuggendo così alle persecuzioni delle camicie nere e rimanendo in attesa delle condizioni necessarie per organizzare la fuga di Emilia e Tina.

Ritratti di italiani antifascisti emigrati in Francia. Mostra Ciao Italia! a Parigi.

La nuova casa era un buio appartamento nella periferia di Marsiglia. La città le parve grigia e rumorosa, l’unico animale che Tina notò al suo arrivo fu un gatto malaticcio che zampettava su un marciapiede, incerto sulla meta; non c’erano campi ma strade, macchine ed edifici dai quali entravano ed uscivano uomini e donne nascosti dietro i loro scuri cappotti. Fin da subito si accorse di non capire un accidente di cosa si dicessero: la loro lingua le sembrava un insieme confuso di bisbigli. La palazzina era composta unicamente da italiani, provenienti per lo più dal Nord e Sud Italia; capirsi era un gran casino, ognuno parlava il proprio dialetto e la comunicazione si faceva anche attraverso occhiate, sorrisi e strette di mano. Tina e la madre si integrarono con grosse difficoltà nella società francese che, pur sembrando abituata alla loro presenza, le chiamava dispregiativamente «macaronis» o «ritals».

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Non capii cosa volessero comunicarci con quegli appellativi fino a quando non iniziai ad andare a scuola, da quel momento mi fu tutto più chiaro. La mamma, che non sapeva né leggere né scrivere, riponeva grandi aspettative in quel mio nuovo primo giorno di scuola e mi vestì con gli abiti buoni della figlia dei piemontesi del piano di sotto. Mi pettinò lungamente i capelli, voleva che fossi perfetta ma ciò non mi risparmiò le occhiate sospettose e le risate sfacciate dei compagni in risposta ai miei silenzi.

L’accoglienza auspicata non arrivò neppure dalla maestra la quale, il primo giorno, dopo averla invitata alla lavagna le tirò due schiaffi difronte a tutti per non aver risposto alle sue domande.

A stento riuscii a trattenere le lacrime. Per molto tempo la odiai e, come lei, tutti quei bambini che erano, solo in apparenza, così simili a me. Quel giorno la mamma mi aspettò all’uscita, appena mi vide arrivare accennò uno speranzoso sorriso che durò giusto il tempo di leggere nei miei occhi il pianto. «Je n’y suis pour rien!». Adesso so definire la sensazione che provai in quel momento. Volevo tornare dal nonno. Improvvisamente tutto mi si sembrò insopportabile e allo stupore della novità subentrò una lacerante nostalgia di casa e quel 27 marzo rimase per molto tempo una ricorrenza quasi luttuosa.

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Dopo settantadue anni da quel momento molte cose sono cambiate nella vita di Tina. Il padre nel Novembre del ‘43 fece ritorno in Italia e morì come partigiano in Val d’Aosta. Per uno strano segno del destino, alla fine del conflitto Tina e la madre decisero di rimanere in Francia spostandosi a Lione dove ad Emilia era stato promesso un lavoro in una fabbrica di tessuti. Ugo, invece, con lo scoppio della guerra si lasciò morire di tristezza e di stenti, anche a causa dei tedeschi che, durante la ritirata, uccisero le sue bestie, facendo del grande e ormai vuoto casolare di campagna un deposito d’artiglieria.

Cos’altro ci restava da fare? Tornare in Italia? La guerra ci aveva portato via tutto ciò che avevamo di più caro e, assieme agli affetti, il nostro orgoglio italiano che capimmo fosse stato meglio dimenticare. Non ci restava altro che mantenere il posto che ci eravamo faticosamente costruite nella società francese, e riprendere la vita da dove l’avevamo lasciata, così come ci era stata tolta, senza troppe esitazioni…

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Giulia Del Grande
Giulia Del Grande, toscana di origini, dopo una lunga permanenza in Francia, dal 2018 risiede stabilmente a Copenhagen. Dopo aver ottenuto la laurea in Relazioni Internazionali ha specializzato la sua formazione nelle relazioni culturali fra Italia e Francia in epoca moderna e contemporanea lavorando a Bordeaux come lettrice e presso varie associazioni e istituti del settore, svolgendo, in ultimo, un dottorato in co-tutela con l'Università per Stranieri di Perugia e quella di Toulouse 2 Jean Jaurès. Collabora con Altritaliani dal 2016.

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