Gianfranco Lauretano: “Rinascere da vecchi”.

Un libro di poesie fatto di domande, l’ultimo di Gianfranco Lauretano Rinascere da vecchi, che ne propone una in particolare, contenuta nel titolo stesso dell’opera, e rivolta da Nicodemo a Gesù nel Vangelo di Giovanni (3,4): Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?

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Gianfranco Lauretano è nato il 19 febbraio 1962 a Sessa Aurunca, provincia di Caserta e vive a Cesena. Di lui abbiamo già parlato nell’articolo visibile al link: http://www.altritaliani.net/spip.php?article1548

In quest’articolo di Missione Poesia parleremo del suo ultimo libro Rinascere da vecchi uscito nel 2017 per la collana di poesia Ancilia, Quaderni di poesia contemporanea, diretta da Giancarlo Pontiggia, per la Casa Editrice Puntoacapo. Il libro ha già ottenuto diversi premi e segnalazioni a livello nazionale.

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RINASCERE DA VECCHI

Di domande i poeti se ne pongono parecchie: l’interrogarsi, il cercare le risposte, il condividerle con gli altri fa certo parte del “mestiere”, del “fare poesia”: perché è proprio questa la caratteristica dell’artigianato della parola, che può compiere un buon manufatto solo attraverso la ricerca e lo scavo interiore dal quale emergono – appunto – le domande. Gianfranco Lauretano, nel suo ultimo libro Rinascere da vecchi, parte proprio da una domanda, contenuta nel titolo del libro, e rivolta da Nicodemo a Gesù nel Vangelo di Giovanni (3,4): Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?

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Nel libro, l’autore, mosso da un sentimento che tenta di riassumere il senso dello scorrere del tempo e dell’età che adesso lo contiene, indaga sul passato e sul presente in termini di incontri, di esplorazioni di spazi e luoghi, di resoconti di viaggi facendoli rivivere al lettore con gli occhi dell’osservatore attento, non solo ai dettagli, ma al vero significato che ne nasce, specie attraverso la costante di una presenza spirituale che a tratti accompagna, a tratti abbandona, ma sempre è richiesta e ricercata dall’autore stesso, per una continua rinascita alla vita.

Così, anche intraprendendo una sorta di viaggio a ritroso che parte dai luoghi dell’infanzia, attraversa le città con cui ha intessuto rapporti, si sofferma sulla città del vissuto quotidiano, ripercorre i luoghi dell’anima, approda nella constatazione della necessità dell’amore, Lauretano ci mostra le possibili vie di contatto con il mondo, in un’età ormai matura per il poeta che torna a scrivere i suoi versi.

Dopo un tentativo di approccio al passato, attraverso il ritorno alla casa dell’infanzia, in cerca dell’approvazione del padre che ormai non può più arrivare, l’autore decide di smettere di aspettare, quasi interrompendo i legami con i propri fantasmi, e di tornare nel presente.

Questo è il tempo della Passeggiata bolognese dove affiorano, così come in altri testi dedicati ad altre città, le descrizioni della metropoli come terra di confine, come spazio sorpreso nell’inquietante incedere dei suoi variegati abitanti, non più riconoscibili per un noto timbro dialettale, nello scenario del traffico troppo intenso, nello squallore dei suoi viali, delle sue vetrine, dei suoi portici e nella scoperta dell’assenza di pietà nelle vicissitudini dei rapporti umani, dove gli uomini sono ormai omologati e predisposti più al male che al bene: Per la pianura m’insegue un cielo grigio/basso come sempre la vergogna/e come il male presagio di tempesta […]; immersi solo nel prestare attenzione alle televisioni, ai video, ai cellulari: una ragazza sente sbigottita la musica/o cerca nella rete un messaggio/e anche questo non dice niente […]; protagonisti di una vita di branco che incute terrore: E dietro la fila delle case/sui colli romagnoli/forse son tornati i lupi, a branchi/e si preparano a scendere nella valle […]; residuali nell’assenza di aspettative per gli anziani: Vagano due vecchi nella casa piccola/trascinano i piedi e gli ultimi anni/preparano senza fretta la cena… Non dicono più niente […]; dolorosi nella rinuncia di speranza per i genitori che vedono partire i propri figli per mancanza di lavoro: E rimane mille ore nel campo/statua di sale, medusa/coi piedi nelle tracce del figlio… solo la presenza di un profilo che comparisse nella foresta di semafori che sapesse parlare bene, che sapesse accompagnare porterebbe conforto, anche semplicemente nel dire ci sono, non ti tolgo la notte/la lotta, ma sto dove finisce la piazza/e nella lunga traversata della sera/abbassano il viso gli assenti. A questa presenza il poeta si affida – anche scegliendo, per un testo successivo, un attinente exergo di Carlo Betocchi – sperando che si sia decisa a prendere le redini a spazzare il secolo dai rifiuti a nascere grano nella pula per un ritorno al lavoro felice, per una rinuncia alla solitudine staccando dal dorso dell’uomo la superbia del demiurgo.

Significativo, nel libro, il posizionamento delle due poesie, una di seguito all’altra, dedicate al Natale e alla Pasqua, quasi a scandire i due momenti fondamentali del calendario religioso cristiano, i due momenti – se vogliamo – che rinnovano ogni volta la nascita e la rinascita contemplando nel testo del secondo una protezione per la vita stessa, attraverso la bellissima metafora del gesto delle mani che proteggono – mentre si scaldano – la fiamma dei ceri della cerimonia pasquale, per non farla morire, gesto che prevale sugli occhi ferini dei lupi – simbolo di ferocia, o anche solo di assenza di valori – che circondano la zona quasi pronti all’azzanno.

Cuore del libro due capitoli: il primo dedicato all’amata Russia e al recente viaggio compiuto dall’autore in quelle terre, viaggio che ha fatto rinascere – si noti ancora la necessità di questo termine – quell’amore sopito che ad esse lo lega, quella sensazione di conforto per le presenze rincontrate – e non solo nel ricordo degli autori prediletti – quel vago odor di giovinezza che lo conduce non solo nel passato ma anche nel presente, grazie alla lingua, madre e origine del suo innamoramento con tutto il mistero che ne fa parte: E’ sempre del mistero che ci innamoriamo/perché l’amore è l’attimo/che dura così poco/in cui il mistero si dissolve/e improvvisamente un terra ai confini del mondo/ci riguarda.

Il secondo contenente la domanda principale che riaffiora in tutta l’opera, ovvero se può l’uomo rinascere da vecchio, espressa da Nicodemo a Gesù. Qui infatti, Lauretano, affronta il tema che più gli sta a cuore: quello dell’amore e degli ostacoli che lo allontano dall’uomo dove il primo è certamente quello dell’età, se pure non disgiunto da quello – ancora – del mistero che rende ogni uomo solo e unico. Il concetto è ben espresso nella bellissima poesia di chiusura del capitolo laddove il desiderio provato per la donna amata, per il raggiungimento del suo corpo nel cuore della notte, vagheggiato durante il viaggio di ritorno in autostrada, è motivo di riflessione per capire come, proprio la notte, anche una volta raggiunta la donna, non svelerà quel mistero ma anzi, si frapporrà fra di loro, rendendoli per sempre lontani in qualche modo, non permettendogli mai di toccarsi l’anima: […] per quanti viaggi compiamo/per quanti ricongiungimenti, siamo soli/come in un autogrill schiaffeggiato dall’aria/dai lampioni inadeguati, e per quante/carezze possiamo offrire ai nostri corpi/non toccheremo mai l’anima del tutto.

Il libro si conclude con il capitolo Preludi dell’anima, il cui nucleo fondante è la ricerca di un’ulteriore spiegazione che riguarda la relazione tra il vivere quotidiano e l’anima nella sua essenza, ambientata in un condominio e narrata attraverso il resoconto di una giornata qualunque di una donna, del suo vivere feriale, mettendo in relazione i suoi gesti e i suoi sentimenti con il mondo che la circonda, con i protagonisti che determinano e scandiscono il suo stesso vivere. Così al mattino la vecchia/con l’innaffiatoio e la faccia/buona che saluta, le saracinesche [che] si alzano brusche, la spazzola [che] non può/ togliere [rti] dalla testa lo strascico dei sogni; le auto [che] fanno ressa/già di fronte a casa sono lo scontato e l’invisibile che circonda la protagonista che comincia a chiedersi se l’anima esiste e dov’è, specie a sera, quando ritorna dal lavoro e si cucina qualcosa, accorgendosi che non succede più niente mentre l’anima, quella sì, è qualcosa che succede, qualcosa che non si trova nello schermo del televisore, che sta sveglia nei sogni e che conviene ascoltare, dice l’autore, proprio come si ascolta la donna che sta nel fondo di ogni uomo … a conversare col profondo… meglio lo splendore eterno/che palpita in lei segretamente.

Dice l’autore che queste sono le poesie dei suoi cinquant’anni e che la domanda di Nicodemo è valida sin dal momento della nostra nascita, quando vediamo per la prima volta il mondo, domanda che cade col disincanto del vivere stesso, ma che va recuperata nella sua dimensione di stupore e promessa per un rilancio della memoria verso il futuro, per una collocazione della ferita che da sempre è la più dolente, ma la più meravigliosa. Ci piace questo muovere dalle cose, e questo muovere le cose, di Lauretano, autore da sempre impegnato nell’atto di porgere i suoi versi come nati dalla meraviglia della scoperta del mondo, anche laddove il buio e la sofferenza, la barbarie e la crudeltà, insite nell’uomo, determinano percorsi nei quali non ci si vorrebbe riconoscere. Facile dire che qualcuno ci ha abbandonato, che non si fa più vivo, che l’anima si è persa. Difficile invece continuare a cercarlo e a cercarsi, ritrovarlo e ritrovarsi, provare a capire come tenere vivo il legame, come lasciarsi accompagnare verso l’anima che è nostra, come utilizzarla al meglio… Anima mia, fa’ in fretta./Ti presto la bicicletta,/ma corri. E con la gente/(ti prego, sii prudente)/non ti fermare a parlare/smettendo di pedalare [Giorgio Caproni, Ultima Preghiera, da Il seme del piangere]

Qualche testo da: Rinascere da vecchi

Ho risalito il fiume fino alla casa

dell’infanzia, alla ghiaia nel cortile

alle valli profumate di terra e frutta

ho camminato a lungo sostando poco

e quasi a caso nei giardini sulle rive

verdi e stretti tra la strada e il fiume.

Arrivato ho aperto le mani, rilasciato

le storie, le opere dei miei giorni

e avrei voluto farti un rapporto dettagliato

ma un nodo mi serrava la gola.

Perché tutto ciò che ho fatto e volevo dire

aspettava la tua approvazione

padre, tutto consisteva in quella

ma ho sbagliato, il figlio che vive

glorifica il padre. Così la smetto

di aspettare e torno nel presente

dove l’acqua del fiume scende pigra o svelta

l’erba rinverdisce e secca nei giardini

i fiori spuntano brevemente sulla riva.

****

Ponte di parole

Oggi ho sognato la mia giovinezza

nella figura premurosa dl Svetlana

la guida-amica, il ponte di parole.

La mia giovinezza mi conduceva

dentro una terra senza confini apparenti

liquida e vasta, una Russia delle età

e trovava parole per tracciare un limite

disegnare le case, un ritratto invisibile.

E mentre Svetlana mi portava

di definizione in definizione

io la proteggevo per rinnovare

l’ascolto di me stesso in lei.

Per troppi anni ti ho trascurato

mia giovinezza, unico ritratto

sola chance di non morire

data alle mie parole, tu c’eri

anche se giocavo a fare il vecchio

vivificando i racconti antichi

in una resurrezione di parole

fioritura stupefacente di mandarini

in un giardino di Russia.

****

Tu sei per me una città che oltrepassa il presente

e si avvia ad un futuro incerto di costruzione

e distruzione della propria storia: architetti smemorati

dimenticano progressivamente l’abisso di tempo

da cui provengono le erbacce

e non sentono quali racconti bisbiglino

oggi di nuovo, più fiocamente, gli alberi

dei giardini e dei viali e quali ombre si stanchino

di riandare sempre per le stesse strade e progettino

di trasferirsi altrove, di visitare altri fantasmi.

Tu sei per me una città così. Nessuna malattia

sta guarendo, nessuno problema si risolve

nessun dolore viene risarcito, nessun evento

nessun fatto gesto circostanza passa.

*****

Una corolla di solitudini

si mette in moto nel palazzo.

Saracinesche si alzano brusche

passi si trascinano risuonando

da un appartamento all’altro

i tubi gorgogliano sfacciati

all’aprirsi delle docce

i caffè ascendono senza

rumore, solo col profumo.

*****

E improvvisamente lo capisci

da quel cibo preparato male

capisci dal cibo che non diventa

pietanza, gusto, non manicaretto

capisci che niente diventa

qualche cosa, che il tempo

s’è arrestato non facendo

neppure l’atto di fermarsi

perché qui, nelle cucine

gli uffici il traffico le scuole

qui non succede più niente.

E l’anima è qualcosa che succede.

Cinzia Demi

Bologna, 28 gennaio 2018

(Riproduzione riservata)

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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