What’s left? Cosa è rimasto, cosa è sinistra? Questa domanda emerse negli anni novanta, ma dovrebbe far riflettere ancora oggi. Quando cadde il socialismo sovietico, la prospettiva del futuro abbandonò la sinistra internazionale. Ci si chiese un po’ ovunque cosa fosse rimasto di un progetto alternativo alla destra conservatrice e liberale. Poteva essere rimasto qualcosa di quella disastrosa esperienza di preparazione al comunismo? Il duplice significato di left, sinistro e significativo, diceva moltissimo. Nomen omen, potremmo dire con Plauto, ovvero il nome è un presagio perché indica il destino di una cosa. La sinistra non è right, diritto, ma qualcosa d’altro e se vogliamo di più ambiguo, quando non è ambivalente. Nelle democrazie liberali dell’alternanza, left fa pensare a un’opposizione, right a un governo. A meno che left non approfitti di una certa ambivalenza. Insomma, senza la prospettiva di una rivoluzione comunista, cosa era rimasto? Ma anche della socialdemocrazia europea, cresciuta all’ombra del muro tedesco, cosa era rimasto?
A dire la verità, il dibattito su cosa fosse rimasto (o sua cosa fosse la “cosa”, come la chiamò l’ultimo segretario comunista), non investì più di tanto l’Italia. Anzi, dopo ‘cinquant’anni di malgoverno democristiano’ – strillavano i più candidi orfani del partito – era o no arrivato il momento di governare? Visto, tra l’altro, che il giudice Di Pietro stava demolendo la prima Repubblica italiana – la democrazia della non alternanza storica – non era finalmente giunto il momento, si chiedevano tanti a sinistra, per una assunzione di responsabilità di governo da parte dell’opposizione storica post-comunista? Qualcuno più accorto ironizzò presto sull’Ultima spiaggia di Occhetto, e solo l’acqua di Capalbio beach poteva riflettere l’acume di quella battuta sulla sinistra un po’ radical e un po’ chic. Ma in verità il problema era proprio quel poco rimasto di sinistra, nel paese europeo dove più forte era stato il Partito comunista.
Berlusconi fece però nascere l’anti-berlusconismo L’anti-berlusconismo si trasformò presto in una sedicente diga popolare, e perciò creduta di sinistra, contro il Cavaliere nero. Ma presto si capì che la diga di popolare aveva ben poco e che il Cavaliere stava diventando il protagonista della seconda Repubblica italiana, quella dell’alternanza ad personam. Soprattutto, il Cavaliere stava privando la sinistra della capacità di riflettere, accecandone lo sguardo sul futuro. La scorciatoia della demonizzazione mise tutto sul piano del presente, mentre occorreva ripartire da qualche nuova parola d’ordine post-rivoluzionaria. Niente riflessione sul passato, niente futuro.
La manifestazione dei lavoratori Fiom, nei giorni scorsi, con la minaccia dello sciopero generale, mi è parsa come uno strano presagio, segno di sventure. Non mi riferisco di certo alle violenze di cui ha parlato il Ministro degli Interni, di cui si dovrebbero preoccupare i sindacati di polizia: ma come si fa ad essere così irresponsabili? Mi riferisco ad un altro presagio, ossia che il segretario sindacale Bonanni riesca alla fine ad avere ragione, quindi a privare la sinistra di quel poco che le potrebbe essere rimasto nel dna: la capacità di problematizzare il lavoro. Mi spiego. Da tempo Bonanni afferma una cosa molto semplice: il lavoro non può essere considerato un diritto acquisito, qualcosa che spetta per legge, a cui devono corrispondere un salario adeguato e condizioni operative decenti, cioè tutele che con il conflitto sindacale occorrerebbe difendere e se possibile migliorare. Il lavoro è altro, dice Bonanni. Bene, non mi occupo di cos’altro aggiunge Bonanni, mi limito a dire che la sua vittoria sarebbe questa: dimostrare che di quell’altro, del futuro del lavoro, non c’è traccia nel dibattito di sinistra. Perché non c’è la capacità di riflettere sul futuro del lavoro, sul New Labour potremmo dire.
New Labour non per caso, ma per un preciso riferimento all’esperienza di Tony Blair, che emerse proprio dal dibattito su what’s left. Blair era ossessionato dagli atteggiamenti anti-sociali (di chi faceva pipì per strada) e dalla scuola privata dei suoi figli (si legga l’autobiografia per convincersene). Fallì nella ricerca della terza via tra Stati Uniti ed Europa, a seguito della guerra in Iraq, ma le due ossessioni lo indebolirono anche lungo la terza via tra destra e sinistra, ossia una left piena di argomenti right, che può diventare una right piena di argomenti left: insomma, l’ambivalenza come strategia per far uscire la sinistra dal ruolo di opposizione naturale, nelle democrazie dell’alternanza. Tuttavia, Blair una cosa l’aveva capita bene. Il sindacato inglese, che aveva tenuto ostaggio il Labour, doveva essere spinto ad accettare una nuova difesa del lavoro, inserendolo in un quadro sociale basato sull’opportunità, non sulla rivendicazione. Un’opportunità da ottenere mediante la tessitura di una rete (ossia di un capitale sociale) da cui trarre forza, e non intesa come struttura di salvataggio. Una rete-trampolino nella quale, al di là di ogni retorica interclassista, il lavoro si affiancasse all’istruzione e ai servizi sociali e di cittadinanza.
La riflessione sul lavoro è questa. Non è possibile pensare al lavoro senza considerare il quadro formativo e sociale, quindi senza considerare quelle condizioni per cui una comunità è capace di produrre opportunità lavorative ben retribuite e svolte con dignità e decenza. Mi auguro che il futuro segretario sindacale Camusso non proclami lo sciopero generale, come rito di passaggio o d’iniziazione. L’Italia ha bisogno di unità sindacale. Meglio una gallina domani, che un uovo oggi, ovviamente se si crede nel futuro.
Emidio Diodato
Docente di Scienza politica
Università per Stranieri di Perugia