Paolo Rossi. Fantasmi di un tempo che non tornerà.

Fantasmi di un tempo che non tornerà. Fine 1977, dopo la scuola. Nel pomeriggio buio, che fa dello stadio un luogo di fantasmi, una partita di calcio, amichevole. Sampdoria contro il Lanerossi Vicenza, dove c’è un giocatore giovane, che ha segnato tante reti in serie B e ora comincia a farne anche in A: Paolo Rossi. Magro, maglia fuori dai pantaloncini. Su un traversone arresta il pallone con il sinistro e subito con lo stesso piede (il che non è semplicissimo) parte. Brucia il difensore. Tiro respinto, rete di un compagno sulla ribattuta.

Poche settimane più tardi, 31 dicembre, partita di campionato, Genoa-Lanerossi. Sole d’inverno e Rossi, un lampo giallo al parabrise. Rimessa laterale, la restituisce di testa e scatta. Il calcio è un sistema di segni, diceva quell’adorabile, infelice bugiardo che era Pier Paolo Pasolini. Una lingua. Rossi adesso è appena dentro l’area di rigore, il suo compagno gli ha lanciato il pallone perfettamente, seguendo il suo movimento. Tiro con l’esterno del piede destro, rete. Una giocata meravigliosa. Di entusiasmante semplicità. Johan Cruyff diceva: “tecnica non vuol dire essere capaci di palleggiare 1000 volte. Chiunque può farlo con l’allenamento. E poi puoi lavorare al circo. Tecnica è passare la palla con un tocco, con la giusta velocità, sul piede giusto del tuo compagno”. Finiva quel giorno il 1977.

Nel quartiere era arrivata l’eroina e io avevo visto una ragazza sulla spiaggia. Da lontano. Jeans e capelli lunghi. Persone che la prendono, la portano via. Come in un sogno che sogno non è. L’avevano trovata morta, la mattina. Paolo Rossi nel frattempo è diventato famoso, è andato ai campionati mondiali in Argentina del 1978. I più belli di sempre. Per me. La meraviglia delle partite a mezzanotte e un quarto. La televisione (ancora in bianco e nero in casa mia, già a colori per i vicini più benestanti), le immagini dal satellite con lieve, mirabile sfasamento tra l’audio e l’immagine. Il ronzio che viene da lontano, da un altro mondo, e chi dirà la bellezza di tutto questo? Paolo Rossi, divenuto Pablito per formidabile intuizione giornalistica (Giorgio Lago, del Gazzettino), era in quel momento il giocatore più grande, almeno per noi. Smunto e pallido come la fine degli anni Settanta. Quei mondiali avremmo dovuto vincerli noi. Dio sarebbe sceso dalle montagne dell’eternità e la nostra vita sarebbe stata totalmente diversa. Invece no. Zoff prese due reti da lontano, in un secondo tempo in cui gli olandesi picchiarono come dei cani, nell’indifferenza sospetta dell’arbitro. Fine dell’infanzia. La coppa del mondo la vinse l’amata Argentina, triste solitaria y final. Quella della dittatura di Videla. Del geniale allenatore Menotti. Il Flaco. E della sua sigaretta eterna: “il calcio è tempo spazio e inganno”.

Poi Rossi fu coinvolto in una storia sbagliata, di presunte scommesse, e tornò dopo due anni. Anzi no; non tornò mai. Non fu mai più esattamente lo stesso, quel Paolorossi tutto attaccato e imprendibile della fine della mia infanzia. Al suo posto un altro, ma identico, che incontrò il suo destino ai mondiali di Spagna. Aveva giocato le prime partite malissimo. Non so com’è che accadde, quando prese la decisione, ma il vecchio Bearzot (nato vecchio, al tempo in cui la giovinezza non era obbligatoria e la parola vecchio non era un insulto) aveva intuito qualcosa. Un refolo sul mare, un vecchio sogno. E aveva deciso di aspettarlo. Contro ogni evidenza. Fino al Brasile.

Il Brasile non voleva solo vincere il campionato del mondo; voleva avere il potere di farlo con noia, con distrazione e disinteresse. Se quel Brasile avesse vinto la coppa del mondo, il calcio e forse il mondo sarebbero esplosi in mille pezzi e si sarebbero ricomposti in qualcosa che non possiamo sapere. Oggi è il 5 luglio 1982, ho diciassette anni, c’è il sole, il mare, le ragazze in costume da cui distolgo lo sguardo, e chi lo sa cosa porta il destino? Rossi già dopo pochi minuti sul traversone è al posto giusto ma manca il pallone. Questo quel Rossi di cui cotanto ragionammo assieme? I miracoli non accadono sulla terra (scriveva Thomas Mann). Nel calcio, che di questa terra non è, invece sì. Perché a quel punto Rossi segna i gol che sapete. Il primo. Poi Zico di nuovo parla la misteriosa lingua del calcio. Con movimento portentoso si gira e manda a fare gol il dottor Socrates (studioso di testi gramsciani: far finta di essere sani, cantava Gaber). Rossi segna il secondo. L’Italia sta vincendo due a uno, ora siamo nel secondo tempo, il Brasile comincia a sentire questo strano coraggio o paura che ti prende. Il fruscio della morte, del non farcela, della giovinezza fuggita via senza una ragione né un motivo, senza niente. E accade qualcosa. Il giocatore italiano Francesco Graziani fa una bella giocata e serve a Rossi un pallone vicinissimo alla porta. Che come la tristezza è lì a due passi, lo aspetta. Un gol mille volte più facile dei tanti che ha già segnato nella sua carriera. Se segna, la partita è praticamente finita. Rossi arriva sul pallone, lo stadio in perfetto silenzio.
E calcia.

È passato un istante. Ha tirato fuori. La palla dritta, la porta da un’altra parte. Rossi forse ora vorrebbe scomparire. Anche per lui è venuta la grande ora della vita, la grande occasione, e l’ha buttata. Pochi minuti dopo, Falcao segna il 2-2 che eliminerebbe l’Italia. Persino il prudentissimo telecronista Martellini accenna un rimprovero: “purtroppo paghiamo le occasioni sciupate!”. Ma c’è un gioco misterioso del destino messo in moto chissà dove. La grande ora della vita si ripresenta, come in un destino implacabile. Stavolta Rossi fa il terzo gol. Il resto lo sapete. Materia per le trasmissioni televisive e il grande bla-bla-bla.

Rossi continuerà la carriera con tre anni alla Juventus, vittoriosi per la sua squadra ma forse non del tutto brillanti per lui. Poi il declino e un precoce ritiro. Io non seguo più molto il calcio da anni, di partite negli ultimi dieci anni ne ho viste ben poche. Però ogni tanto vado a cercare in quella macchina del tempo che sono i filmati in rete. E tra quelli, spesso, cerco le reti di Paolo Rossi. Il perché non lo so. Finché, pochi giorni fa, mi capita questo. Tra i sogni e il risveglio, mi alzo e in testa ho quel lontano gol segnato da Rossi nel 1977, a Genova. Chissà perché. Poi guardo sul telefono le notizie, e capisco: Paolo Rossi è morto. Ecco, ora lo so. Era passato a trovarmi uno di quei fantasmi di un tempo che non tornerà.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

2 Commentaires

  1. Grande Maurizio. Sempre bello leggerti. Nel mistero sfuggente del gioco del calcio a nessuno è dato di sapere come è perchè si è eletti dalla sorte, in quel periodo la sorte a noi aveva dato Alviero. Forse anche lui un eletto a sua insaputa…..ma lui a noi ha dato soprattutto tante illusioni. Che oggi sono struggenti ricordi. Spero tu stia bene.
    Sempre forza Doria.
    Luigi

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