Il colore delle parole. Riflessioni pitto-linguistiche dopo l’omonima conferenza di Diego Marani

Alcune considerazioni sulla conferenza di Diego Marani, linguista, scrittore, inventore dell’“europanto” e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi che ha avuto come tema le parole e i colori. Di che colore sono le parole? Abbiamo le stesse parole per gli stessi colori? Possiamo creare le parole come creiamo i colori?

Diego Marani ha scherzato con le lingue da quando le ha imparate professionalmente alla prestigiosa “Scuola superiore di lingue moderne per traduttori e interpreti” di Trieste e fin quando la “babele” di quelle ufficiali, ossia quelle di tutti gli Stati membri, all’UE (dov’è stato alla Direzione Generale Interpretazione della Commissione), gli ha ispirato l’“europanto” (misto delle lingue stesse con cui ha scritto anche dei romanzi) ma, arrivato a Parigi, come Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, è stato forse ispirato dal titolo dell’opera postuma (2001) “La couleur des mots” di Marguerite Duras per approfondire ulteriormente le sue sensazioni.

Diego Marani e una lezione di « europanto »

Questo titolo servì a Duras per riflettere sulle sue precedenti opere con i diversi sfondi della vita: in Indocina dove è nata nel 1914 e vissuta fino al 1933 e poi a Parigi. Così i colori delle sue parole vanno da quelli più scuri delle guerre a quelli più chiari delle relazioni sentimentali descritte nelle opere successive, e passano per quei chiaroscuri politici e di umore dovuti pure alla convivenza del successo con l’alcoolismo.

Il colore delle parole” evolve nel tempo: ad esempio Duras si contraddice sostenendo nel 1940 che non si possono confondere in Indocina i gialli e i bianchi e che le razze superiori devono civilizzare quelle inferiori; e affermando poi che la “conception impériale est, en effet, la négation même du racisme. La France a donné à tous ses sujets d’outre-mer, sans faire de distinction entre les races, les mêmes possibilités de développement et les mêmes espoirs”; “L’indigène n’a jamais été traité en vaincu; non seulement nous avons des devoirs envers lui, mais nous lui reconnaissons des droits sociaux et politiques et surtout celui d’acquérir des connaissances nouvelles. Certes, ce n’est pas à lui qu’il appartient de décider à quel moment il pourra user de ses capacités. C’est à nous, au moment voulu, d’alléger notre tutelle”.

Circa trent’anni anni più tardi Claude Roy ha scritto su “Le Monde (22 novembre 69): “La couleur des mots a changé. En face d’un Noir, autrefois, j’avais toujours présente à l’esprit la ligne de démarcation entre les vocables insultants et les mots convenables. Nigger c’était, comme coon, comme dark, un mot imprononçable, aussi ignoble que raton ou bicot pour désigner un Arabe. Black, c’était un mot agressif, gênant, intempestif. Le mot juste et courtois, pour désigner un «non-Caucasien à peau noire», c’était: negro. Mais même dans le champ des mots autorisés il y avait des nuances. Selon l’interlocuteur, on sentait qu’il valait mieux employer negro, ou colored people (puis, plus tard, Afro-Américain). (…) Maintenant, si j’emploie le mot negro, j’ai cette vague impression de malaise qu’on ressent devant quelqu’un qui dit israélite pour ne pas dire juif, et que sa délicatesse malhabile met au bord de la grossièreté. Jadis à Harlem, presque tout le monde avait l’air obsédé malgré soi par la distinction entre les darkskins, les brownskins et les lightskins, les noir-noir, les café au lait, les peaux claires. La vieille Mrs Walker avait gagné des millions de dollars en inventant une huile à décrêper les cheveux. Aujourd’hui, dans la conversation avec des Noirs, dans les rues, les affiches, les chansons, le mot Black claque sur les lèvres noires comme une affirmation, une fierté, un cri. Il tend à supplanter le mot jadis «bien élevé», le mot negro, qui prend un air blême, malsain et cauteleux. «Je suis né de cette couleur-là». Vocabulaire «extrémiste»? Black Muslims, Black Panthers, Black Power… L’idole noire du rock, Brother Soul Number One, James Brown, «le Frère Ame Numéro Un», n’est certes pas un extrémiste”!

La Babele delle lingue

Scontata quest’evoluzione del nero nella lingua fino alle reazioni all’assassinio di George Floyd a Minneapolis del 25 maggio 2020 da parte del poliziotto Derek Chauvin con il processo a questi (marzo 2021), e con le manifestazioni fino all’abbattimento di statue di colonialisti, sia il nero che gli altri colori sono evoluti sempre di più (oltreché nei rispettivi partiti politici) nel “verbal design” per colpire gli stimoli emozionali di ogni consumatore: se il “nero” di Audrey Hepburn nel “Breakfast at Tiffany’s” del 1961 ancora oggi ricorda Givenchy quanto la canzone Moonriver ricorda il film, negli anni successivi il “noir Dior” o il “rosso Valentino” sono divenuti altrettanto leggendari, come l’”Orange” della compagnia telefonica o d’“Easyjet”, o il blu delle confezioni “Barilla” o il rosso di quelle “Ferrero” per costituire un unicum, insieme alle parole e musiche delle rispettive pubblicità, affinché il consumatore decida in base alle atmosfere che si creano nella sua mente (d’altronde il successo di Benetton è dovuto alla sincronizzazione con queste). Ecco allora che i colori identificano la rispettiva marca prima della parola, allo stesso modo in cui il nero delle modelle di Gauguin o il giallo di Van Gogh o il blu delle nymphéas di Monet o il rosa dei ritratti di Renoir ricordano il pittore prima che ne sia pronunciato il nome (quando invece manca l’identificazione dell’autore con uno dei colori, questi diventano ancora più espressivi delle parole, perché “l’art est précisément ce qui échappe aux explications de texte” come ha scritto Aragon riguardo a Matisse).

I colori costituiscono degli obblighi e dei divieti non solo nei semafori (anche laddove gli irlandesi vogliono il verde in alto al posto del rosso, per la precedenza del colore della natura su quello dei divieti). E non solo, dunque, legislativamente ma anche convenzionalmente secondo i luoghi. Neanche Audrey Hepburn avrebbe potuto presentarsi in nero alla Regina d‘Inghilterra poiché lì questo è ammesso solo per il lutto, e tanto vari possono essere i colori dei cappelli delle signore all’ippodromo di Ascot quanto invece devono (o dovevano) essere sobriamente neri o grigi i vestiti degli uomini lì e negli inviti ufficiali, fino al “black tie” usato per indicare lo smoking nero (ammesso bianco nei Paesi coloniali) o “white tie” usato per indicare il frac nero la sera. Sobrietà di colori che allora manteneva sobrie anche le tonalità delle conversazioni (e che così prevaleva pure sul tasso alcolemico!), allo stesso modo in cui il completo blu che si vede oggi indossato dalla maggioranza degli uomini politici sembra spesso contenere i loro toni più del “casual” che rappresenterebbe la spontaneità. Quanto alle donne, la varietà dei colori dei loro vestiti e delle loro giacche non è in contrasto né con la sobrietà dei toni né con la spontaneità.

Tutto ciò oggi, nell’era televisiva. Ma tutto ciò diventa ancora più comprensibile risalendo, come ha fatto Marani il 20 settembre scorso all’Istituto Italiano di Cultura, al significato espressivo dei colori nel passato e nelle diverse culture. Se il blu (o il blu del cielo) rappresenta la spiritualità (es.: nelle canzoni di Modugno), la rappresenta un pò anche negli abiti sopra descritti? La risposta è tanto dubbia, quanto neri o bianchi sono invece gli abiti dei monaci o quanto si può essere “bleu de rage” e “verdi di rabbia”. Ma in questo caso anche il verde può essere considerato fuori posto, poiché (“pollice verde”) rappresenta la natura (che è l’unico godimento quando si è “al verde”) e la fertilità, e le lingue scandinave onorano questo colore dandogli 7 termini diversi.

Più ambiguo appare il giallo: di saggezza per i buddisti, di evidenziazione nei testi, di gusto nel risotto, ma (in italiano) di tormento nei romanzi e film polizieschi, e velenoso come inchiostro per i pittori, a tal punto da essere stato preferito da Van Gogh anche per la sua autodistruzione. E mentre il rosa rappresenta la tenerezza nei romanzi come nei ritratti di Renoir, il rosso è talmente violento in ogni circostanza (divieto, abbaglio solare, uscita di sangue, passione, erotismo, pornografia) da superare anche il nero che al confronto (e quando il romanzo nero francese non è sinonimo di quello giallo italiano) lascia tracce di melanconia anche nelle situazioni tragiche (come ne “Le rouge et le noir” di Stendhal poiché il protagonista Sorel, dopo essere stato ghigliottinato, è rimpianto da Madame de Rénal dopo che la passione e le sue conseguenze erano giunte fino al tentativo d’ucciderla). Rosso e blu alternano allora nelle correzioni, quanto non è ammesso e quanto è meglio sostituire con un’ispirazione superiore.

Il celeste sembra rappresentare degli stati d’animi più genuini, anche se questi sono passati per delle situazioni nere o rosse infuocate (es.: “La città celeste” ossia la Trieste descritta da Marani dopo le sue vicissitudini storiche), anche in confronto al bianco (o alle sue diverse tinte), la cui chiarezza non ammette equivoci neanche nelle situazioni prive di gusto.

 

Se, dunque, i colori delle parole sono universali in alcune circostanze e contraddittori in altri, lo sono per l’esigenza dei comuni denominatori tra le varie regioni geografiche a convivere con le diverse culture e tradizioni di queste stesse che, se fossero state più rispettate nel passato, avrebbero forse ridotto un po’ di più le guerre e le dittature: dall’ex Austria-Ungheria all’ex Jugoslavia, e dalla Spagna di Franco all’ex URSS, poiché neanche la centralizzazione dello Stato è riuscita a impedire la loro sopravvivenza. Per di più le lingue nazionali, sorte come derivazione da quelle regionali, sono in continua evoluzione, tra contagi tecnologici e nuove espressioni, ed allora sia tra quelle nazionali (ancora di più alle frontiere) che tra quelle regionali in vigore il riconoscimento reciproco non può che essere di stimolo per l’arricchimento culturale generale. Tanto in Belgio che Svizzera, nella Penisola Iberica come nell’ex URSS fino ai Paesi oltre il Caucaso accomunati dal turco.

Allora, poiché gli stimoli sulle considerazioni linguistiche suscitati da Marani vanno oltre il titolo del libro di Marguerite Duras, pubblicato nel 2001, e oltre l’europanto in cui egli ha tradotto anche il primo Canto dell’Inferno di Dante (e oltre la recita di Eduardo De Filippo: “Tu leggi/e vedi il blu/vedi il celeste/vedi il rossiccio/il verde/il paonazzo…”), appare grigia solo la distanza tra Marani e l’“Académie de France” per le ulteriori sfide non solo sull’evoluzione della lingua, ma anche sul diverso genere in italiano e francese di “colore” e “couleur”, e di “parole” e “mots”, evitato ancora una volta dall’inglese (e dall’europanto)!

Lodovico Luciolli

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