Referendum, spero nel No ma temo il Sì.

Da italiano all’estero qual sono e fui, ho già votato, per corrispondenza, al Referendum sul taglio (di circa un terzo) dei parlamentari. Taglio del loro numero, intendo. (Cosa avete capito? Mica tagliare fisicamente i parlamentari a pezzi, tra il giubilo del popolo estasiato. “Esageruma nen”, diceva Bobbio. Fatte salve nuove intese di maggioranza e richieste dei 5 Stelle al PD, che in nome della stabilità non mancherebbe di accoglierle prontamente. Cari parlamentari, fossi in voi starei all’occhio). E ho votato no, anzi NO (maiuscolo) a una riforma, per me, sbagliata e inutile. Per le ragioni spiegate bene in queste frasi non mie: “pessima riforma”, che “fa molto male alla democrazia rappresentativa”, “disegno pericoloso che ha come unico obiettivo quello di restringere il ruolo e la funzione del Parlamento, allontanando ancor più i cittadini dai loro rappresentanti”; “demagogica riduzione delle spese, quando poi resta fermo l’impianto del bicameralismo perfetto” che avrà “effetti non secondari sulle istituzioni e sulla vita parlamentare”, agisce “brutalmente in direzione dello svuotamento della democrazia parlamentare e rappresentativa (…) piegando la Costituzione per un’azione di propaganda politica”, “incide inevitabilmente sulla rappresentatività del Parlamento”, e “rischia di far crescere il peso delle corporazioni nelle campagne elettorali”. Frasi tratte dal rapporto del gruppo parlamentare del PD nel maggio 2019, per spiegare i suoi tre No in parlamento.

Il politologo Giovanni Sartori.

Poi divenuti, come per miracolo, un “Sì” alla quarta votazione. Quando il nuovo alleato pentastellato ha preteso l’abiura, in nome della formazione del governo, e lo sventurato (PD) ha risposto. Senza rendersi conto dell’evidenza: e cioè che i 5S avrebbero accettato qualsiasi cosa, anche essere presi a martellate sulle gengive, pur di non andare ad elezioni.

Io sulla riforma sono d’accordo con il PD; quello del maggio 2019, però. Non quello che poi, per giustificare la sua spensierata giravolta, ha spiegato di avere chiesto “correttivi” e “una legge elettorale proporzionale”. Xe pèso el tacòn del buso, dicono in Veneto. Peggio la toppa del buco. Intanto, non ci sono né gli uni (i correttivi) né l’altra (la legge elettorale). E poi non tutti gli italiani sono necessariamente d’accordo con una legge proporzionale. Io ad esempio preferirei un maggioritario uninominale di collegio.

Non pretendo di imporre il mio punto di vista, figuriamoci. Ma almeno che se ne discuta per cinque o sei minuti, quello magari sì. Invece, dal “mio” partito (nessuno è perfetto) mi viene detto che dovrei accettare una riforma che non condivido (per le ragioni da loro stessi spiegate così bene) perché ne limiteremo i danni (quindi è vero che fa un po’ schifo, se occorre limitarne i danni) grazie all’adozione di una legge elettorale di cui non abbiamo mai discusso e che personalmente mi lascia perplesso. Scusate, io non ho pretese, come cantava Natalino Otto, ma mi sembra un po’ troppo. La controversa legge Basaglia, che ha chiuso le strutture manicomiali, è stata un momento importante della storia italiana; ma a sentire cose del genere, di dubbi sulle sue conseguenze è lecito averne.

A parte questi sproloqui per giustificare l’ingiustificabile, so che ci sono persone che voteranno sì per ragioni più serie, meditate e rispettabili almeno quanto le mie. A loro dico che c’è una ragione di fondo che per me costituisce una linea di frontiera non valicabile. Questa riforma, poche carabattole, si iscrive nel solco di una cultura politica precisa: il cretinismo anti-parlamentare (senza offesa né per i cretini né per gli anti-parlamentaristi, intendiamoci). Quella cultura politica che non crede nella democrazia rappresentativa, che considera i parlamentari dei “parassiti” (parola ricorrente sulle reti sociali tra i sostenitori del M5S e della riforma, “ci liberiamo di 345 parassiti”. Termine che, usato da gente come Luigi Di Maio, fa pensare alla vecchia favola di Fedro: superior stabat lupus).

Per fare un esempio di tale pericoloso cretinismo, il M5S fin dall’inizio della sua storia se l’è presa, tra altre cose, con l’articolo 67 della Costituzione. Che dice: ”Ogni membro del Parlamento (…) esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. E sancisce così la libertà del parlamentare, che nel famoso esercizio delle sue funzioni non deve rispondere a nessuno. Principio nato con la Costituzione della Francia rivoluzionaria. Qualche anno fa, davanti ai deliri anti-parlamentari dei 5 Stelle, il costituzionalista Sartori scrisse: “il divieto del mandato imperativo è vitale per un sistema di democrazia rappresentativa. Se togli questo divieto la uccidi”. Forse è per questo che gli esponenti pentastellati si proponevano, e ancora oggi ne parlano, di toglierlo. Con il pretesto di evitare il “trasformismo”: qualcuno che si fa eleggere per una cosa e poi ne fa un’altra. Ma da che pulpito viene questa predica? Da chi ha detto “un’alleanza con la Lega è fantascienza pura » (nel 2017, l’attuale presidente della Camera Fico) e “mai con il partito di Bibbiano (il PD, ndr) che toglie i bambini alle famiglie con l’elettroshock” allo scopo di “venderli” (Luigi Di Maio). Il seguito lo conoscete. Pier Paolo Pasolini diceva: il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a se stesso. Questo dunque il modello di democrazia che sta a cuore ai pentastellati, promotori della riforma del taglio dei parlamentari. Verticistica, autocratica, in cui i parlamentari siano pochi, controllabili, sconosciuti ai loro elettori, e non contino niente. Mentre ai capibastone è concessa ogni giravolta. E voi firmate un assegno in bianco a questa gente, nemica dei principi fondatori della democrazia liberale? Io no, io no, io no. Per parafrasare Piero (non Azeglio) Ciampi.

Spero che vincerà il no, temo vincerà il sì. Il responso popolare andrà accolto. Come sempre si deve fare. La probabile vittoria del sì, per fortuna, non getterà automaticamente le istituzioni democratiche nelle spire del cretinismo autocratico sognato da Di Maio e compagnia cantante. Ma certo bisognerà prepararsi a difenderle dai prossimi attacchi. E come sempre in questi casi, la miglior difesa sarà (sarebbe, se esistesse un partito in grado di farsene carico) l’attacco. Il miglior modo di difendere le istituzioni sarebbe cercare di farle funzionare decentemente. Ad esempio, riflettendo su come evitare di avere due rami del parlamento che fanno grosso modo la stessa cosa. E magari su una legge elettorale decente. Proporzionale o maggioritaria che sia, ma che permetta un legame un po’ più chiaro da un lato tra il voto degli elettori e la formazione delle maggioranze di governo, dall’altro tra elettori ed eletti. Spero, soprattutto, che da ora in poi chi si proporrà una riforma delle istituzioni mostri competenza, intelligenza, riflessione, desiderio di migliorarle. Qualità assenti in coloro che di questa riforma sono stati promotori o complici. Tutte quante. Soprattutto la seconda che ho detto.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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