PD: Attendendo il congresso. I ritardi dell’egemonia culturale della sinistra.

E’ un fatto che la sinistra italiana sia al suo minimo storico. Oggi, i sondaggi gli assegnano poco più del 18%, mettendo insieme il PD con LeU e finanche Potere al popolo. Il solo PD si aggira sul 16%. Certamente all’origine di questa crisi ci sono ragioni organizzative, di comunicazione, di presenza sui territori italiani, di leadership, tutti temi su cui il partito democratico dovrà discutere e dividersi, in un congresso atteso e che tarda colpevolmente a realizzarsi. Ma il disagio interno al PD e che aleggia su tutta l’area di sinistra ha origini antiche, nodi che per decenni si sono trascinati e che oggi vanno sciolti, prima che sia troppo tardi. La costruzione del nuovo PD, la formazione di un progetto e della visione sul futuro della nostra società, il cambiamento richiedono un processo autocritico che lo renda credibile.

In queste ore, nell’attesa vana del congresso, si assiste ad un PD che si parla addosso, tra proposte di cene ed inviti a sciogliersi per rifondarsi, sullo sfondo appare l’eterno ormai psicologico ed inutile tema del rassemblement della sinistra che periodicamente si riunisce per poi dividersi. La realtà è che se questo è il tema, allora meglio sarebbe appunto sciogliersi e lasciar perdere. La gente e anche il popolo del PD si aspettano proposte, idee, progetti, una visione sulla società del futuro, l’indicazione di un percorso per arrivare prima e meglio a quel futuro. Nel corso dei decenni la sinistra è cambiata e grazie a Veltroni e poi a Renzi la sinistra moderna è qualcosa di profondamente diversa, per valori, modelli, ideali e obbiettivi, da quella che fu. Per questo andrebbe capito una volta e per sempre che nulla più unisce i sostenitori di una sinistra novecentesca con quelli del nuovo millennio.

Le ragioni che spiegano questa crisi della sinistra sono profonde e per questo avviamo una serie di riflessioni in vista del congresso, perché per la democrazia, comunque la si pensi, la sopravvivenza di quel partito è necessario. Ci appelliamo pertanto a tutti coloro che sono interessati a partecipare, pregando solo d’intervenire senza eccedere in partigianeria, affidandosi, per quanto possibile, ad un’utile analisi oggettiva delle cose.

La sinistra italiana, da sempre, si è divisa in posizioni più o meno riformiste, più o meno massimaliste. Le divisioni, nel corso della sua vita, a partire dalla nascita del PCI nel 1921, sono state numerose e per questo non ci si dovrebbe stupire se anche nel prossimo futuro dovessimo assisterne a nuove.

Per capire cosa accade, bisogna risalire al meno alla metà del secolo scorso. Quando, finita la guerra, dopo dure polemiche interne, su cui per brevità non ci prolunghiamo, nel 1947 si scioglie Giustizia e Libertà, un partito mai di massa, ma che con Gobetti, i fratelli Rosselli, il contributo di Salvemini ed altri pensatori, aveva fortemente influenzato la scena culturale di un paese che aveva vissuto il dramma del fascismo e la tragedia della guerra e del suo dopo. Quel partito, che possiamo serenamente ascrivere nella sinistra, fu il suscitatore fra l’altro di un tema, quello della libertà, fondante della resistenza presupposto della nostra repubblica. I partigiani infatti non combatterono per l’eguaglianza, o per migliori trattamenti economici, ma essenzialmente, se non solo, per riconquistare quella libertà perduta con la marcia su Roma aiutata dalla monarchia.

La precoce fine di quel partito fu salutata da Togliatti non certo con dolore, fu l’inizio di una egemonia culturale del Partito Comunista, si badi bene, del PCI, non della sinistra in genere.

Piero Gobetti

Siamo in piena guerra fredda, in piena cacciata del PCI dal governo, è l’inizio del piano Marshall e della lunga ed inevitabile egemonia Democrazia Cristiana. Il che non vuol dire che il PCI sia stato escluso tout court dal potere, molte amministrazioni locali furono comuniste, le Coop hanno influenza nella produzione e distribuzione ed il loro peso si è sentito nel tempo sull’economia del paese, per non parlare del sindacalismo e del ruolo guida della CGIL. La cultura è ormai nelle mani sostanzialmente del PCI, al punto che finanche Case editrici come la liberale Einaudi si guardano bene da pubblicazioni che possano dolere alla madre Russia, allora URSS, ci vorrà molto perché si possa avere una traduzione del Dottor Zivago, Moravia, che vede finalmente pubblicati i suoi libri in Russia, evita qualsiasi accenno critico verso le epurazioni staliniane.

Ricordando gli anni della resistenza, in una lettera ad Altiero Spinelli, Norberto Bobbio scrive: “Io ero uno di quelli che credevano nella forza ormai irresistibile del Partito Comunista, davo poco credito ai vecchi socialisti e ai cattolici, pensavo che gli intellettuali avrebbero dovuto dar la loro opera insieme alle nuove classi a una radicale riforma dello Stato” (Bobbio: Cultura vecchia e politica Nuova. Il Mulino – 1955).

Questo sarà per decenni. La rivolta ungherese contro l’imperialismo sovietico, tranne qualche defezione tra cui quella del figlio di Matteotti, che lascia il partito, è descritta sui giornali filocomunisti come l’avventura di alcuni traditori filo-americani, nemici della classe operaia.

L’egemonia culturale della sinistra è crescente, tanto che quasi nel silenzio generale nel 1966 si spegne la voce critica de Il Mondo, il giornale di Pannunzio, uno dei pochi esempi di stampa realmente libera, qualche anno dopo, uno dei suoi principali collaboratori, Eugenio Scalfari, fonderà La Repubblica che si porrà proprio nel solco di quella cultura, di quella cerchia di potere che influenzerà profondamente la linea politica della sinistra.

L’invasione di Praga

Nello stesso ’68, la sinistra, che evidentemente ha ancora non ha a cuore la libertà, sarà durissima contro la dittatura franchista in Spagna, contro i colonnelli in Grecia, ma del tutto assente agli appelli degli intellettuali polacchi, cecoslovacchi, che chiedono d prendere posizione contro la dittatura comunista nei loro paesi. L’appello di Kundera, Mezel, Forman ed altri, viene raccolto solo da alcuni intellettuali (non italiani e non è un caso), come Peter Weiss o Gunther Grass, ma dalle colonne dell’Unità o di Rinascita, quelle adesioni vengono stigmatizzate, si parla di salottieri intellettuali nemici della classe operaia. Oggi Veltroni, dalle colonne di La Repubblica, ci dice che, quando ci fu il suicidio di Jan Palach, che l’anno dopo l’invasione dei carri armati sovietici, si diede fuoco per protesta invocando per il suo paese la libertà, lui era per il giovane ceco. Ma, da testimone del tempo, posso dire che, per la maggioranza di quella sinistra italiana, non fu cosi. Palach divenne la bandiera strumentalizzata dei neofascisti contro i comunisti. Dal PCI non ci fu nessuna seria presa di posizione contro l’URSS.

Tuttavia, l’assunto di Veltroni evoca l’esistenza timida e repressa all’interno della sinistra di un’area più liberale che ricordava con simpatia proprio le tesi di Giustizia e Libertà, ma che è sempre stata minoritaria e psicologicamente contenuta proprio dall’egemonica cultura del Partito Comunista.

La tomba di Jan Palach

Durante questa egemonia, l’unico elemento discriminante fu l’antifascismo, non l’anticomunismo. La sinistra parlava poco di democrazia, del resto il socialismo, nella sua formazione ideologica aveva poco a che vedere con il concetto di democrazia moderna. Chi alzava voci critiche contro il blocco sovietico era tacciato, nella migliore delle ipotesi, di fare il gioco dei fascisti, dell’imperialismo americano. Non era contemplata una sinistra che fosse anticomunista (come ad esempio negli Stati Uniti), ancora oggi i più ortodossi tra i comunisti tacciono sulle persecuzioni omofobiche a Cuba, si tace sulle difficoltà che ebbero scrittori dissidenti come Solgenitsin per avere traduzioni in italiano, il rischio del resto era di non lavorare più, di uscire dai circuiti necessari per esprimere il proprio lavoro intellettuale. I quali faticavano a dire una parola contro l’assenza di libertà in quei paesi, sulla corruzione e la fame che pure venivano descritti anche da giornali certamente liberal e vicini ad una sinistra moderna come L’Espresso.

Va anche detto che per buona parte degli intellettuali italiani, il tema dei massacri staliniani, della perdita della libertà nei paesi socialisti, della fame e della devastazione economica di quei paesi, della corruzione dilagante, era semplicemente inaudibile, una deviazione da un’egemonia culturale che al tempo faceva tendenza, un’eresia nei confronti di un dogma che era quello socialista e comunista. Lo ricorda lo storico Guido Crainz, nel suo « 68 sequestrato », come finanche il movimento studentesco fu attentissimo al Viet-Nam, alla repressione franchista, ma pressoché muto rispetto alla repressione sovietica e nei paesi del socialismo reale. Non è un caso che Pasolini, per il suo libero pensiero subi negli anni il pesante ostracismo, che per certi versi, in alcuni settori della vecchia sinistra, ancora continua, proprio da parte dei potentati vicini al PCI.

La sinistra del tempo si attesta su gruppi di grande influenza a partire dal gruppo De Benedetti alla cui testa c’è Scalfari, che molto contribui, con la sua “La Repubblica” a liquidare il craxismo, un tema questo che andrebbe approfondito, ma non è ora il caso.

Si tratta di potentati che spesso dettano la linea, che pur avendo degli accenni critici, sono sostanzialmente prossimi se non aderenti a quella egemonia culturale del PCI. Non è forse un caso che Scalfari fu uno dei più attivi all’epoca, nelle polemiche che precedettero la fine di GeL (Giustizia e Libertà).

Tato’ e Berlinguer

Questo tema del ritardo culturale della sinistra non è inattuale. Una serie analisi degli attuali mali della sinistra non puo’ prescindere da una profonda riconsiderazione delle basi su cui quella e questa sinistra si sono formate. Un egemonia che ha ritardato per decenni la svolta democratica di oggi, e che produce ancora i suoi effetti se è vero che per alcuni settori del PD il tema è la riunificazione di tutta la sinistra che palesa l’incapace di capire l’impossibilità nel concreto di coniugare democrazia e socialismo, la mancanza di presa d’atto del fallimento del pensiero socialista è alla base della crisi della sinistra, che non è riuscita mai davvero a voltare pagine, ad esprimere parole definitive su quel fallimento. Non è un caso ed ancora oggi, forse in modi più striscianti di una volta, ogni elemento di critica e di rinnovamento del pensiero a sinistra venga bollato da taluni come “revisionista” un’accusa che nel novecento poteva tranciare definitivamente una carriera politica, comportare l’espulsione non solo dal partito, ma dai salotti che contavano nel campo delle arti, della cultura, della società.

L’ultimo e più evidente sussulto di questa egemonia si è avuto nell’occasione del referendum sulla Costituzione del 4 dicembre 2017, quando un rinnovato PD si era fatto carico di modificarla, una riforma che avrebbe fortemente modernizzato il paese, ma tra i più tenaci oppositori di questo rinnovamento ci fu tutta la vecchia sinistra, erede di quella egemonia culturale che arrivo’ all’inedita alleanza con la destra anche più estrema e con i populisti (Lega e M5S), pur di non aprire le porte al rinnovamento di quell’area politica. Si puo’ dire che ancora oggi il PD non si è ripreso da quell’insuccesso che è stato determinante nel processo di affermazione del populismo in Italia.

Questo predominio culturale del PCI è stato interpretato come un atto di fede, un qualcosa che avrebbe fatto inorridire i laici e dialettici di Giustizia e Libertà. La dogmaticità di questa fede ha impedito a lungo un’autocritica profonda e spassionata proprio sui limiti della sinistra.

Palmiro Togliatti

Si pensi che occorreranno più di 40 anni perché in Italia si possa parlare dell’eccidio di Porzus, dove i partigiani comunisti ammazzarono altri partigiani colpevoli di essere cattolici e laici. Ci vorrà anche più tempo perché una giornata della memoria venga dedicata alle vittime delle foibe titine, un tema non gradito all’egemonia culturale del PCI.

Eppure, già dalle origini, si intuiva che la fine del Capitalismo non sarebbe mai avvenuta, e non avverrà, semmai si trasformerà, come oggi in nuove forme. Si capiva che Marx aveva scritto le sue opere pensando ad un’imminente rivoluzione socialista nella moderna ed industriale Europa (Gran Bretagna, Francia, Germania) e non certo per la terzomondista Russia degli zar o per l’arretrata ed agricola Cina. Era evidente che il socialismo ideale restava utopico e che nei fatti si assisteva a delle dittature non difformi nella sostanza da quella fascista.

Eppure, per la sinistra, non solo italiana, l’antifascismo era un valore, l’anticomunismo no. Un passo decisivo per il PD al congresso potrebbe essere proprio la presa di coscienza dell’errore allora di non aver assunto una posizione decisamente anticomunista.

Ancora nei primi anni ottanta, Berlinguer che è arrivato finalmente a sostenere che la spinta leninista della rivoluzione di ottobre si è esaurita, una cosa che era evidente gia da almeno un paio di decenni, limitandosi a questo, non riesce ad accettare l’idea di una revisione del partito in senso sia pure solo socialdemocratico, come pure era auspicato da alcuni settori minoritari, in primis Napolitano e i suoi miglioristi.

Addirittura, il suo consigliere Antonio Tato’ in una lettera gli scrive, non venendo contraddetto, nel 1978: “ E lasciami aggiungere, è una semplice parentesi: i Paesi socialisti sono superiori ai Paesi con governi socialdemocratici, l’URSS è comunque superiore alla socialdemocrazia. Se non crediamo più a questo, se neghiamo questo, significa che facciamo nostro – noi comunisti – il giudizio non solo manicheo, ma reazionario, secondo cui la storia e la realtà sovietica sono state e sono un puro errore, che abbiamo sbagliato a nascere, che dobbiamo riassorbire la scissione del 1921 e che l’URSS e il resto sono soltanto mostri”.

Tra poco più di dieci anni le popolazioni sottoposte a quei regimi si rivolteranno e non sempre pacificamente, e il socialismo reale segnerà la sua fine. Eppure Antonio Tato’, il consigliere di Berlinguer, è ancora convinto di una superiorità morale, di modello politico e sociale, dell’URSS rispetto alla democrazia americana o alle socialdemocrazie come quella tedesca.

Il punto, su cui invano batte Berlinguer, resta il superamento del capitalismo, un superamento già negato dal “revisionismo” di Craxi, e pertanto non vuole trasformare il partito in una forza socialdemocratica, finanche il compromesso storico, del resto, doveva essere una via per il raggiungimento di questo obiettivo.
Finanche il fallimento di questo, avvenuto con la drammatica uccisione di Aldo Moro, non porterà ad una profonda revisione culturale e politica della sinistra. La parola democrazia da allora in poi verrà sempre più declinata affianco all’aggettivo socialista, senza mai una vera e profonda critica e soprattutto autocritica.

Bisognerà attendere Veltroni e il “suo” partito democratico, per vedere come modello gli Stati Uniti, con tutte le sue contraddizioni, piuttosto che la Russia di Putin erede dell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin, per vedere una sinistra che faccia suo il tema del pacifismo, soggetto non scontato nella cultura comunista, per incominciare a parlare di merito e di libertà individuale.

Bisognerà attendere Renzi e il “suo” jobs act, per mettere fine all’anacronistica guerra di classe che era cessata da decenni e per capire che il mondo dell’imprese non necessariamente, in un mondo globale e post-ideologico, è nemico dei lavoratori e di una sinistra moderna.

Il socialismo è stato battuto, non dai carri armati americani e nemmeno dai preti del Vaticano, pur riconoscendo in particolare l’impegno di Giovanni Paolo II, il socialismo è stato battuto dalla Storia, quella con la s maiuscola, dal prevalere del modello culturale ed economico occidentale. A testimoniarlo è che, nelle sue forme più nostalgiche e massimaliste, quella sinistra resta solo in una minoranza, molto ristretta, del nostro popolo.

Il PD: Gentiloni, Veltroni e Renzi

Ma i danni causati da quell’egemonia culturale, che pure ha prodotto anche cose belle e significative, nel campo delle arti e delle conquiste sociali, si sono proiettati anche nei nostri giorni. Tra i diversi errori commessi da Berlinguer, certamente il più catastrofico, fu il reagire alla propria crisi di consensi, proponendo “L’alternativa democratica” in risposta all’egemonia del craxismo e del cosiddetto CAF. Un’alternativa, oggi diremmo di volenterosi, che, al di là delle tessere politiche, si fondasse su personalità giuste, irreprensibili sotto il profilo morale.

Già, la questione morale. Berlinguer la lancia nel 1981 con la sua intervista, guarda caso, con Scalfari su Repubblica. Fu l’ultimo tentativo di evitare un reale rinnovamento del partito, pochi anni dopo il generoso ed ostinato segretario morirà, significativamente nel corso di una campagna elettorale per le europee.

Fu un errore, ed una sinistra che vuole rinnovarsi, a partire dal PD, dovrebbe dirlo fuori dai denti. Non si puo’ proporre come progetto politico la morale pubblica, quella questione nascondeva il vuoto di analisi e di autocritica del PCI, l’idea, peraltro falsa, di detenere un primato morale sul resto della classe politica fu il prodromo degli attuali populismi. Il ridurre la polemica politica nella delegittimazione di tutta la politica tranne i “buoni comunisti” fu un qualcosa che peserà e pesa ancora come un macigno nella nostra società. Le responsabilità, gravissime per la corruzione e il malcostume dovevano e dovrebbero restare individuali e personali, discreditare in genere e alla radice la politica, fu un disastro che ha favorito le successive ascese del berlusconismo per veniti anni e del populismo odierno.

Il PD, ma direi la sinistra moderna, dovrebbe avere il coraggio di ricostruirsi sui germi di Giustizia e Libertà, su temi cari a Spinelli, che non a caso rifiuto’ sempre la tessera del PCI, ovvero la costruzione degli Stati Uniti d’Europa (da ricordare che il PCI inizialmente era contro al progetto europeo), unica possibilità di interagire alla pari con le grandi economie mondiali vecchie e nuove, penso agli Stati Uniti, ma anche alla Cina, l’India, alle tigri asiatiche, l’alternativa sovranista paradossalmente ci porterebbe, con la fine dell’Europa, ad essere terreno di conquista proprio per queste grandi potenze. Si deve lavorare sul riconoscimento delle diverse forme di sviluppo economico, sul multilateralismo internazionale per governare la globalizzazione che offre potenzialità enormi. Sul valore supremo della democrazia, da contrapporre sia ai modelli dittatoriali come quello di Maduro in Venezuela che a quelle democrazie dette “deboli” quali la Russia o la Cina. Occorre riconoscere la fine del progetto socialista, il che sta a dire che è del tutto inutile porsi questioni di alleanze, con chi nostalgicamente non vuole accettare, ancora oggi, questa evidente realtà storica. E’ anacronistico e fuorviante credere che la rinascita della sinistra possa o debba partire dall’ennesima fusione con quelle frange massimaliste perdenti di cui si è detto.

La sinistra, sia pure con colpevole ritardo, ha avviato in questo secondo millennio la sua necessaria revisione che un ormai vecchio e sconfitto Scalfari ha definito una trasformazione antropologica. Le radici di una moderna sinistra affondano sia nella lezione di Giustizia e Libertà che nel pensiero di chi aspirava nella difficile impresa di coniugare eguaglianza e libertà, nella conquista piena del modello democratico, nell’aspirazione ad un mondo moderno, non chiuso, aperto ad una globalizzazione che certo non è tutta rose e fiori, allo sviluppo della scienza e del libero pensiero, al rifiuto di qualsiasi forma di dittatura e per questo alla contrapposizione ad ogni populismo e sovranismo.

Tra i valori, affianco all’europeismo e alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa, al pacifismo, al rispetto delle diversità anche l’ecologia, un’ecologia che non sia solo protezionista ma proiettata alla migliore vivibilità della nostra specie, ma aggiungerei un’ecologia anche in campo economico con lo sviluppo, ad esempio, dello sharing economy, che dà risalto alla creatività e alla capacità imprenditoriale delle nostre genti, costituendo anche un’alternativa allo strapotere di piccole e grandi caste e lobby, che frenano lo sviluppo del paese. Il futuro della sinistra e, a mio avviso, del PD deve partire anche da questa rivoluzione che dia impulso al merito e che colpisce le corporazioni, le burocrazie, creando forme di economia democratica da contrapporre ai potentati finanziari che gestiscono il denaro del mondo.

Tutto questo impone una revisione profonda dei decenni che ci hanno preceduto, una presa di coscienza definitiva, coraggiosa, ma senza sconti, nemmeno per i miti sacri da cui ha tratto origine il Partito Democratico.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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