Nella poetica dei luoghi incontriamo il miglior Bultrini quando le riflessioni si aprono a confronti con spazi ed esperienze del tempo, con quel che si vede e quel che c’era, dove ogni finestra affacciata è un’alba e un tramonto, dove il senso di un precipitare verso l’indifferenza contemporanea sembra attenuarsi, placarsi nell’ascolto che è equilibrio, nel respiro che porta l’attenzione alle cose perché il poeta non fa vacanze, e difficilmente perde lo sciamare del mondo.
Nicola Bultrini è nato nel 1965 a Civitanova Marche (MC), vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi La specie dominante (Aragno 2014) La coda dell’occhio (Marietti, 2011), I fatti salienti (Nordpress, 2007). La sua raccolta Occidente della sera è presente nell’VIII° Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2004). Per la poesia ha vinto il Premio Montale, sezione “Inediti”, edizione 2002. Sue poesie e scritti vari sono stati pubblicati su riviste (tra cui “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Galleria”). Alcune traduzioni di poeti iraniani contemporanei sono state da lui curate con Chiara Riccarand e pubblicate su “Poesia” e “Testo a fronte”. Alcuni racconti sono stati pubblicati su “Il Racconto”. Scrive per il quotidiano “Il Tempo”. Come studioso della Prima Guerra Mondiale, ha pubblicato per Nordpress Edizioni vari saggi, tra cui.: La grande guerra nel cinema (2008 – prefazione di Mario Monicelli);
Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (2007 – prefazione di Andrea Zanzotto); Gli Ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra (2005); L’ultimo fante – la Grande Guerra sul Carso nelle memorie di Carlo Orelli (2004). Con La specie dominante Bultrini ha vinto il Premio Alpi Apuane 2014.
Conosco Nicola Bultrini personalmente da giugno di quest’anno, ovvero da quando ci siamo incontrati alla cerimonia di premiazione del Premio Alpi Apuane. Ascoltandolo leggere i testi del suo libro ho subito compreso che ero di fronte a un autore che “sente” la poesia e che riesce a trasmettere questo suo “sentire”. Ci sono autori, infatti, che pur scrivendo bene ed essendo validi poeti non riescono a trasmettere quello che è il loro messaggio, la loro visione. Con Bultrini questo non accade. La lettura rispecchia la visione, si fonde con essa, riesce a comunicare dando a sua volta emozioni, riesce a calarsi nella storia che narra la poesia rendendola presente, ripercorribile. Sarà che è un appassionato ed esperto di storia, in particolare di quella della Prima Guerra Mondiale, e che le peculiarità della vita, qualunque esse siano, ritornano e si affiancano, si intersecano con il fare artistico e lo rendono “speciale” proprio per questo ma Nicola, quando scrive, è come se narrasse la storia, se entrasse dentro la storia per riaffrontarla con le emozioni che ne fanno parte e non solo con i meri fatti cronachistici. Nasce così un sentimento universale che coinvolge non solo il poeta ma il suo lettore in riflessioni legate alla memoria, ai luoghi, all’esperienza del tempo e che vedremo come si sviluppano all’interno del libro “La specie dominante” di cui parleremo in questo articolo.
La specie dominante
Recentemente, in un convegno sulla poesia della donna tenutosi alla Casa della Poesia di Milano, si è ribadito a più riprese di come questo tipo di poesia si connota principalmente in una dimensione fisica che non abbandona quasi mai la presenza del corpo, e della necessità per la donna di mettersi in relazione con esso. Difficilmente, è stato detto, l’uomo si addentra nel contesto corporale, quasi come se non sentisse la necessità di indagare su questo crinale così strettamente intimo e per certi versi strettamente doloroso. Ebbene, il primo testo che apre il libro di Bultrini spiazza perché, invece, mette in scena proprio il corpo come protagonista dell’evento poesia e della vita stessa:
Guarda quant’è grande/ il mio corpo/quanta carne e sangue//è un peccato tenerlo tutto insieme/occupare lo spazio/vorrei farlo a pezzi/e regalarlo[…].
E’ come se l’esordio del libro mettesse sull’avviso il lettore che la poesia sarà incisa sul corpo, perché di quel corpo fa parte e che la poesia stessa sarà fatta a pezzi, magari divisa in quartine o terzine o in singoli versi e regalata. La metafora del corpo spezzato e regalato ci riporta anche al gesto dello spezzare il pane, che è corpo di Cristo, e al donarlo restituendo allora alla poesia – con questa forma – la sua sacralità all’interno del rito di vivere. E così è nella prima parte del libro “La terra dei giganti” dove ancora si incontrano metafore capaci di raccontare la profezia, il sudario e il cammino nella polvere, il lavoro che nobilita e dove il poeta si fa gigante senza volerlo essere:
Non sono io che parlo/a un gigante neppure somiglio/mi vedi alto, pesante/ma non più forte. […].
Un gigante capace di rimpicciolirsi e diventare un’eco soltanto/che imita le cose, lasciando agli altri il tuono e il lampo e i grandi numeri.
Addentrandosi nel secondo capitolo “Forme della vita” la dimensione della storia e della narrazione storica – peculiarità dell’autore, come detto – si fanno più forti e la poesia inizia a scavare nel vissuto familiare che si interseca con gli eventi del mondo. Lo sfondo è la Seconda Guerra Mondiale questa volta, un passato ancora troppo recente e doloroso anche per noi che abbiamo vissuto quegli anni attraverso i racconti dei nostri genitori, osservatori e vittime bambine del conflitto, o dei nostri nonni protagonisti in prima linea tra fronti e trincee, bombardamenti e sfollamenti. Pezzi di vita si intrecciano con la Storia: gli ufficiali insegnano quel che possono nella scuola chiusa; il nonno – che porta lo stesso nome dell’autore – perde forse l’unica ricchezza l
le biciclette di famiglia e ricomincia a costruire; l’ufficiale postale diventa partigiano suo malgrado; i pastori dormono tra le greggi in una montagna regno di lupi e misteri.
Il poeta scava ancora e cerca una ragione, un paragone con l’accadere delle cose, la guerra e la vita, e ne nasce un testo sonoro, anche nelle sue immagini, un’orchestrazione che si fa dimensione esistenziale:
Guarda il suono che viene/lieve e tagliente come una preghiera/terribile e magnifica.//Gli strumenti sono accordati, le partiture/immobili e perfette/il silenzio sovrasta/l’attesa, e poi s’impone/nel riflesso dell’ebano, e accade.//La musica è il sistema degli addii/e morire è un andare lontano/poi tornare.//Così gli eventi in vita/il nostro ardente e quieto musicare.
In questa ricerca Bultrini si avvicina molto a un poeta a lui caro, Ungaretti, che nel resoconto dal fronte della Prima Guerra Mondiale si interroga
sul significato della solitudine atroce, del freddo, della fame, della morte, ma trova la forza di reagire riscoprendo la propria dignità interiore ed il senso di partecipazione al destino comune dell’umanità.
Nel “Complemento di luogo” il viaggio, l’esplorazione dei particolari che colpiscono l’immaginario poetico, si apre sul cimitero lagunare di Venezia dove Brodsky e Pound sono i custodi del tempo stesso della poesia che diventa un resistere audace, si snoda nelle periferie francesi, si inerpica tra le rocce possenti ascoltando i sintomi di una bellezza/incomprensibile
; si insinua tra le risaie ghiacciate di gennaio dove l’attesa del poeta è ragionata; scivola sull’acqua immobile bruciando nello sguardo; rammenda orditi di luoghi dove il tempo passato era più grande/c’era spazio, meno rumore. Si chiede se: forse è la distanza a fere immense/tenaci le parole. Si risponde: Io non sarò più bambino e non ricordo/neppure com’è stato.
Ma è proprio qui, nella poetica dei luoghi che incontriamo il miglior Bultrini quando le riflessioni si aprono a confronti con spazi ed esperienze del tempo, con quel che si vede e quel che c’era, qui dove ogni finestra affacciata è un’alba e un tramonto, dove il senso di un precipitare verso l’indifferenza contemporanea sembra attenuarsi, placarsi nell’ascolto che è equilibrio, nel respiro che porta l’attenzione alle cose perché il poeta non fa vacanze, e difficilmente perde lo sciamare del mondo.
L’ultimo capitolo del libro “Prospettiva angolare” riparte dagli affetti, ci sembra ancora esclusi dalla narrazione, da quella dimensione amorosa che la prospettiva dritta, lineare e storica del poeta aveva quasi dimenticato di affrontare. Compaiono gli angoli, le spigolature, i crinali inesplorati di nascita e infanzia che in un contesto di fiera, di sagra di paese, di vicoli e mattoni, non possono non riaffiorare nel momento dell’innamoramento, quando tutto sembra più nuovo e vicino, quando l’attimo della perdizione smarrisce i corpi in un pensare profondissimo che si fa creazione dove il poeta in silenzio chiede solo di essere amato.
Come si ama un poeta? Un poeta che racconta di una Specie dominante che è più incerta del suo destino dei componenti degli altri mondi, una specie che cerca in fondo una resurrezione mancata, una croce scordata, un incanto che è ormai solo frenesia? Un poeta che chiede amore e di lasciarlo scrivere, di rispettare il suo silenzio merita il nostro amore, merita tutto l’amore del mondo. E noi siamo qui per darglielo.
[**Alcune poesie da La Specie dominante*]
Noi giganti siamo rimasti in pochi
circondati da uomini piccoli
senza ombra.
Alcuni ci graffiano rabbiosi le caviglie
altri ci ignorano
fingendo di dormire.
Ma a noi giganti non va di partire.
La terra che abbiamo è una misericordia
colma di frutti e soli del mattino.
Abbiamo figli e una ricchezza
di doveri che è tutta la nostra libertà.
Non abbiamo paura del dolore
dello spettro luminoso del silenzio
e se la notte si muovono i fantasmi
ci chiamiamo per nome, uno per uno
e ci abbracciamo come capita
nel buio.
Mentre agli uomini tremano
le vene ai polsi, noi giganti
continuiamo a camminare
nel gelo luminoso di gennaio
saldi nelle gambe, controvento.
*****
La terra che esploriamo
non ci appartiene
possiamo anche dimenticarla
se capita.
La abitano migliaia di viventi
che neppure conosciamo.
Però possiamo camminare
poggiare i piedi
sulle piazze maestose
se piove ci bagniamo come l’erba dei prati
piegandoci
e poi ci alziamo, finito il temporale.
Allora qualcosa rimane sottopelle
come un umore.
Possiamo quindi osservare e ascoltare
vivere silenziosi
molecole nell’aria che popolano il mondo
non sapendo.
****
La notte ha il sapore d’acqua amara
il giorno è corpo.
Se tu sapessi quanto
sono stanco.
Però non abbastanza
per il sonno.
Puoi vedermi
ripiegato
in un angolo
mentre la mente rauca ancora ringhia
contro la notte
intera.
Vorrei dissolvermi
tacere finalmente.
Non sembra neanche mio
il cuore rumoroso
che si sente.
****
Le lampade a carburo
funzionavano circa otto ore.
Ognuno doveva comprarne una e caricarla,
che facesse appesa al muro luce
almeno per tre metri.
Parlano ancora di quando
giù in miniera si spensero tra i morti
senza fiato, respirando la terra.
Eppure se ci penso, sapermi sotto
mi fa sentire vivo. E quando torno
tutta quest’aria pare troppo,
un privilegio che non mi riguarda
perché le mie radici
così come ho vissuto
sono
carne, muscolo e fango.
****
E io che guardo e chiedo
se potrà mai finire. Ancora un’ora
triste e non ho nulla
più da offrire. Però c’è stato
un tempo, sì, c’è stato
ma scrivere per oggi non mi salva
le parole cui contavo
di affidare tutto il male del mondo.
Suona un disco fatto di vinile
l’onda celeste e meccanica
sale dentro il cielo di polvere
tu credimi, che a volte
vorrei il coraggio di non sapere.
Siamo sempre più felici
se crediamo di non essere in pericolo.
Bologna, dicembre 2014
Cinzia Demi