Incontro a Parigi con Marco Bellocchio, Esterno notte. Il caso Moro e l’anima persa dell’Italia.

Marco Bellocchio, uno dei più grandi registi italiani, torna sul caso Moro (a cui quasi venti anni fa aveva dedicato il suo film “Buongiorno, notte”) con una serie televisiva in sei episodi, “Esterno notte”, che in Francia sarà trasmessa da ARTE nei primi mesi del 2023. Bellocchio è venuto a Parigi per un incontro organizzato dalla Cinémathèque Française, “de l’intime au politique”, e lo abbiamo incontrato nella conferenza stampa tenuta assieme a Olivier Wotling, direttore dell’Unité Fiction d’ARTE. Grazie anche a Grégoire Hoh, sempre di Arte, che ha reso possibile l’incontro.

Café des Editeurs a Parigi. 6 dicembre 2022. Rosanna Gasbarro (bravissima traduttrice), Marco Bellocchio e Olivier Wotling, direttore dell’Unité Fiction d’ARTE

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IL CASO MORO

Il caso Moro segna e attraversa la storia recente dell’Italia. Come una ferita mai rimarginatasi, come un vizio assurdo. Nel 1978, Aldo Moro (politico di centrale importanza, tra i fondatori della Democrazia Cristiana, cinque volte presidente del consiglio e architetto dell’avvicinamento del Partito Comunista al governo) viene sequestrato dal gruppo terroristico delle Brigate Rosse. Nell’azione del rapimento, in Via Fani a Roma, muoiono le cinque persone della scorta. È il giorno dell’insediamento del governo guidato, per la quarta volta, da  Giulio Andreotti. Un governo a maggioranza democristiana, come sempre nella storia repubblicana italiana, dal 1946 in poi, ma che doveva essere sostenuto esternamente dal PCI, Partito Comunista Italiano (che aveva allora il 34% dei voti), secondo lo schema di Moro e del segretario comunista Enrico Berlinguer: quello del “compromesso storico” tra le due principali forze politiche. La prigionia dura 55 giorni. DC e PCI spingono il governo sulla linea della fermezza: nessuna trattativa. Al contrario del Partito Socialista, il cui peso non è però sufficiente. Il ministro degli Interni Francesco Cossiga  (più tardi, dal 1985 al 1992, Presidente della Repubblica) uscirà segnato, psicologicamente e fisicamente, da questa vicenda. Moro dalla sua prigione chiede la trattativa. Ma di fronte all’indisponibilità dello Stato, capisce che la sua sorte è segnata.  “Il mio sangue ricadrà su di loro”, scrive riferendosi ai suoi compagni di partito, in particolare Andreotti e Cossiga. Il 9 maggio 1978, le Brigate Rosse uccidono Moro. Il corpo è lasciato in una macchina, in via Caetani, nel centro di Roma. A metà strada tra la sede della DC, in Piazza del Gesù, e quella del PCI, in via delle Botteghe Oscure.

Ora lì c’è una targa, un’immagine di Moro, mentre DC e PCI non esistono più da tempo. Il caso Moro segna la fine di un’epoca e l’inizio di un lento dissolvimento di quel sistema politico. Da lì in poi cade la strategia del “’compromesso storico”. Il PCI si allontana dalle posizioni di governo; inizia il suo declino elettorale e un percorso che lo porterà, dopo la caduta del muro di Berlino, a cambiare nome e trasformarsi. La Democrazia Cristiana resterà un partito centrale fino al 1992, quando sarà travolta da “Mani pulite”, le inchieste sulla corruzione.  Il caso Moro resta un episodio oscuro della storia italiana. Le chiavi di lettura oscillano tra due poli contrapposti: l’interpretazione istituzionale e ortodossa (la democrazia italiana ha retto e in questo modo ha potuto sconfiggere la minaccia terrorista) e quella più dietrologica, oggi si direbbe “complottista”,  che vede nelle Brigate Rosse gli artefici, più o meno inconsapevoli, di un disegno ordito per sbarazzarsi di un politico ormai sgradito alle segrete stanze del potere. È possibile, forse probabile, che entrambe queste interpretazioni contengano elementi di verità, una verità che resta difficile da ricostruire nella sua interezza.

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Ed eccoci al resoconto della conferenza stampa di Marco Bellocchio al Café des Editeurs, animata da Olivier Wotling

Il pubblico francese scoprirà una parte di storia italiana che conosce poco, se non per l’espressione “anni di piombo”. Probabilmente gli spettatori francesi saranno colpiti dalla violenza, dal lato oscuro di scene che sembrano un incubo a occhi aperti. È un racconto realistico?

café des éditeurs Paris - Esterno notte Arte

Bellocchio: Abbiamo cominciato a lavorare con il metodo dell’inchiesta, conoscevamo molte cose, io avevo già fatto il film “Buongiorno notte” sulla stessa storia. Sul caso Moro ci sono centinaia di libri, film, documentari, molto materiale. Siamo partiti dal realismo. Ma ci siamo accorti che, sulla base di quello che era successo, dovevamo prenderci delle libertà. La realtà, lo sappiamo dai libri di storia, ha sempre degli spazi oscuri, in cui nessuno sa cosa è accaduto, cosa si sono detti i personaggi. Allora bisogna inventare.

La serie infatti si apre su una scena inventata: Moro sul letto d’ospedale, ormai libero, che pronuncia una frase autentica, che tornerà nelle scene finali: “rinuncio alla vita politica”.

B. : Quella frase fa parte del memoriale scritto durante i 55 giorni di prigionia, trovato dopo la sua morte. Lo abbiamo usato per costruire i dialoghi, tra cui la confessione finale, dove riportiamo molti dei giudizi espressi da Moro verso certi uomini politici. Anche la frase “ringrazio le Brigate Rosse per avermi salvato la vita” è stata davvero scritta da Moro; c’è stato sicuramente un momento in cui gli è stato detto che si sarebbe salvato. Poi, la speranza si è dissolta e Moro si è rassegnato a morire. Abbiamo usato questa illusione della grazia nell’architettura della serie. Sono partito da un’idea contraria alla realtà storica per creare un’attesa. Quella idea torna alla fine, quando c’è la vera conclusione della storia.

È come fare tornare il fantasma di Aldo Moro che condanna la Democrazia Cristiana.

B. : Non è tanto la Democrazia Cristiana ad avere la responsabilità della sua morte, ma gli uomini di quel partito che non hanno avuto il coraggio di accettare le condizioni delle Brigate Rosse, perché lo consideravano inaccettabile. Hanno preferito scegliere la strada della presunta pazzia di Moro: non è più lui, quello che dice non è quel che pensa davvero, è drogato, condizionato, non ha più la libertà di riconoscere quelli che sono i suoi principi, e quindi non possiamo accettare quel che dice. Gli storici più importanti parlano di ragione di stato: “l’Italia non capirebbe” una trattativa, anche perché in quell’attentato erano stati uccisi barbaramente 5 agenti della polizia. Era quello l’argomento di Andreotti.

Lo spettatore vede in Moro il possibile salvatore dell’Italia, che fallisce. Una figura cristologica.

B. : Il Papa Paolo VI lo vede così: una figura che porta la croce. Ma Andreotti, la DC e anche il PCI sentivano una responsabilità verso l’intera nazione. C’era anche la volontà di preservare un equilibrio fragile, quello della guerra fredda tra USA e URSS. E che non andava nella direzione della politica di Moro. Moro ovviamente non è un rivoluzionario, ma è un vero riformista. Che voleva “sdoganare” un Partito Comunista Italiano che aveva, allora, un terzo degli elettori, ed era il partito maggiore assieme alla DC. Moro lo voleva fare entrare in appoggio esterno alla maggioranza di governo, pensando a un futuro possibile di alternanza. Aveva capito che il PCI non era un rischio per l’ordine. Gli americani lo vedevano ancora come tale, ma il PCI era un partito nobilmente revisionista. I democristiani dicevano: i comunisti hanno un senso dell’ordine superiore al nostro, sono più disciplinati di noi. Nella scelta di non negoziare con le Brigate Rosse non c’è quindi solo la volontà di essere responsabili verso il popolo italiano, ma anche la difesa di un ordine internazionale che condannava Moro perché troppo riformista e innovatore. Il che è strano, perché Moro era sempre stato considerato non dico un reazionario ma comunque un conservatore. Mentre il tempo ha dimostrato che aveva una visione di rinnovamento più forte di altri.

Il caso Moro è un tema ricorrente nella sua produzione.

B. : Dopo il mio film “Buongiorno notte”, del 2003, sulla stessa vicenda, pensavo che la mia storia con il caso Moro fosse finita. Poi, nel 2018, a 40 anni dalla sua morte ci sono state molte commemorazioni in cui abbiamo riscoperto il lato privato della vicenda. Allora ho pensato di provare a scoprire quei personaggi che non erano presenti nel mio film. Francesco Cossiga, personaggo shakespeariano, amletico. Il papa Paolo VI. La famiglia, la moglie di Moro, Eleonora, con la sua volontà di salvare a tutti i costi il marito contro la volontà della DC. I brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, che hanno partecipato al sequestro, ma non all’azione del rapimento di via Fani in cui sono stati uccisi gli uomini della scorta.

Dall’alto (gli ordini geopolitici mondiali) verso il basso (le vite intime delle persone).

B. : È il cinema! Attraverso piccolo cose, puoi comunicare cose più grandi. Altrimenti faremmo un trattato di politica, un libro, come fanno gli storici. L’idea era fare un romanzo cinematografico. Difficile condensarlo in un film. La televisione ha accettato di produrlo come una serie e ci ha dato libertà sulle scelte. È una serie, ma l’ho realizzata come un film molto lungo, diviso in sei episodi.

Primo episodio, Aldo Moro. Secondo, Cossiga, ministro degli interni. Terzo, Paolo VI. Quarto, i terroristi. Quinto, Eleonora Moro. Sesto, la fine.

B. : Tutti, in Italia, conoscono la storia. Allora si è pensato di partire dal presente, e poi, a partire dal terzo episodio, tornare indietro. Per poi tornare al presente alla fine nel sesto. Come se la storia ricominciasse ogni volta, invece di procedere linearmente nel tempo. Una scelta di drammaturgia cinematografica.

Ad Andreotti è riservato un trattamento speciale. Se come penitenza il Papa si infligge il cilicio, Andreotti decide di non mangiare più gelati fino a quando Moro non sarà liberato.

B. : Lo ha detto davvero, al cardinale Casaroli. In una tragedia il peso delle parole di un primo ministro diventa simbolico, metaforico. In quella scelta di Andreotti c’è l’anima democristiana e cattolica, quella dei fioretti. Il fioretto è una piccola azione di altruismo verso gli altri, una piccola rinuncia fatta per devozione, che ti aiuta a conservare il tuo stato di grazia. Un tempo, veniva detto ai ragazzi che bisognava farne uno al giorno. Una piccola azione buona. Nel caso di Andreotti, rinunciare al gelato sperando nella liberazione di Moro diventa un’irrisione. Svela un carattere.

Andreotti non ha un episodio a lui dedicato. A differenza di Cossiga.

B. : Ero più attirato dal lato bipolare di Cossiga: momenti di estrema depressione e altri di euforia. Moro dice: Cossiga è bipolare, non gli si può rimproverare niente, mentre Andreotti è lucido e vuole fare il male. Il male è un concetto religioso. Andreotti è molto presente in tutta la serie, ma aveva una linearità di comportamenti che me lo rendeva meno interessante. Cossiga ha una drammaturgia interna molto variabile.

Andreotti però ha una reazione violenta al momento del rapimento.

B. : Non è totalmente sicuro, ma lo riportano alcuni giornalisti: quando ha ricevuto la notizia del rapimento Andreotti si è sentito male e ha vomitato. L’unico suo momento di contraddizione. Ogni essere umano, anche il più crudele, ne ha. Abbiamo cercato di rappresentarlo con discrezione.

Moro, uomo attentissimo al peso delle parole, scrive una frase tremenda: il mio sangue ricadrà su di voi. Che suona come una profezia: tutto quel sistema politico, negli anni successivi, si è lentamente ma inesorabilmente distrutto.

B. : Una frase molto forte, detta da un uomo che era, letteralmente, impeccabile. Nel momento del rapimento ha avuto ancora un’attitudine diplomatica verso le Brigate Rosse, cercando di salvare al tempo stesso lo Stato e sé stesso. Quando capisce che i suoi amici lo hanno abbandonato, in lui esce la rabbia, come se scoprisse qualcosa di sé che lui stesso ignorava. Nella confessione finale dice: perché devo morire, chi l’ha detto? Perché non cercano di salvarmi la vita? Non è un crimine amare la vita. In un uomo come lui, è sorprendente. Si poteva pensare che avrebbe preso una posizione di martirio: sono un servitore dello Stato e accetto di morire. Invece fino alla fine c’è in lui quella che gli altri pensano sia una debolezza, una pazzia. La moglie dice a Benigno Zaccagnini (segretario della DC al momento del rapimento, ndr): perché dite che mio marito è pazzo? La DC è questo, è compromesso, è trovare una soluzione. Il personaggio di Moro, anche in questa sua forma di debolezza, nel tempo acquista un’umanità gigantesca, per me molto apprezzabile.

I personaggi sono pervasi dall’angoscia, la storia è popolata da allucinazioni: Moro porta la croce, Cossiga vede la carta dell’Italia insanguinata e le sue mani riempirsi di macchie.

B. : Qui mescoliamo cose reali e altre immaginarie. Le macchie sulle mani di Cossiga e il cilicio di Paolo VI sono reali; le mani insanguinate del Papa le abbiamo aggiunte noi. Così come Paolo VI che vede la Via Crucis in televisione e immagina che sia Moro a portare la croce.  Poi c’è un sogno di Adriana Faranda, di cui lei parla in un suo libro (Nell’anno della tigre): il fiume su cui scorrono i corpi delle persone assassinate. Un’altra cosa reale è la centrale telefonica creata a Roma per raccogliere informazioni, dove arrivavano anche chiamate di persone che raccontavano cose assurde, o che magari parlavano dei loro problemi personali. È uno spaccato dell’Italia. Siamo sempre partiti da qualcosa di vero. Ma poi la fantasia sconfina dalla realtà e si prende la propria libertà.

C’è, in quella storia, uno specchio dell’Italia attuale?

B. : Verso la serie in Italia c’è stato un grande interesse. Non so interpretarlo, ma so che c’è stata una partecipazione. Per chi è stato giovane in quel tempo, è una maniera di regolare i conti con un’epoca in cui la politica aveva un peso oggi inimmaginabile. Al tempo, si parlava di cambiamento, rivoluzione, odio di classe, cose incomprensibili oggi e che destano lo stupore e anche l’interesse dei giovani: ma era davvero così l’Italia, quelli eravate voi? I figli guardano i padri e chiedono: ma eravate così? Cosa sono la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista? Una risposta molto vivace, molto viva.

Ci sono anche immagini d’archivio. È forse più un documentario che una finzione narrativa.

B. : Nel film “Buongiorno notte” avevamo usato da un lato il materiale dei brigatisti che tenevano in prigione Moro, nell’appartamento di via Montalcini, e poi una realtà esterna che era quella della televisione. Qui il materiale documentaristico quasi non esiste. Ma Fabrizio Gifuni, l’attore che interpreta Aldo Moro, conosce profondamente la storia, e ha fatto un bellissimo spettacolo teatrale sulle sue lettere. Nel film “Buongiorno notte” c’erano sia il repertorio sia la finzione. Qui invece abbiamo utilizzato praticamente solo la finzione, che cerca però di assomigliare al repertorio.

Come aveva vissuto la vicenda, all’epoca dei fatti?

B. : Un po’ prima, nel 1969, avevo fatto parte di un partito maoista, contrario al terrorismo. Poi la mia esperienza politica è finita, anche se sono rimasto di sinistra e ho seguito le questioni sociali e politiche attraverso altre esperienze. Nel 1978, al momento del rapimento, ho vissuto la vicenda come un normale cittadino. Non mi sembrava possibile che un piccolo gruppo di terroristi potesse fare un’azione del genere, che mostrava l’estrema debolezza dello Stato. Durante i 55 giorni di prigionia, si è creato un fronte sempre più numeroso a favore delle iniziative per salvare la vita di Moro. Forse pensavamo che la politica avrebbe trovato una soluzione, nel solco di una tradizione italiana che è meno crudele rispetto ad altre. Quando abbiamo appreso la notizia della morte, non c’è stata una reazione immediata: tutte le tragedie si elaborano con il tempo, ne capisci la profondità solo più tardi. La tragedia di Moro è proseguita nel tempo. Come dicevamo prima, a partire da quella frase, “il mio sangue ricadrà su di voi”, è cominciata una distruzione lenta di tutto l’impianto politico. Tutti i partiti di quell’epoca sono scomparsi. Quell’assassinio per l’Italia ha avuto un’importanza profondissima, ha lasciato una ferita che non si è più rimarginata. C’è voluto tempo per capirlo.  Nella serie. Moro dice a Cossiga: gutta cavat lapidem (la goccia spezza la pietra). Una frase che pensavo tutti potessero capire, e invece mi è stato detto di mettere i sottotitoli, perché nessuno conosce più il latino. È una connessione che faccio adesso, non ci avevo pensato prima: la pietra si è spezzata. Perché una goccia spezzi la pietra, occorre tempo.

Nelle prime scene, appare il manifesto di un film di Dino Risi del 1977: “Un’anima persa”, con Catherine Deneuve e Vittorio Gassman, da un libro di Giovanni Arpino. La storia di una pazzia, di una schizofrenia. Il caso Moro ci racconta un’anima persa: quella collettiva dell’Italia.

B. : È così. Mi fa piacere che sia stato notato.

A cura di Maurizio Puppo

(Parigi, Café des Editeurs, 6 dicembre 2022)

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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