Felicità di perdersi. Il ritorno alla poesia di Roberto Pazzi.

In questo articolo di Missione Poesia, la raccolta di poesie di Roberto Pazzi, “Felicità di perdersi. Poesie 1998-2012” (Barbera Editore, 2013). Il lavoro è come un abbraccio dell’autore alla sua città di Ferrara, conosciuta nel mondo anche grazie alle 26 lingue in cui sono stati tradotti i suoi libri, senza mai abbandonarla. Una visione caratterizzata da una nuova rasserenata maturità poetica e umana, dove la poesia regala un naturale affrancamento dai bisogni più materiali dell’uomo.

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Roberto Pazzi vive a Ferrara, dove insegna all’università e tiene annuali corsi di scrittura creativa, svolgendo un’intensa attività di conferenziere nei vari paesi del mondo dove è diffusa la sua opera.
Laureatosi in lettere classiche a Bologna con Luciano Anceschi e una tesi in estetica sulla poetica di Umberto Saba, ha insegnato nella scuola superiore e nell’università a Ferrara antropologia culturale e filosofia della storia e a Urbino sociologia dell’arte e della letteratura.

Roberto Pazzi

Tradotto in ventisei lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, catalano, portoghese, brasiliano, finlandese, danese, olandese, ceco, russo, rumeno, sloveno, giapponese, arabo, turco, greco, estone, lituano, polacco, slovacco, croato, serbo, bulgaro, albanese e coreano) ha esordito in poesia con una silloge apparsa sulla rivista Arte e poesia nel 1970, prefata da Vittorio Sereni.

Le sue raccolte di versi sono: L’esperienza anteriore (I dispari, 1973), Versi occidentali (Rebellato 1976), Il re, le parole (Lacaita, 1980), Calma di vento (Garzanti, premio internazionale E. Montale 1987, tradotto in francese nelle Editions de la Différence), Il filo delle bugie (Corbo, 1994), La gravità dei corpi (Palomar, 1998, tradotto in tedesco da Tropen e in turco da Estetik Us, premio Frascati, premio Calliope, premio Marineo), Talismani (Marietti 2003) e Felicità di perdersi (Barbera, 2013).

Il suo esordio narrativo avviene nel 1985 con Cercando l’Imperatore, prefato da Giovanni Raboni (Marietti 1985, Garzanti 1988, Tea 1997, Marietti 2004, premio Bergamo, premio Hemingway, premio Selezione Campiello 1985, tradotto in dodici lingue), “Storia di un reggimento russo disperso in Siberia, durante la Rivoluzione Russa, in cerca dell’Imperatore”, dalla critica concordemente collocato sulla linea fantastico-visionaria della nostra narrativa, quella meno frequentata nel Novecento italiano. Seguono poi alcuni romanzi dove la storia si fa pretesto di reinvenzione fantastica su una linea di pensiero antistoricistica: La principessa e il drago (Garzanti 1986, finalista premio Strega 1986, presentato da Giorgio Caproni e Giovanni Raboni, premio Rhegium Julii, premio Piombino), La malattia del tempo (Marietti 1987, Garzanti 1991), Vangelo di Giuda (Garzanti 1989, superpremio Grinzane Cavour 1990, ristampato da Baldini&Castoldi nel 1999, e da Sperling e Kupfer nel 2006), La stanza sull’acqua (Garzanti 1991, finalista premio Napoli, ristampato da Bompiani nel 2012).

Con Le città del dottor Malaguti (Garzanti 1993, premio Castiglioncello, premio Catanzaro) la narrativa di Pazzi, pur rimanendo di ispirazione visionaria, approda al presente, alla cronaca italiana di questi anni, alla città dove il narratore vive, Ferrara. Ecco allora i romanzi successivi, Incerti di viaggio (Longanesi 1996, premio Selezione Campiello, superpremio Penne-Mosca 1996), Domani sarò re (Longanesi 1997), La città volante (Baldini & Castoldi 1999, finalista al Premio Strega, presentato da Dario Fo e Sebastiano Vassalli, in ristampa da Frassinelli ), Conclave (Frassinelli, 2001, ristampato da Barbera nel 2012, premio Scanno, premio Comisso, Superpremio Flaiano, premio Stresa, premio Zerilli Marimò della New York University, premio Rapolano Terme, finalista premio Viareggio, finalista premio Bigiaretti, tradotto in Germania, negli USA, in Estonia, in Slovacchia, Francia, Spagna, Portogallo, Russia, Turchia, Polonia, Serbia, Brasile, Croazia e in corso di traduzione in Giappone, Lituania, Albania e Corea), L’erede (Frassinelli 2002, finalista premio Viareggio, premio Maria Cristina, tradotto in tedesco), Il signore degli occhi (Frassinelli 2004, tradotto in sloveno, premio Cala di Volpe), L’ombra del padre (Frassinelli 2005, tradotto in francese, premio Elsa Morante Isola di Procida), Qualcuno mi insegue (Frassinelli 2007), Le forbici di Solingen (Corbo 2007), Dopo primavera (Frassinelli, 2008), Mi spiacerà morire per non vederti più (Corbo 2010), D’amore non esistono peccati (Barbera 2012) e La trasparenza del buio (Bompiani, 2014).

Attualmente, dopo dodici anni di collaborazione esclusiva al Corriere della Sera, scrive in Italia sulle pagine culturali di diversi quotidiani italiani fra i quali Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno e all’estero su The New York Times.

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Conosco Roberto Pazzi di fama. Non ci siamo mai incontrati, anche se spesso le nostre strade hanno viaggiato in parallelo, per subito deviare prima dell’incontro. Penso, ad esempio, ai corsi di scrittura creativa organizzati a Bologna dall’Associazione Lucidamente, in anni passati, per i quali entrambi siamo stati docenti, chiaramente in date diverse.

La sua poetica, la sua visione, note al grande pubblico per l’enorme produzione letteraria, specie narrativa, ma anche di poesia sono senz’altro affascinanti e meritano un’attenzione particolare nel panorama letterario internazionale. Il libro di cui parleremo in questo articolo, Felicità di perdersi, segna il ritorno dell’autore alla poesia dopo altri sette romanzi e, pubblicato presso l’editore Barbera, si presenta come una raccolta di testi che offrono una nuova rasserenata maturità poetica e umana di Pazzi, anticipata comunque anche dall’eco delle sue ultime raccolte – Calma di vento, La gravità dei corpi, Talismani -, nelle quali emerge la convinzione che sia dono della poesia quella forte sensibilità proiettata in un luogo altro, dove la carne diventa un’impronta quasi superata, con una necessità di scrivere accogliendo l’affrancamento dalla vita, dal quel morso insaziabile dei bisogni che tendono a consumare l’uomo.

Il lavoro è come un abbraccio alla città di Ferrara, conosciuta nel mondo anche grazie alle 26 lingue in cui sono stati tradotti i suoi lavori, senza mai abbandonarla. Riprendendo le parole del critico milanese Gio Ferri, che stima dai tempi di Calma di vento (Premio Montale 1987) la produzione di Pazzi, possiamo dire che l’autore: ha affermato quanto il poetare sia una questione “formale”, capace di rendere il significato in modo assoluto, anche attraverso l’uso degli oggetti quotidiani, dei nomi propri, dei ricordi universali. Tutti elementi che, come vedremo appartengono alla dimensione poetica di Roberto Pazzi, insieme a tanto altro.

Felicità di perdersi

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“Tu nota; e sì come da me son porte, /così queste parole segna a’ vivi / del viver ch’è un correre a la morte.” Con questo primo esergo dantesco Roberto Pazzi presenta la sua nuova raccolta di poesie, rifacendosi ad alcuni versi del XXXIII canto del Purgatorio, laddove Beatrice – profetizzando la venuta di un nuovo imperatore, per liberare l’Italia dalla corruzione della Chiesa – dice a Dante di tener bene in mente quelle parole per poterle riportare ai vivi della Terra, dimensione che prima o poi, dovranno abbandonare. Naturalmente le parole suonano quasi come un’indicazione perentoria, dalla quale non ci si può sottrarre. Ecco, ritengo che anche Pazzi abbia espresso l’intenzione di dare questo messaggio ai propri lettori, ma più come a significare che i suoi versi sono una sorta di testamento spirituale, di bilancio e lascito per quanto fatto, vissuto, amato, donato, ricevuto e, in fondo, anche temuto nella propria esistenza. Un’entrée di cui, specie i suoi assidui frequentatori, non potranno non tener conto nella comprensione dei testi stessi.

Non è facile aprire un proprio libro con un messaggio che prende le orme di Dante, non per tutti almeno, ma lo è certo per Pazzi che, allo stesso modo, ci presenta anche i suoi maestri: Dante, Saba, Sereni e con Dante non può mancare Caproni, il più riuscito dei suoi allievi. Ciò che vorrei cercare di approfondire, di questo lavoro, riguarda alcune delle parti più significative – se pure tutto il libro è pervaso da un’emozione continua -, ovvero il rapporto con la possibilità o meno dell’uomo di essere o di non essere, quello con la città di Ferrara, con la dimensione del tempo, per certi versi con l’amore: tutte tematiche affrontate in maniera metaforica, partendo dal reale e concreto, dal quotidiano e dal visibile, per arrivare ai concetti più profondi che condividiamo con l’autore stesso.

L’essere o il non essere.

Alcuni testi sono, a mio avviso, come dardi lanciati per indicare la direzione del libro, e del pensiero autoriale, linee d’orizzonte dove scoprire proficue luci illuminanti. Parlo di Verso il Nulla, ad esempio, dove viene proposta una significanza che da sempre attiene all’arte nonché alla scienza: quella del vuoto e del nulla. Incredibilmente, per entrambi le discipline, il nulla non è una mancanza, ma un qualcosa che contiene una verità invisibile e inesauribile. La sfida è cercare di capire cosa contiene, affrontarlo quel nulla e provare a confrontarsi con esso.

Tra i tanti, anche Pasolini, in un tempo molto diverso ma quasi preveggente del nostro, ha sfidato il nulla, ritenendo che la riduzione dell’io – intesa sia nel suo interno che in ciò che proviene dall’esterno -, separando il credere e il sapere, lasciasse solo l’uomo di fronte a un potere che non sa che farsene del volto umano per la creazione/risoluzione del mondo. Ungaretti, invece, considerava il nulla come ciò che fa coincidere l’interiorità con l’espressione della relazione pudica tra gli uomini, che si sostanzia di affetto, d’amore e di attaccamento alla vita. Per Pazzi il Nulla (quasi sempre inteso con la maiuscola iniziale) sembra una direzione verso cui tendere alla fine del vissuto, dopo aver accumulato in sé stessi più dimensioni familiari, più tempi, più viaggi tutti comunque indirizzati verso il mistero. E nella misura in cui il viaggio finisce, ed è difficile capirne il porto di arrivo, il congedo – alla maniera del viaggiatore cerimonioso del miglior Caproni – è una sorta di rituale, dove gli oggetti risparmiati – penne, guanti, vestiti,/le scarpe per le camminate/che aspettano in riva al mare,/i vecchi costumi da bagno – si associano alla restituzione delle chiavi di casa prima della partenza, alla città ormai vuota e al pensiero di un nuovo e sconosciuto domicilio, dal quale sembra difficile tornare pur senza essere riconosciuti. Ed è davvero l’antro misterioso che tutto avvolge a essere parte di questo Nulla, che compare anche nel testo col verso eponimo del titolo, Risveglio sul Bosforo a Istambul, dove la felicità di perdersi è amore del Nulla che trema/alla soglia dell’alba – e non ci può certo essere amore in un Nulla fatto solo di assenza -; mentre nel testo successivo, Dove la storia non passa, viene evocata la Santità del nulla che promette – travestita dal fischio di un treno in corsa – un viaggio lontano, una fuga dalla provincia, un’evasione dal luogo dove la storia non passa; il Nulla diventa anche Niente in Il mio niente – un vuoto di parole, in realtà pieno del già detto – un Niente che ha determinato comunque una scelta di appartenenza, tu sei il Niente che mi ha scelto, e ti appartengo sempre; il Nulla ritorna in Vecchio Dio, dove la similitudine tra l’immagine di Dio e quella dell’uomo-poeta è resa esplicita anche nel passaggio Ma intanto mi lasci qui a ricordare/il giovane Dio che eri,/che non aveva caldo né sete/e pattinava leggero sul ghiaccio/del Nulla cantando senz’ombra, manifesto di una poetica che apre i battenti al passare del tempo e ai mutamenti che con esso avvengono.

La dimensione del tempo

Non c’è autore di nessuna epoca che non abbia affrontato nel suo percorso la dimensione del tempo. Vuoi attraverso argomentazioni filosofiche, scientifiche, metafisiche, introducendo nei suoi scritti l’una o l’altra condizione, a seconda del proprio pensiero. Roberto Pazzi, a mio avviso, sembra accogliere la visione filosofica di Bergson nel concetto sulla metafisica implicante l’idea che “si entri dentro l’oggetto”, fondendo il soggetto conoscente con l’oggetto conosciuto, in una totale conoscenza olistica, che coglie l’assoluto, nel suo campo di indagine proprio del tempo. Nell’esempio del gomitolo, il cui continuo arrotolarsi rappresenta la coscienza stessa, che conserva tutte le esperienze passate, per il filoso, questa equivale alla memoria, dimensione nella quale il passato stesso, prolungandosi nel presente, determina la possibilità che non ci siano due momenti identici in uno stesso essere vivente: senza il sopravvivere del passato nel presente – riprendendo anche Sant’Agostino – non ci sarebbe durata, ma istantaneità.

Nel libro di Pazzi molti passaggi afferiscono, infatti, al passare del tempo e alla conservazione della memoria attraverso l’introspezione, spesso rappresentata dalla metafora del viaggio e del mezzo utilizzato per compierlo – il treno, in specie diventa lo strumento primario di narrazione poetica -; altre volte rappresentata attraverso l’uso stilistico del correlativo oggettivo, che lega oggetti a sentimenti. Nel testo Se il treno ritarda questa possibilità – riportata nelle due varianti della positività/negatività per l’uomo – viene assimilata all’essere o al non essere presente nella vita degli altri, laddove si concentra tutta l’eternità dell’autore; nel testo Bevendo un caffèlatte, la nostalgia si lega al passato e non al futuro, mentre il poeta diventa l’attore che ha dimenticato la sua parte e tenta di recuperarla, con la paura di affogare E si cade mentre l’acqua allaga/la memoria della parte/tornata a galla a respirare; in Fondi di caffè turco, la metafora delle favorite del Sultano che temono di essere escluse dalle sue notti, serve da spunto per introdurre la paura/d’essere escluso/dai preziosi favori della sorte; Il terzo infinito – introdotto da un esergo manzoniano – pone il dubbio sulla condizione dell’uomo dopo la morte, nell’attesa di un infinito sconosciuto, e della presenza di Dio; nel testo La pietra, è la similitudine tra l’oggetto che cade nel fiume, si adagia e lì resta invecchiando e l’uomo-poeta anch’esso caduto e invecchiato, simbolicamente, nella dimensione del paesaggio fluviale, a fare da sfondo alla stessa condizione umana dell’attesa della caduta, della fine nel tempo; Le tue scarpe è il testo che apre anche alla poetica dell’amore Metterò le tue scarpe, questa sera./Partiranno con me, guideranno il treno/nella notte, verso il sud, come stelle dove le scarpe che disseminano una polvere, la stessa farina d’oro/delle farfalle, sono il mezzo per non perdere la via; Occhi nuovi è invece il testo che riporta la riflessione sul cambiamento del corpo coll’avanzare dell’età, focalizzando il pensiero sull’attenzione che Dio pone maggiormente verso i suoi giovani figli, diventandone madre, rispetto alle creature più attempate, delle quali è solo padre che non osserva più, che ritrae lo sguardo/ [e] si contempla allo specchio/d’altre creature; ritorna il contesto della stazione nella poesia Ritorno al mare, dove il tempo è diventato/il passo del prigioniero nella cella/l’attesa del pendolare/che ogni giorno spia la fuga/nell’orologio grande/allo stesso marciapiede e si lega al ricordo dell’infanzia, del luogo natio, alla nostalgia del ritorno in quel luogo sull’acqua, smorzata dalla paura di scoprire/che tutto quell’azzurro/è evaporato/e che il mare non c’è più, poiché nulla resta com’era e tutto si trasforma, anche i luoghi della nostra nascita, a noi cari solo perché ci è cara l’età dei pochi anni; anche gli specchi, le specchiere, i vecchi e nuovi specchi – nei testi omonimi – diventano un mezzo per parlare dello scorrere del tempo, anch’essi metafore di stazioni di provincia, di vagoni di seconda classe, di depositi di biciclette, incatenate ai pali pensieri ritrovati in versi folgoranti scritti nel passato e ancora tali; ed è con Verso un nuovo anno che si chiude la rassegna dei testi sul tempo, diventando il poeta un attentatore preso da l’idea/di freddare in volo l’attesa/sparando le parole/una sull’altra, e l’attesa è ancora quella d’una stazione/dove i ritardi s’accumulano/nell’annuncio dell’altoparlante, mentre i mancati arrivi cadono sull’anima come spinti dalla tromba dell’angelo/che sveglia il giorno del Giudizio indicando il risveglio, la rinascita forse anche della poesia.

Il Po. Foto © Ornella Fiorini

La poetica della geografia. Ferrara, il Po e la Pianura Padana.

La pianura padana, le sue città, il fiume sono stati, nel nostro novecento letterario, scenari che hanno fatto da sfondo alle narrazioni di diversi autori. Guareschi, ad esempio, ambienta a Brescello, sulle rive del Po, nella provincia di Reggio Emilia, i suoi racconti dedicati alle avventure di Peppone e Don Camillo nei quali la poetica del fiume è arricchita da un’attenzione tale da renderlo quasi umano: è il Po che gli uomini vanno a salutare nelle loro passeggiate in bicicletta, che fa il bello e il cattivo tempo, con le sue acque che rendono fertili i terreni, con le sue inondazioni capaci di durare giorni e costringere la popolazione ad abbandonare le case, che diventa un luogo in cui recarsi in processione con il “Cristo parlante”, per benedirne le acque e per chiedere clemenza. E’ davanti agli atteggiamenti del fiume che la gente ritrova la forza di condividere i sentimenti di sofferenza e di rinascita.

“Il Po”, scriveva Guareschi, “comincia a Piacenza, e fa benissimo perché è l’unico fiume rispettabile che esista in Italia: e i fiumi che si rispettano si sviluppano in pianura, perché l’acqua è roba fatta per rimanere orizzontale, e soltanto quando è orizzontale l’acqua conserva tutta la sua naturale dignità. Le cascate del Niagara sono fenomeni da baraccone, come gli uomini che camminano sulle mani.

Bevilacqua, invece, nel romanzo La califfa si serve del torrente Parma, affluente di destra del fiume Po, per indicare simbolicamente la divisione in due parti della città omonima: oltretorrente, è la zona popolare, a sinistra del fiume, quella dei poveri mentre a destra è la città dei ricchi, e attraversare questi spazi diventa, altrettanto simbolicamente, un voler infrangere le regole societarie, un voler negare le proprie origini per tentare un cambiamento, ancora in embrione negli anni ’70 in cui è ambientato il libro, un tentativo che costerà caro ai protagonisti Irene Corsini e Annibale Doberdò. Fiume e città, in questo caso, fanno da osservatori muti allo scorrere degli eventi.

Ferrara

Dunque, nel rispetto della tradizione culturale, anche Roberto Pazzi dedica molti dei suoi componimenti alla città di Ferrara, al fiume, alla pianura e al rapporto tra l’ambientazione e i sentimenti della gente che vi appartiene.

Nel testo Al Po è ricordata – alla maniera di Guareschi – la capacità del fiume di riunire i concittadini per la paura della fine, e il Po è umanizzato, è trattato come un fratello al quale rivolgersi per chiedere affetto e clemenza, Vieni pure a minacciarci,/caro fratello, mio grande fiume,/fammi sognare di un largo abbraccio/che tutti ci unisca per sempre/ma amaci più di quanto/sappiamo noi; in Ferrara alta il poeta osserva il panorama invernale dall’alto della città che diventa la città dell’anima, dei sogni, del silenzio e della vita, proprio come fu Genova per Giorgio Caproni descritta nel testo L’ascensore; ne I campanili pendenti di Ferrara è invece raccontato l’assetto della città fondata sull’acqua, dove I campanili pendono tutti,/il Po ha lasciato un letto/molle sotterraneo/che non può sostenerli/li invidia e se li mangia, una città dove vivere è in fondo un atto di coraggio; nei testi A Ferrara e Vivere a Ferrara la città diventa un luogo di storia e di ricordi, da cui fuggire per poi tornare, un luogo dove il tempo – ancora protagonista – concede di non essere parte della scena e di riappropriarsene per cancellare lo spaesamento; infine, è in nel testo Nevicata dal treno sulla pianura padana che si riassumono tutti i sentimenti dell’autore verso questi luoghi che sono casa, sono radici, sono identità, sono passato, presente e futuro, sono i luoghi di cui scrivere Sotto la terra bianca/come il cielo/c’è il pane di gratitudine/per la via percorsa,/per i temuti pericoli,/le paure e le attese/consumatesi tutte […] Io sono quel paesaggio,/assaporo la panoramica/di me così piccolo diventato grande,/posso guardarmi con calma,/perdere tempo […] il mondo con la mia vita dentro/mi aspettava a occhi chiusi.

Sullo stile

Sullo stile che Pazzi utilizza per la sua poesia già molto potrebbe essere detto considerando quello ripreso dai suoi maestri, citati all’inizio. Uno stile chiaro, piano, dolcemente ritmato da assonanze musicali e da un andare a capo che rasenta la perfezione. Uno stile che utilizza gli ossimori, prova ne sia il titolo stesso del libro, Felicità di perdersi, con la stessa facilità con cui propone metafore e similitudini, non è avaro di immagini e simbolismi creando al tempo stesso empatiche riflessioni anche di carattere filosofico.

La sua lingua, risente positivamente, dell’immenso bagaglio narrativo, arricchita da un’ampia gamma di lemmi e da un vocabolario accattivante e colto, capace di raggiungere il cuore di tutti. Raramente un autore, che scrive per la maggior parte in prosa, ha raggiunto anche alte vette poetiche ed è capace di concludere un testo con un avverbio in “-mente”, come dice qualcuno, ad esempio, dando prova di superare la banalità di una concezione estetica che aborrisce tale uso. Dunque linguaggio che crea versi comprensibili e semplici, ma al tempo stesso nobili ed eleganti. Ed è così che vorrei terminare questo articolo, definendo la condizione stessa di Roberto Pazzi, così come mi è sembrata in questo libro, quale nobile e privilegiata, avendo egli, certamente, provato a restituirci – per averlo vissuto egli stesso – quel senso di solitudine nietzscheana di certe aquile reali che provano a sfidare il mondo per volare da sole, con l’immensità delle loro ali.

Alcuni testi da: Felicità di perdersi

E’ ancora estate

E’ ancora estate,
il miele della luce
distilla la vita tremante
all’orlo della felicità,
tentata di fermarsi così
finita e non finita
ma all’infinito amata.
Oh ripeterei tutto,
parola per parola,
carezza per carezza,
errore per errore,
mia tenerissima colpa
di chiederti sempre
e non attendere mai,
mio tormento di crederti
ogni volta senza imparare mai.
Che la tua maschera
non cada ancora
è la preghiera a Dio,
questa sera.

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Ferrara alta

La morsa dell’inverno
stringe i corpi ad amarsi,
affatica i passi,
inganna gli anni vecchi,
in vista d’uno nuovo
li convince a risposarsi.
Sognavo da ragazzo
le vie d’una città
dove sentire solo
gli orologi battere il tempo,
vere stanze d’una casa.
Oggi è tutta mia
questa città del silenzio,
alta, sui banchi di neve alle finestre,
Ferrara è la mia camera da letto.

*****

I campanili pendenti di Ferrara

Mi guardo allo specchio e cede
qualche crepa del congegno,
passo un panno sulla superficie
ma non è una macchia,
non se ne va via,
è davvero una vena del vetro
sorella delle crepe del pavimento
nel salotto, di tanti piccoli terremoti
mai percepiti
che hanno assestato la città
fondata sull’acqua.
I campanili qui pendono tutti,
il Po ha lasciato un letto
molle sotterraneo
che non può sostenerli
li invidia e se li mangia.
Opera vana e coraggiosa
alzarsi in questa città.

*****

I sensi

Non so mai come ti chiami,
hai un nome diverso
ogni volta mi confondi
e mi fai credere d’essere
una nuova presenza,
un’altra cautela con cui
ti nascondi per salvare
i miei sensi
lenti a riconoscerti
rapidi ad amarti.
Subito mi dico
che è per sempre per sempre,
poi mi gioco l’eternità
di quei pochi minuti dei miei sensi
e capisco che sei ancora tu
ed io sono di nuovo io.
Una di queste notti
mi ucciderà non capire
subito chi sei,
la mia lentezza s’aggrava
è senza speranza.

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Le statue

Nel giardino d’inverno,
gli dèi si coprono di paglia
per non crepare dal gelo.
Ma ai tepori della primavera
esporranno
le preservate nudità,
simuleranno
un altro giro intero
intorno al sole.
Si preserva così ogni forma,
qui dove anche gli dèi
aspettano da sempre.
Si sbriciola appena l’indice
della mano di Pomona
tesa da quattro secoli
a mostrare l’uscita segreta
dal giardino.
Le divinità sanno
che nessuno crede
alle loro intenzioni di evasione
– a parte me, che le spio,
sera e mattina,
che non le perdo mai di vista,
che ho tanta fede nelle statue
e prego e scommetto
sulla loro fuga,
e già sento l’orma dei passi,
l’eco delle grida atterrite
che le richiameranno invano.

Cinzia Demi
Bologna, gennaio 2017

Il sito di Roberto Pazzi

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

1 COMMENTAIRE

  1. una poesia eraclitea, quella di Roberto Pazzi, dove ogni immagine, ogni scena, ogni ricordo contiene in sé un labirinto di possibilità, di ramificazioni, di associazioni, di altre storie,accadute o solo immaginate, che portano a errare sempre più lontano

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