Paolo Valesio e La mezzanotte di Spoleto.

La mezzanotte di Spoleto un libro compiuto che porta al suo interno una visione eletta a modus vivendi riassumibile in una condizione d’ascolto verso l’altro che consente di comprendere meglio anche se stessi che, pur facente parte ad ampio titolo della specifica identità dell’autore, non è così comune incontrare.

Paolo Valesio

Dopo la breve parentesi legata alla presentazione dell’Antologia “L’amore dalla A alla Z” curata da Vincenzo Guarracino per Puntoacapo Editrice (LINK: http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=2001), eccoci ancora a parlare dei più significativi autori della poesia italiana contemporanea. Italiana e non solo dal momento che, ad occupare lo spazio della rubrica Missione Poesia, questa volta, è la voce di Paolo Valesio, autore bolognese ma anche newyorkese dal momento che insegna letteratura alla Columbia University.

Conosco Paolo Valesio da diversi anni ma solo di recente sono entrata in contatto con lui personalmente, ho potuto incontrarlo, parlargli, coinvolgerlo in alcune iniziative di poesia da me curate, nei suoi momenti di residenza a Bologna. Di lui mi colpisce la semplicità di modi e l’umiltà nel rapportarsi con gli altri che sembra innata nel suo comportamento, ma per niente scontata in personaggi della sua levatura. Grande autore di poesia, ma anche di prosa, ha pubblicato tantissimo, e per questo vi rimando alla sua biografia. Di lui voglio proporvi l’ultimo libro di poesia dal titolo “La mezzanotte di Spoleto” edito da Raffaelli di Rimini nel 2013, con prefazione di Alberto Bertoni (LINK http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=1919). Un libro intenso e di profonda connotazione spirituale che si aggancia alla quotidianità del mondo, in perfetto stile valesiano. Caratteristica ricorrente, infatti, nei lavori dell’autore, quali che siano le collocazioni contestuali, storiche e metapoetiche che propone ai suoi lettori, è la vicinanza sia linguistica che stilistica, sia di modalità narrativa – modalità presente nella sua poesia – alla realtà umana – se pure vedremo le sue incursioni negli spazi sovraumani e sub-umani – che lo rende un autore oltremodo sempre riconoscibile, fedele a se stesso ma fedele soprattutto al suo pubblico che lo ama proprio perché è in grado di comprenderlo.

Con questo non intendo dire che sia un autore facile, che manchi di complessità, tutt’altro. Piuttosto che sia un autore nel quale sia possibile riconoscersi per quel contrasto interiore che crea la frequentazione e il continuo alternarsi tra la dimensione sacra e quella profana, alternanza in fondo – a ben pensarci – che costituisce il nucleo fondante di un’esistenza di cui Valesio si fa portavoce esemplare.

Breve nota biografica.

Poeta, narratore e critico, Paolo Valesio nasce nel 1939 a Bologna dove si laurea. Ottenuta in seguito la libera docenza, Valesio si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna a Harvard, New York University, Yale e attualmente alla Columbia University nella città di New York, dove è titolare della Cattedra « Giuseppe Ungaretti » in Letteratura Italiana. Egli dirige la rivista Italian Poetry Review presso la Italian Academy for Advanced Studies in America (situata nel campus di Columbia), e collabora a riviste e giornali italiani. Ultimamente i suoi soggiorni in Italia si stanno facendo sempre più lunghi.

Oltre a numerosissimi saggi, articoli, racconti e poesie sparse, Paolo Valesio ha pubblicato diciassette libri di poesia, due romanzi, una raccolta di racconti, e cinque libri di critica. Ha inoltre messo in scena un suo atto unico, e collaborato alla messa in scena di due opere teatrali tratte da due sue diverse raccolte di poesia. Da vari anni, Valesio è impegnato nella scrittura di cinque romanzi-diari, paralleli ma diversi, che costituiscono una Pentalogia narrativa ancora inedita (a parte alcune anticipazioni su riviste) e comprendente a questo punto più di 15.000 fogli manoscritti.

La poetica e lo stile

La poetica di Paolo Valesio, enunciata più volte da lui stesso anche se non ama definirla come tale, ritenendolo un termine troppo elevato e pregnante per connotare la sua scrittura (come già detto è autore di nobile umiltà) consiste nell’affrontare in primis, nei suoi lavori, la problematica legata al linguaggio, egli dice infatti che: «[…] nulla può essere adeguatamente espresso dal linguaggio umano nel suo uso normale. Le cose del mondo stanno lì, dure e spigolose, e il linguaggio ha una capacità molto limitata di (de)costruirle; in compenso, ha capacità pressoché illimitate di produrre fraintendimenti. Il linguaggio umano,
insomma, sembra fatto per fraintendersi. La speranza (utopica necessaria realistica) che ci sostiene nella nostra vita quotidiana in quanto vita soprattutto linguistica è che il fraintendersi divenga, a volte e in parte, un fra-intendersi: cioè, piuttosto che un ‘non intendersi’ un ‘intendersi fra’. Io vedo la mia poesia come un’accettazione profonda del fraintendimento, un tuffo nel fraintendimento, un modo di sguazzare nel fraintendimento (ma non si tratta di un giuoco frivolo e compiaciuto, bensì di un ludus molto serio). Accettare in partenza il fraintendimento in tutta la sua latitudine è la speranza migliore di attingere qualche volta il fra-intendimento, cioè di realizzare momenti di intesa reciproca.»

Com’è possibile immaginare, attraverso la ricerca di un linguaggio “per intendersi”, passa sicuramente la ricerca di una modalità comunicativa che faccia da ponte tra lo scrittore e il lettore, che porti a proporre visioni universali di pensiero, comunanze d’intenti e di modalità operative per provare a condividere anche una formula immaginaria, ma forsanche e volutamente realistica, dello “stare al modo”. Non è certo priva di senso l’assonanza con una dimensione sincera e corretta dell’uso della parola, dimensione che rende la poesia di questo autore – come poche – poesia onesta, nella quale potremmo anche pensare di vedere riflesso il principio fondamentale della poetica di Saba, ovvero la chiarezza, il rifiuto della poesia quale artificio e la sua elezione a voce di una possibile comunicazione autentica e limpida, comunicazione che, fatta in tal maniera, assolverebbe anche in fondo alla funzione sociale della poesia stessa, consistente nel rapporto profondo che è in grado di stabilire con le leggi elementari della vita. Ebbene, con queste leggi che possono certo far parte anche di un viaggio, ritrovarsi nella sosta in un luogo particolarmente significativo come la Spoleto raccontata nel libro di Valesio, è dunque possibile mettersi sempre in relazione.

I versi della raccolta La mezzanotte di Spoleto, dice l’autore:
«[…] sono nati in quella città, negli ultimi anni del secolo passato durante alcune estati il cui evento centrale era, vivente ancora Gian Carlo Menotti, il “Festival dei Due Mondi” […]». La Spoleto, di cui ci troviamo a percorrere i luoghi, ci si presenta come uno scenario – a dire il vero piuttosto naturale data la conformazione della cittadina – fatto di teatri e chiese (ecco già l’alternarsi tra il sacro e il profano) dove avvengono esecuzioni musicali corali che iniziano proprio alla mezzanotte, e di campagne circostanti dove incombe la suggestione dell’esperienza spirituale di San Francesco che diventa esperienza stessa del poeta. La storia, che si inserisce in questo contesto, è portata avanti con le sembianze di due possibili innamorati che ci introducono nelle varie situazioni, e dei quali nulla è dato di sapere rispetto all’origine o al finale della propria vicenda.

La mezzanotte di Spoleto

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Il libro si compone di un prologo, un epilogo e di quattro sezioni. Una scansione quindi programmatica, potremmo definirla così, una struttura quasi narrativa, da cui certo l’autore non è immune da influenze, in quanto grande protagonista anche di questo genere di scrittura. Per questo la raccolta, e qui sta già una delle particolarità del testo, si presenta come un libro compiuto che porta al suo interno una visione eletta a modus vivendi riassumibile in una condizione d’ascolto verso l’altro che consente di comprendere meglio anche se stessi che, pur facente parte ad ampio titolo della specifica identità dell’autore, non è così comune incontrare.

Il prologo è, in fondo, la chiave prima di lettura del libro. Nella volontà dell’autore sta il desiderio di immergersi nell’atmosfera quasi mistica della cittadina umbra e dei suoi dintorni, di ripercorrere le tappe dolorose del cammino di Francesco – che lì si ammalò prima di decidere il ritorno alla vocazione nella sua Assisi – attraverso l’invenzione della coppia che visita con gli occhi e il cuore stessi del poeta i luoghi dei concerti e si appropria della dimensione spirituale riportandola – come in gioco di specchi – all’autore che non sa decidersi quale patria adottare come propria, ma che sente una forte attrazione proprio per quel locus amoenus che sta visitando. Ecco dunque che, alzando il velame, egli penetra profondamente all’interno dell’esperienza e partendo da una citazione marinettiana – autore di cui è il massimo esperto in Italia – egli prova a raccontarcela: «Tutte le strade erranti e tutte le pareti di innocenza/ si piegano ad incanestrare il Vigneto Umbro.»

La prima tappa di questa sorta di pellegrinaggio è Monteluco (sulla via francigena) dove nel bosco sacro già a Giove, e meta di vari frati che nell’eremitaggio e nella Regola cercavano la vicinanza a Dio, non può non sentirsi la presenza inequivocabile di Francesco che, proprio qui portò a compimento la sua vicenda spirituale. Il sentimento che domina questa campitura del libro è anticipato dalla visione immaginaria della Dea Ecate che nel suo spostarsi tra il mondo dei morti e quello degli uomini – è Dea degli incantesimi e degli spettri – sembra predisporre l’animo del poeta all’incontro con il liminare della vita, incontro dal quale uscirà comunque rafforzato. Il sentimento che aleggia nei versi è un sentimento di pericolo, di pausa dalla vita stessa e in un certo senso di paura, alla quale è possibile sottrarsi solo
mormorando una preghiera alla “Santa Maria del Cammino”.

Il bosco di Monteluco viene, in fondo, rappresentato da Valesio – secondo la tradizione dantesca – come una selva oscura dove incombono ambientazioni infernali, dove si incontrano Dei vicini all’Ade e un vento /che urla virulento/stravolge i rami, come uomo o donna/di mente intorbidita/nel cuore di una conversazione/lacera delicate ragnatele/di amichevoli scambi/con una voce adirosa/. E’ un bosco dove il “Whistling in the dark” (ricordate Il fisco del guardiacaccia di caproniana memoria?) rappresenta la paura nell’analogia con l’uomo spirituale: cosa precaria e fragile, aperta a tutti i venti./Sempre attento -/dentro e fuori dall’ombra -/e solo.

E’ un bosco dal quale uscire fuori comunque rinnovati e pronti a tentare l’azzardo della danza, il balzo e il ballo – se pure barcollante e rozzo e crudo – della vita in compagnia della scura fanciulla in-ospitale (la morte?) a cui offrire con coraggio il petto senza scudo.

La seconda parte del libro ci presenta invece il percorso concertistico tra il teatro “Caio Melisso” e la “Chiesa di Sant’Eufemia” di Spoleto dove, tra il mezzogiorno e la mezzanotte i nostri viaggiatori – e per loro, o attraverso di loro, il poeta – assistono alle esibizioni corali del Festival, e i sentimenti che ne nascono. Così, se nei concerti diurni predominano i colori degli affreschi e degli arredi, e alle voci e agli strumenti danno riscontro vertigini all’uscita ma solo di chi ha voluto ascoltare interrogandosi su ciò che stava ascoltando (docet la citazione dal “Padadosse sur le comédien” di Diderot: «l’acteur est las, et vous triste, c’est qu’il s’est démené sans sentir, et que vous avez senti sans vous démener»), in quelli notturni l’intensità è tale che diventa impossibile cedere ad assenze o distrazioni: la paura, ancora la paura degli spettri e dell’umano destino
si presenta impietosa evocatrice di marionette/nel teatro crocefissionale; di aridità pagana/[…che]/ strappa il cuore alla parola “reo”; di Lingua lambente, come il cervo nell’acqua del torrente,/fiamma plangente; di pellegrini che scavarono la loro musica/Sotto mucchi e ruine di cadaveri/dentro i profondi strati/dei teschi e dei frammenti… il risultato dominante è che all’uscita l’ascoltatore – chiunque esso sia, ma in specie il poeta -: Vorrebbe rifugiarsi ai pellegrini,/dietro il loro muro di canto./Ma questo/è il consiglio della viltà./Lo deve ricacciare: solo resta/con la sua nudità.

La terza parte del libro si svolge tra le suggestioni della via Vaita de domo di
Spoleto ed è predominata dallo sguardo del mondo sub-umano, dallo sguardo animale o animalesco. Un punto di vista altro, ancora misterioso per certi versi, ma vicino tanto più vicino all’uomo stesso quanto questi tenti di allontanarsene e del quale sarebbe bene essere alleati per tentare di con-battere, insieme,
il grande obiettivo… con camminamenti/ di selvatico amore/che spesso di sé ride. Del resto nella terra che fu di Francesco è impossibile non pensare a tali comuni camminamenti e Valesio – in questa parte del libro – cita animali e situazioni di cui questi sono partecipi con l’uomo, rendendo loro un ruolo significativo nell’intreccio complesso tra le varie dimensioni.

In uno dei testi iniziali, Gli animanti (Glossa a San Francesco), vediamo, infatti, che subito ci appare chiara la poetica dell’autore che intende significare l’importanza della dimensione animale, sub-umana, tanto quasi da farla convogliare in quella sovraumana in un parallelismo dove i vari regni si toccano e si compenetrano in confini sempre più labili, tant’è che gli animali diventano animanti, come di anima dotati:
“Regno animale e regno vegetale/e regno umano e regno angelicale:/i confini sembrano/indebolirsi come in una nebbia -/paiono graffi, superficialmente/graffiti e graffiati/sopra la pelle del mondo//Cerchio degli animali,/degli animati animanti -/metaforico cerchio”… e se: tra gli angeli e gli umani/gli uccelli sono angeli rimpiccioliti… e Gli animali, tutti, sono/agli uomini quasi eguali…
ecco anche che compare un monito dove Valesio, come Francesco, presenta e rivive le contraddizioni tra i regni cercando di spianarle, di rendercele in una visione di uguaglianza dei suoi componenti, o forsanche di superiorità della specie dominata:
Come gli angeli, gli animali/richiamano in questione/l’affaticata congiunzione/ di corpo e d’anima./E’ forse per questo che sono/più belli degli uomini -/appesantiti dall’anima/che si portano in petto.

In questa parte della raccolta, in qualche modo la più dolente – forse proprio per questo confrontarsi con una dimensione che ci sforziamo di non considerare vicina, che spesso schiacciamo sotto il peso della nostra arroganza – il testo finale chiude perfettamente il cerchio nel quale una cavalletta entrata nella camera del poeta – o del suo alter-ego viaggiatore – per tre volte viene aiutata a fuggire, poggiata sul davanzale della finestra pronta a prendere il volo e per tre volte questa torna dentro la camera finché viene lasciata al suo destino: in compagnia del proprio scheletro.

E’ così che nell’ortottero, raccontato in questi termini, sembra quasi racchiudersi una dimensione cristologica di rifiuto della propria liberà, della propria salvezza per desiderio di vicinanza con l’uomo che per un po’ lo asseconda quel Cristo, e cerca di assolverlo da questo compito gravoso, lo vuole svincolare dall’impegno ma poi stanco della sua insistenza lo lascia alla sua croce.

Secondo chi scrive è inevitabile che Valesio, da scrittore cristiano e cattolico qual è, non tralasci dunque di inserire anche messaggi racchiusi in metafore sottili, che hanno ancor maggior ragione di esistere, in questa parte del lavoro dove – come detto – egli tenta di trovare un significato e un valore comune ai regni creati da Dio.

La quarta parte del libro riprende ancora il cammino di Francesco dove il poeta sembra voler proporre ai viaggiatori – e a se stesso – un’ancora di salvezza seguendo le sue tracce:
…una fine/che cala nel subacqueo silenzio/e tocca la fronte/di lui che stava annegando/senza osarselo dire; l’afferra…
e sembra voler toccare alcuni punti focali della cristianità e del messaggio fatto proprio dal santo, come la Natività:
Il giorno è rosso come rossa è stata/la notte della Vigilia/alla messa di ninna e di nanna… come il Desiderio di parola…la preghiera… mentre gli vengono in mente altre sante, forse portate ancora dai cori della chiesa, quella santa Caterina, vergine e martire, ad esempio, simbolo dell’importanza del perdono, dal cui capo spezzato dalla scure del boia uscì latte e non sangue, quasi come se: morendo/ (venisse a farsi) del carnefice madre… perché: Allora come oggi, il perdono/dev’essere risultato/a mala pena tollerabile:/come esser privati di colpo,/soffocantemente,/di quell’ossigeno d’odio/di cui si nutre la normalità/del nostro vizio diario.

Ma il colpo di scena finale sorprende, perché sembra venire proprio dal santo il rimprovero, che dice:
“E tu che cosa vuoi da me, o tristo? Le orme da seguire son di Cristo!/Accodati al maestro e non al servo.”
Tanto, certamente, per sottolineare ancora l’umiltà di Francesco che non vuole essere idolatrato in quanto servo del Signore. Umiltà che ci riporta a quella stessa del poeta che, nell’Epilogo, pensa a tirare le fila di tutta la raccolta proponendo una similitudine tra il cammino spoletano e il cammino interiore, tra la vicinanza di Francesco e la possibilità che viene data all’uomo di rendersi più disponibile all’ascolto, con un prezzo da pagare che consiste nel rendere invisibile se stesso.

Raccolta dunque complessa e completa, come detto, questa di Paolo Valesio che – come dice giustamente Alberto Bertoni nella prefazione – è «[…] autore in perenne trapasso da un luogo all’altro senza divenire mai (il suo lavoro) mero resoconto o taccuino di viaggio, mistica senza confessionalità: basta considerare anche la vicenda d’amore e dialogo tra un uomo e una donna che è il Leitmotiv tematico della Mezzanotte di Spoleto
(che) viene declinata tutta in terza persona, con un di più di mistero assai sconvolgente.» Raccolta dove la scioltezza di lingua e la profonda polifonia prodotta – dove si realizzano anche parecchi neologismi come crocefissionale o animanti
si mescola all’alta qualità sintattica dando vita ad una produzione poetica che, nonostante – come dice l’autore – abbia “posato” per alcuni anni senza trovare la via della pubblicazione (la composizione è della fine degli anni ’90 del ‘900), è piena di energie vitali, di spunti di riflessione che si inseriscono in quel filone di poesia religiosa che porta precedenti illustri da Manzoni a Rebora a D.M. Turoldo – tanto per citarne qualche nome – e che si riafferma con la forza testuale dell’autore proprio per quel suo rapportarsi anche con la dimensione quotidiana, di cui si accennava all’inizio, non scevra da scontri-riscontri giornalieri con la religiosità.

QUALCHE TESTO:

Ecate

Ogni suo apparire mi stupisce.

L’hai veduta, in questi giorni, crescere

con un’ammirazione

che preparava l’amore

ma che era nutrita di timore.

Ogni sera lasciava che l’umido biancore

invadesse la stanza un poco più-

Ma al momento del sonno

chiudeva gli scuretti.

Ieri notte: nel caldo che scendeva

dal soffitto basso di legno

ricurvo come un ventre di balena,

ha spalancato

la finestrella più vicina al letto.

Si è poi riscosso fra lo scuro e l’alba

prima che si sentissero gli uccelli,

con il petto schiacciato e gli occhi torbi.

Gli era balzata addosso

e il suo bianco malato

aveva offuscato –

gran cappucci di cobra dispiegato –

il cielo del soffitto.

*****

Monteluco

(Cum essem in peccatis… S. Francesco d’Assisi)

Il bivio è nella pelle e nella mente.

Il presente è essenziale e incomprensibile;

il futuro, inguardabile; il passato

intoccabile.

E resta l’altro: il bivio

del lavoro mentale

(con il cervello teso

a sollevare sacchi

a travasare secchi).

Che cosa fa la mente

con gli anni del peccato?

Può lasciarli cadere –

senza nemmeno bollarli « anni sciupati »,

schiacciandoli al disotto del giudizio –

nel vuoto del tempo universo;

o ricercarne con passione il senso:

ogni ora di vita ha da servire –

anche la più sassosa

anche la più fangosa –

a lastricare il cammino

per l’Ascesa del Monte.

*****

Spettatore notturno

Silenziosamente invoca:

Tienimi

le palpebre sollevate

che troppo greve cala

sullìocchio

sinistro.

Temo le tenebre

ancora più di quanto io paventi

la luce.

(Primo coro della mezzanotte. “San Francesco Girls Chorus” – Chiesa di S. Eufemia)

Cinzia Demi

Bologna settembre 2014

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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