“Poteri forti (o quasi)”, una testimonianza degli ultimi 40 anni

Ferruccio De Bortoli, decano dei giornalisti italiani è l’autore di: “Poteri forti (o quasi)”, editore “La nave di Teseo”, che ha conosciuto un momento di fama a seguito delle effimere « rivelazioni » sulla Boschi e il tentativo presunto di intervenire a sostegno della Banca Etruria. Ma al di là delle polemiche altrettanto effimere che nacquero, il libro ha il merito di essere una testimonianza su 40 anni della nostra economia, sull’informazione, la giustizia, la politica. Un libro ricco di personaggi e retroscena con episodi ai più sconosciuti e per questo da conoscere.

Prima di richiamare Renzi come il “Napoleone di Rignano” (così considerato ne “I potenti al tempo di Renzi” di Paolo Madron e Luigi Bisignani, ed. “Chiarelettere”, 2015) per “la bulimia del potere personale” (titolo del capitolo che lo riguarda), prima di scrivere che nel 2015 la Ministra delle Riforme Maria Elena Boschi aveva chiesto all’Amministratore Delegato Ghizzoni dell’Unicredit di valutare l’opportunità d’acquisire la “Banca Etruria” (“il segreto di Pulcinella”, come lo ha definito Renzi), e prima d’accennare al sospetto di “massoneria” negli ambiti finanziari in Toscana (da una risposta d’Alessandro Profumo, ex presidente del Monte dei Paschi, sui loro fili sotterranei), De Bortoli non solo descrive i “poteri” visti da Direttore del “Corriere della Sera” dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015 e de “Il Sole 24 Ore” dal 2005 al 2009, ma anche quelli visti precedentemente in tutta la sua carriera professionale. Che egli inizia come cronista (tra i colleghi: Lina Sotis e Vittorio Feltri) nel 76 al “Corriere d’Informazione” (l’allora quotidiano del pomeriggio).

Il terrorismo in quegli anni è determinante nella cronaca, poiché “non passava settimana che qualcuno, dirigente d’azienda, imprenditore, giornalista, non venisse ‘gambizzato’” come Montanelli nel 77, anno in cui egli è inviato a Torino per i servizi dopo l’attentato delle “Brigate Rosse” al Vice Direttore della Stampa Carlo Casalegno.

de-bortolip.jpg Nel 79 l’”escalation” della sua carriera con il passaggio al “Corriere della Sera” va di pari passo con quella del terrorismo: nell’80 egli è incaricato (tra l’altro) del servizio sull’assassinio compiuto da “Prima Linea” all’Università Statale di Milano del magistrato criminologo Guido Galli, successivo a quello sempre di “Prima Linea” nel 79 a Milano del magistrato Emilio Alessandrini e precedente di 2 mesi quello ancora a Milano del giornalista Walter Tobagi, ad opera dalla “Brigata 28 marzo”. Nell’80 sono assassinati a Roma: dalle “Brigate Rosse”: il magistrato Girolamo Minervini, Vice Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, e alla Sapienza Vittorio Bachelet, Vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura e titolare della cattedra di diritto amministrativo; e, dai “Nuclei Armati Rivoluzionari”, il sostituto procuratore Mario Amato. Gli “anni di piombo” sono dunque quelli del suo primo inchiostro.

Nell’86-87 egli è caporedattore a “Il Sole 24 Ore”, dopo esserlo stato a “L’Europeo” e prima d’esserlo dall’87 nuovamente al “Corriere della Sera”, di cui diviene Vice Direttore dal 93 al 97. Dal 2003 al 2005 è amministratore delegato di “RCS libri” (RCS=Rizzoli Corriere della Sera) e Presidente della casa editrice (di “RCS”) “Flammarion”.

Se egli considera i poteri di Renzi talmente “forti” da averlo abbagliato sui risultati sperati del referendum di dicembre 2016, dopo aver bruscamente sostituito Letta a Palazzo Chigi nel 2014 presiedendo un Governo prevalentemente composto dai “suoi” di fiducia (Boschi alle “Riforme” e Luca Lotti Sottosegretario), e talmente “forti” da escludere la candidatura di Letta a Presidente del Consiglio Europeo a favore di quella della “sua” Ministra degli Esteri Mogherini ad Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri (d’altra parte nei “giochi” delle assegnazioni a Bruxelles era probabilmente ipotizzabile il maggior successo di quest’ultima, per di più per le sue qualità che hanno poi reso più prestigiosa la sua carica), non similmente “forti” o “quasi” egli considera quelli del mondo economico e finanziario dei decenni precedenti.

L'attentato delle B.R. a Indro Montanelli

O almeno non li ritiene tali da lasciare una traccia più solida del prestigio del “made in Italy”, anche riconoscendone i meriti dopo i risanamenti, nell’era della globalizzazione. Esempi: la FIAT diventa FCA e inoltre trasferisce la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra, “accompagnata alla frontiera” da Renzi in quanto nessun politico propone l’equivalente d’un’“exit tax” come Trump o la Francia a minor vantaggio della delocalizzazione oltre confine. Parmalat diventa di Lactalis. Fendi, Pucci e Bulgari diventano pure francesi (di LVMH Arnault), come Gucci (di PPR Pinault) e tra poco Luxottica d’Essilor. Valentino è ora “qatarese”. La discontinuità di “Benetton” s’è invece manifestata con la diversificazione della Holding “Edizione”, cui fa capo, nei settori tariffati: “Autostrade” oltreché “Autogrill” e, indirettamente e in parte minore, “Aeroporti di Roma” e “Telecom” divenuta “TIM”. Sulla quale inoltre, come su Mediaset, oggi s’espandono ancora le mire francesi di Vivendi.

L’internazionalizzazione industriale-finanziaria è dunque avvenuta con questi esempi nel senso opposto a quella di 30 anni fa, quando Gardini con l’Eridiana aveva comprato Beghin-Say e Berlusconi “la 5” in Francia (pur mantenendole per soli 5 anni circa a causa dello scorporamento del capitale di Gardini dopo il suo suicidio e del fallimento de “la 5”), e quando De Benedetti aveva fatto tramite la “Cerus” francese l’assalto alla “Société Générale” belga ma dovendo poi a questo fine vendere “Buitoni-Perugina” a “Nestlé” e arrendersi al “nocciolo duro” di azionisti guidato dal Gruppo “Suez”, nel quale è successivamente confluita e il quale si è poi fuso con la “Lyonnaise des Eaux”.

A conferma della maggiore impermeabilità dei francesi vis-à-vis degli investimenti italiani rispetto a quella nel senso opposto, è attuale il caso dell’acquisizione da parte di Fincantieri dei cantieri navali di St. Nazaire, ostacolata per oltre il 50% pur allo scopo del loro risanamento.

Attuale è pure, sulla scia delle considerazioni di De Bortoli, il caso “Alitalia”: egli ricorda che nel 2008 “Il Sole 24 Ore” che dirigeva (e su cui ha riscritto in proposito il 10 gennaio scorso un articolo) aveva preso una posizione non favorevole alla cordata patriottica d’azionisti insieme all’ Etihad (per il 49% del capitale) per il salvataggio, ma rende omaggio alla proprietà del giornale ossia la Confindustria e ai suoi Presidenti Montezemolo (poi Presidente della nuova “Alitalia”) e Marcegaglia (avvicendatisi quell’anno) per il rispetto, in contrasto con i loro interessi, dell’autonomia della redazione. Mal comune mezzo gaudio: ora “Air Berlin” pure di Ethiad per il 49% è nella stessa situazione, e intanto lo Stato garantisce i prestiti per non lasciare a terra i passeggeri; ma non si tratta della compagnia di bandiera, “Lufthansa”, interessata a rilevarne alcuni apparecchi e (come Ryan Air anche dall’Alitalia) rotte.

Il rispetto da parte della proprietà dell’autonomia di redazione del giornale è sostanzialmente riconosciuto da De Bortoli anche per il “Corriere della Sera”. Sia da quando i proprietari sono diventati talmente numerosi da impedire che un’eventuale singola influenza divenisse determinante (per esempio uno di loro, Giuseppe Rotelli, imprenditore della sanità, scomparso nel 2014, si limitava a esprimere cortesemente i disaccordi quando c’erano; i Pesenti intervenivano raramente; e con Della Valle, Ligresti e Tronchetti Provera i disaccordi più sostanziali rimanevano nell’ambito dell’interlocuzione), sia quando la loro parte era di maggior rilievo: solo Gardini aveva alzato i toni con lui nel 93 poco prima del suicidio e Agnelli nel 2002, poco prima di morire, gli aveva chiesto di riassumere Gianni Riotta, Condirettore de “La Stampa”, come corrispondente del “Corriere” da New York dov’era già stato prima. Ma “le forme” distinguono “i proprietari dai padroni”, com’era già successo quando una domanda telefonica al Direttore del “Corriere” aveva preceduto la nomina di Riotta a Condirettore del giornale torinese.

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E le altre “forme” ricordate da De Bortoli valgono come insegnamento: ad esempio: nel rapporto di “cuginanza” (ovvero concorrenza ma nel rispetto reciproco) tra il “Corriere” e “La Stampa” sotto lo stesso “proprietario” (anche quando c’era stata la smorfia d’Agnelli per il passaggio di Sergio Romano dal giornale di Torino a quello di Milano); nei rapporti con Agnelli di Gabetti, la cui solidità era mantenuta dal “lei” e non dal “tu” che perciò quest’ultimo aveva preferito non accettare quando gli era stato proposto; idem in quelli di Romiti, che ha raccontato lo stesso fatto in un’intervista a “RAI Storia” e che alla Messa di funerale d’Agnelli è sempre rimasto in piedi, nel rispetto (che aveva pure Agnelli) delle usanze di Cavalleria anche alle cerimonie religiose. E le “forme”, infine, avevano salvato il Gruppo FIAT anche nei dissidi tra gli Agnelli e Romiti sulle scelte di diversificazione nei vari momenti di contingenza.

Dal 98 al 2004 Romiti è stato Presidente della “RCS”, pertanto l’editore del “Corriere” diretto da De Bortoli. Anche allora ha sempre rispettato l’autonomia della redazione, pur con i suoi scetticismi sull’Euro in contrasto con la linea filoeuropeista del giornale. Scetticismi ai quali s’aggiungevano quelli di Paolo Savona, consigliere della “RCS”. De Bortoli aggiunge che nonostante il suo carattere non facile, mai avrebbe consentito il licenziamento del Direttore di “El Mundo” (appartenente alla “RCS”), com’è avvenuto nel 2014 per i poteri “forti” a Madrid in cambio “d’una manciata di pubblicità”.

Allora, quanto sono “forti” in contropartita editori e giornali? Economicamente e anche con azionisti di rilievo non possono fare a meno o di sacrifici (vendita del palazzo “storico” del “Corriere” di Via Solferino e “sacrificio” recente anche a “Il Sole 24 Ore”, con il Direttore Napoletano “sfiduciato” dalla redazione per il bilancio dopo che il predecessore Riotta lo era stato ugualmente nel 2011); oppure di tentativi di diversificazione: ma quando questi sono cominciati nell’82 con quella televisiva: Mondadori con “Rete 4” e Rusconi con “Italia 1”, sono stati di breve durata, essendo i rispettivi canali stati comprati circa un anno dopo da Mediaset. “Mai credere che una migliore tecnologia nella diffusione dei contenuti rappresenti la naturale evoluzione del proprio business”. Idem, oggi, con l’informazione digitale.

Di fronte ai “tweets”, “Youtube”, “Facebook”, “Whatsapp” e “Internet” in genere, che sono sì l’espressione della libertà d’opinioni di dimensioni mai esistite in precedenza, e di fronte a quelli di propaganda politica che sono l’arma di Trump e Renzi, è dunque ulteriormente necessario un giornalismo che si concentri sulla riflessione dei fatti piuttosto che sulla rapidità delle notizie. Come però di fronte a questa neanche Enzo Biagi riuscirebbe a mantenere il privilegio delle proprie opinioni al livello dei suoi guadagni, così i giornalisti più bravi delle generazioni successive sono stati o sono costretti a dei sacrifici di lavoro non sempre in linea con i loro stipendi.

Gianni Agnelli

Ad esempio Maria Grazia Cutuli (alla quale, oltreché a Tobagi, è dedicato il libro) prima d’essere assunta nel 99 a 37 anni d’età a tempo indeterminato dal “Corriere della Sera” era passata per vari contratti di collaborazione con questo e precedentemente con altri giornali e il Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: contratti che senza stipendi stratosferici ne avevano fatto un eccellente elemento professionale, a tal punto da essere poi inviata in Afghanistan dove nel 2001 è stata assassinata insieme a tre colleghi stranieri i quali probabilmente come lei opponevano il coraggio alla busta paga. Nel 94 lo stesso coraggio d’Ilaria Alpi del TG3 s’era concluso con il suo assassinio a Mogadiscio. Coraggio che continua a esserci in tutti i giovani giornalisti che scrivono e trasmettono tra fuochi e bombe dal Medio Oriente, dalla Libia e dagli altri Paesi del Mediterraneo (oltreché in precedenza dall’Afghanistan e dall’ex Jugoslavia), sempre con stipendi imparagonabili non solo con quello di Biagi (che affermava: “se gli editori scoprissero quanto ci divertiamo a lavorare non ci pagherebbero più”!) e dei suoi “pari” colleghi, ma anche con quelli di chi oggi conduce “talk shows” che altro contenuto non hanno oltre a quello di questa definizione. E coraggio che segue l’esempio di quello di Tobagi, poiché è con questo che negli anni 70/80 erano stati gettati i semi “in una società provata e disillusa” per vincere il terrorismo. Il quale allora colpiva (oltre ai politici) giornalisti e magistrati in quanto li considerava alla pari espressione del potere.

Ma ciò non giustifica una loro interdipendenza. In proposito, nel capitolo “Giornali e magistratura: realtà e falsi miti”, De Bortoli oppone sempre la realtà dei fatti nel compito dei giornalisti al mito dei magistrati d’averli sempre dalla loro parte: come quando nel dissidio nel 2014 tra il Procuratore Capo Bruti Liberati e il Procuratore Aggiunto Robledo sul fascicolo riguardante la turbativa d’asta nella vendita delle quote SEA il “Corriere” ha fatto “arrabbiare entrambi”. Nel descrivere altri casi d’indipendenza tra giornalisti e magistrati, De Bortoli racconta d’aver fatto venir meno questa solo quando nel 2000 la magistrata Ilda Bocassini, titolare delle indagini sul rapimento dell’industriale Tacchinardi, gli aveva chiesto il silenzio stampa per non comprometterne la vita: insieme a “La Repubblica”, il silenzio era stato rispettato finché era poi prevalsa la necessità di non nascondere più il successo delle forze dell’ordine e del governo contro i rapimenti (poi confermatosi con la liberazione di Tacchinardi).

Spadolini ed Andreotti

Le indagini giornalistiche altrettanto approfondite di quelle dei magistrati hanno anche causato le inopportune richieste a De Bortoli nel 2012 di Roberto Formigoni d’informazioni su quelle che lo riguardavano per il “caso Maugeri” (pagamenti per appalti sanitari quando era Presidente della Regione Lombardia), e nel 2011 di Letizia Moratti ricandidatasi all’elezione a Sindaco su una sentenza della Corte d’Assise di Milano di condanna per furto del suo rivale e poi vincitore Giuliano Pisapia (assolto in Appello “per non aver commesso il fatto”). Manifestandosi così i poteri del giornalismo “forti” di fronte alle “debolezze” dei politici: nel primo caso perché “il potere gestito troppo a lungo … logora, trasforma…”, nel secondo perché “consigliata male” la carta giocata (indipendentemente dai rispettivi meriti nel funzionamento della sanità lombarda e nella gestione di Milano portandovi tra l’altro l’Expo).

I decenni di Storia di De Bortoli comprendono anche la parte di Carlo De Benedetti come editore concorrente (“Espresso”/”Repubblica”) oltreché industriale (tra l’altro nell’85 aveva subito l’opposizione di Craxi all’accordo di cessione della SME dall’IRI alla Buitoni e nel 99 “aveva fatto il diavolo a quattro in odio a Colannino” e alla sua OPA sulla Telecom, da questi ceduta nel 2001 a Tronchetti Provera). Nel 97, quando circolava l’ipotesi solo immaginaria d’una fusione de “La Stampa” con “La Repubblica”, De Bortoli era stato invitato a cena da De Benedetti vicino a St. Moritz, da dove Agnelli gli aveva telefonato invitandolo per l’aperitivo visto che “era già impegnato” per cena! Altra conferma non solo della “gelosia” d’Agnelli per i suoi giornali, ma anche di come tutti i cambiamenti di capitali di quegli anni (IRI e altri “carrozzoni” statali -EFIM nel 92- smantellati di fronte alla regole europee e alla concorrenza mondiale) fossero rallentati dalle tradizioni dei vecchi poteri evitando anche azioni precipitose.

E’ così che Enrico Cuccia, a capo di Mediobanca dal 46 come Direttore Generale (quando era stata creata dalla tre banche IRI “d’interesse nazionale”: “Banca Commerciale”, “Credito Italiano” oggi “Unicredit” e “Banco di Roma”), e infine come Presidente onorario fino alla sua scomparsa nel 2000, ha supervisionato in tempo anche il processo di distacco dall’IRI della Banca Commerciale Italiana, acquistata nel 99 per il 70% del capitale da Banca Intesa (quando il Presidente di questa Bazoli per evitare i giornalisti era passato per il sotterraneo tra Mediobanca e il teatro di Via Filodrammatici) e fusasi in questa nel 2001 (“Intesa BCI”). Questa, nata a sua volta nel 98 dalla fusione della “Cariplo” con l’Ambro-Veneto”, si è poi fusa nel 2007 con “San Paolo IMI” (a loro volta fusisi nel 98), dando luogo a “Intesa San Paolo”.

Dalla sede di Via Filodrammatici, oggi “Piazzetta Cuccia”, egli è stato dunque l’uomo che non solo aveva fermato Michele Sindona nelle scalate alla “Bastogi” nel 71 (prima del fallimento nel 74 delle sue “Franklin Bank” e “Banca Privata Finanziaria” e l’assassinio nel 79 del suo liquidatore Ambrosoli), ma anche il “regista” dei “matrimoni” inevitabili con il tempo tra banche d’origine cattolica e banche d’origine laica (come la “Commerciale” che aveva avuto le figure prestigiose di Raffaele Mattioli Direttore dal 32 al 38 e dal 48 al 70 e di Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Guido Carli, Cesare Merzagora, lo stesso Cuccia che nel 44 aveva accompagnato Mattioli negli USA per riaccreditarvi il prestigio dell’Italia, allo stesso modo di Carli alla Conferenza della Pace di Parigi). Matrimoni già iniziati nel 98 come quello tra il “San Paolo di Brescia” e il “Credito Agrario Bresciano”, donde la “Banca Lombarda”, e matrimoni che hanno fatto seguito a quelli di minor successo negli altri settori.

Enrico Cuccia

Dopo quello “Montedison”=Montecatini+Edison nel 66 (Cuccia aveva puntato “inizialmente su Eugenio Cefis … e poi su Mario Schimberni per far quadrare i conti”) e prima di quello “Enimont”=Enichem+Montedison nell’88, la Montedison nell’85 aveva effettuato la scalata alla “Bi Invest” e nell’86 Schimberni aveva effettuato quella alla “Fondiaria” con il disaccordo di Cuccia e delle famiglie fiorentine azioniste (Marchi, Ferragamo, Pecci, Rimbotti), le quali poi nel 2003 hanno visto il passaggio della società alla SAI di Ligresti (“Fondiaria SAI”) e, dopo le vicissitudini finanziarie di questi, hanno visto scomparirne nel 2014 il nome non solo dalla Borsa ma anche nell’”Unipol SAI” conseguente alla fusione di queste. Dall’88 al 90 Schimberni a capo delle Ferrovie dello Stato ne inizia il risanamento, divenendo contemporaneamente proprietario della casa editrice “Armando Curcio” che fallisce nel 94. Altri aspetti del potere!

Nel 97 De Bortoli incontra Cuccia per la prima volta, più per la curiosità di questi di conoscere il Direttore designato del “Corriere” che per la parte di azioni di Mediobanca nel capitale della “RCS”. Incontro ov’è stato imposto a De Bortoli solo di recitare il proprio CV, e incontro dopo il quale l’unica richiesta di Cuccia a De Bortoli è stata nel 99, quando gli aveva manifestato per telefono il desiderio di partecipare con la sua firma sul giornale al 90° compleanno di Montanelli (De Bortoli: “quanto le serve?”; Cuccia: “tre o quattro righe”, che poi sono state tre e mezzo a conferma della sua discrezione con i giornali ai quali non ha mai rilasciato interviste). “Cuccia non visitò mai una fabbrica”, era “sopravvissuto al suo tempo”, ma “d’inarrivabile cultura”.

“Quel sistema fece argine all’invadenza dei partiti”, iniziata secondo De Bortoli nel 56, con la creazione del Ministero delle Partecipazioni Statali”. Prima “l’autonomia era più garantita”, “persino durante il fascismo”. “L’IRI fu voluto da Benito Mussolini e affidato ad Alberto Beneduce e Donato Menichella che fascisti non erano”. “La Comit e il mondo costruito” da Mattioli “attorno alla banca rimasero estranei alle vicende del fascismo coltivando una sorta d’extraterritorialità … che poi sarebbe vissuta nel dopoguerra”, “nonostante la presenza dello Stato nel capitale”, “in perfetto equilibrio tra pubblico e privato”. Finché “il dialogo con Roma” non apparve “forse più facile sotto la dittatura”.

La tomba di Ilaria Alpi

Continua la rilevante presenza di Mediobanca nelle “perle” del capitalismo italiano: le Assicurazioni Generali, che “secondo Cuccia non dovevano mai essere vendute”, dopo le Presidenze di Antoine Bernheim (“che non volle mai imparare una parola d’italiano”) dal 95 al 99 (fino al suo disaccordo con Cuccia per il passaggio di Braggiotti da Mediobanca alla “Lazard”, pure azionista di rilevanza) e dal 2002 al 2010, sono sempre appetibili come s’è visto all’inizio del 2017 nelle mire di “Intesa” ma restano sempre un braccio operativo nelle manovre finanziarie del suo principale azionista Mediobanca. E continua la presenza dei francesi nel management: con Philippe Donnet amministratore delegato, “amico, socio e compagno di caccia di Jean Pierre Mustier, chief executive officer d’Unicredit”. Oltreché chiedersi se i francesi oggi accetterebbero managers italiani di questo calibro (non si hanno altri ricordi oltre a Ferré nella moda o Strehler all’Opéra), o se accetterebbero un azionista italiano equivalente alla parte di BNP Paribas nella BNL, resta la tentazione di sapere se Mustier o Donnet riuscirebbero a imporre alle cariche aziendali in Francia le stesse denominazioni in inglese!

I diversi lustri di De Bortoli comprendono anche alcuni suoi ritratti dei giornalisti “storici”. Se ne riportano i tratti che vale la pena di ricordare:
Indro Montanelli: Nel 94 aveva sconsigliato a De Bortoli d’accettare l’offerta della Presidente della RAI Letizia Moratti di condurre un telegiornale. Stesso sconsiglio datogli da Biagi, grande firma anche della RAI fino all’”editto bulgaro” del 2002 (dichiarazione di Berlusconi a Sofia contro Santoro, Luttazi e lo stesso Biagi alla RAI). “L’era Berlusconi stava cominciando”, Montanelli aveva “appena divorziato dal suo editore” (dopo che questi s’era presentato alla redazione de “Il Giornale” promettendo più soldi in cambio dell’appoggio al suo inizio politico).

Nel 72 aveva girato a Spadolini, licenziato come Direttore del “Corriere” dalla proprietaria Crespi, la proposta di La Malfa di candidarsi per il PRI alle elezioni. Nel 72 cominciavano inoltre con il “Corriere” gli screzi suoi e dei colleghi con i quali si è poi dimesso e ha fondato nel 74 “Il Giornale”: all’inizio con il sostegno finanziario della Montedison e dal 77 con quello di Berlusconi.

Giovanni Spadolini: Nominato Direttore del “Corriere” nel 68 a 42 anni, “si sentì enfant prodige per tutta la vita”. “A volte si fermava a enfant”. “Montanelli disse di lui che saliva le scale d’ogni palazzo con l’agilità d’una mongolfiera … ma arrivava in cima … prima degli altri”. Per lui “ascoltarsi era un piacere intimo” come quello “della cucina”. Arricchì il “Corriere” con le firme (tra gli altri) di Montale (articolo dell’uomo sulla luna nel 69), Parise, Flaiano, Sciascia, Flaiano, Valiani e Bassani. Secondo Montanelli Il suo passaggio in politica (74-76: 1° Ministro dei Beni Culturali, 79-87: Segretario del PRI, 79: Ministro dell’Istruzione, 81-82: Presidente del Consiglio, 87-94: Presidente del Senato) era scritto “nel suo destino di studioso e interprete del Risorgimento italiano”.

Enzo Biagi: Nel 97, anno della nomina di De Bortoli a Direttore del “Corriere”, “aveva accettato di lasciare un po’ di spazio” all’”amico e rivale Montanelli”. Al quale nel 99 era stato richiesto l’articolo per la morte di Fanfani (“Rieccolo, per l’ultima volta”), ma Biagi “non accettò d’essere escluso”. Carattere “dolce e impossibile”.

Ugo Stille: Sfuggito con la famiglia alle persecuzione antiebraiche in Russia dov’era nato e Lettonia, e poi a quelle in Italia trasferendosi negli USA, dopo lo sbarco in Sicilia nel 43 dell’esercito americano di cui faceva parte e la fine della guerra è divenuto corrispondente del “Corriere” a New York. L’America era divenuta “la sua nuova Patria … togliendogli la paura che l’identità non fosse mai certa”. “Gli avvenimento passavano tutti dalla sua stanza”. A New York “non c’era un protagonista della politica italiana che non lo volesse vedere”. Dall’87 al 92, Direttore del “Corriere”, “in uno dei periodi più difficili del giornale”, fu un “timoniere sicuro”, restituì l’orgoglio della professione. Orgoglio pari alla gioia da lui avuta quando, nominato Direttore, gli avevano portato il passaporto italiano!

Oriana Fallaci: Il 12 settembre 2001 De Bortoli, come tutti, si ritrova in un momento di vuoto dopo che nel giorno precedente l’attacco alle torri di New York ha sconvolto il mondo. Telefona allora a Oriana Fallaci, che vive lì da poco più di 10 anni, la cui passione non si spegne con la malattia che sa di avere e con la quale vivrà per altri 5 anni, che gli dice: “vieni, quando puoi al più presto”. Il 29 settembre è quindi pubblicata sul “Corriere” con il titolo “La rabbia e l’orgoglio” l’intervista che in seguito diverrà un libro di risonanza mondiale. Arrivato da lei, De Bortoli trova questa già scritta e dopo una sua rielaborazione ne concordano anche il titolo. Così De Bortoli riesce non solo a fare uscire le verità definitive dal primo esempio di coraggio femminile nel giornalismo italiano, ma anche a far prevalere in lei tutta la forza d’animo della vita e della carriera sull’isolazionismo al quale tende a portare quella malattia.
Ecco dunque così un ulteriore esempio del giornalismo solido da integrare alle nuove tecnologie di notizie “flash”.

Ferruccio De Bortoli

Con l’eccezione di Spadolini per il suo senso della Storia, De Bortoli non si dimostra favorevole al passaggio dei giornalisti in politica: sia per quanto riguarda sé stesso nonostante le offerte avute da tutte le parti, sia per quanto riguarda coloro che l’hanno fatto. La libertà d’espressione esercitata con la penna viene così inevitabilmente condizionata dai giochi di potere. Montanelli aveva rifiutato anche la carica di Senatore a vita e Claudio Magris, eletto nel 94 in una lista civica, soffriva così d’un senso di solitudine. Quanto ai magistrati (Di Pietro, De Magistris, Emiliano, Ingroia), il passaggio è “nei loro diritti costituzionali ma “non raramente” è “un esempio di commistione dei ruoli. De Magistris s’è dimesso dalla magistratura, Emiliano no”. Rimangono così delle perplessità sull’imparzialità.

Dunque, se De Bortoli non ha la rabbia di non aver accettato cariche politiche o la Presidenza della RAI, può ben meritare l’orgoglio d’aver scritto queste testimonianze di più di 40 anni.

Lodovico Luciolli

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Lodovico Luciolli
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