Il concetto di eguaglianza: la fallacia dei luoghi comuni.

Diciamoci la verità, la grande ambizione della democrazia moderna è stata sempre l’eguaglianza. La realtà dimostra quanto questa aspirazione sia complessa e difficile, partendo da un dato: noi non siamo tutti uguali, non lo siamo per cultura, per attitudini, per modi di essere e di vivere. L’eguaglianza diventa cosi un minimo comune denominatore della società. Ecco alcuni esempi del giurista Bruno Troisi. Ben consci che se tutti siamo uguali, qualcuno è più uguale degli altri.

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«Tutti sono uguali davanti alla legge, ma alcuni sono più uguali di altri»

Il termine luogo comune indica un punto di vista generalmente accettato – per conformismo, pigrizia mentale, ignoranza o povertà di linguaggio – in cui confluiscono pregiudizi, superstizioni, generalizzazioni, banalità: insomma, è uno strumento concettuale per rappresentare il reale, privo di qualunque rigore scientifico. Si tratta di uno strumento insidioso con funzione persuasiva: ripetendo certi concetti, certe opinioni, i luoghi comuni del pensiero contribuiscono a imprimere nella mente del pubblico idee, valori che finiscono col diventare indiscutibili “verità”.

Per cominciare, ci occuperemo di un luogo comune particolarmente diffuso, riguardante il tema dell’eguaglianza davanti alla legge.

Nel 1945, George Orwell, in un passo del suo celebre romanzo, La Fattoria degli animali, scriveva: “Gli animali sono tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”. L’icastica espressione ha avuto grande fortuna ed è entrata a far parte, con gli opportuni adattamenti, del lessico socio-politico contemporaneo, fino a diventare un vero e proprio luogo comune. Essa suona così: “Tutti sono uguali davanti alla legge, ma alcuni sono più uguali di altri”, nel senso che la legge non sempre è uguale per tutti.

Com’è facile comprendere, questo luogo comune intenderebbe denunciare le disparità di trattamento di alcuni soggetti (o categorie di soggetti) rispetto ad altri (o ad altre), in violazione del principio di eguaglianza davanti alla legge (c.d. eguaglianza formale).

Tale principio – affermatosi all’indomani della rivoluzione francese, prima, e delle rivoluzioni borghesi dell’’800, poi – quando fu introdotto, aveva una portata autenticamente rivoluzionaria.

Per comprendere il senso e il valore attuali del concetto di eguaglianza, è necessario storicizzare il discorso, e reintrodurre il concetto di eguaglianza nell’ambito del processo storico che lo ha generato.

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Nel secolo XIX, la borghesia, uscita vittoriosa dalla grande rivoluzione, è la nuova classe dirigente, portatrice di una tavola di valori in cui tutta la società è chiamata a riconoscersi. Il valore fondamentale – e, per cosí dire, originario – è rappresentato dall’individuo, concepito come persona libera, cioè, personalmente autonoma e indipendente, in quanto non piú soggetta a vincoli di personale asservimento, e formalmente uguale, cioè, parificata giuridicamente in forza del principio secondo cui «la legge è uguale per tutti» e «tutti sono uguali davanti alla legge». La parificazione di tutti gli uomini, peraltro, si realizza soltanto sul piano giuridico-formale (perciò, si parla di uguaglianza formale, cioè di uguaglianza davanti alla legge); sul piano materiale – sul piano, cioè, delle connotazioni storico-reali – sussiste, invece, una situazione di disuguaglianza sostanziale, nel senso che i membri della «società civile» sono profondamente disuguali quanto a condizioni economiche, sociali, culturali, ecc.

A ben vedere, la parificazione giuridica di tutti gli uomini era funzionale alle esigenze di conquista e di consolidamento del potere da parte della borghesia: i privilegi che essa combatte sono i privilegi della nobiltà, i privilegi cioè della classe allora al potere; l’uguaglianza che essa predica è solo formalmente tale: è una uguaglianza che, di fatto, colloca in posizione dominante la borghesia, permettendole di esercitare, grazie all’uguaglianza formale, il peso determinante della sua maggiore ricchezza. Invero, l’astratta libertà individuale, se per chi dispone di beni in proprietà ha un significato concreto, per gli altri (che sono la stragrande maggioranza) non significa altro se non possibilità di scegliere tra la fame e un salario appena sufficiente a soddisfare i bisogni elementari.

Cosí, ad esempio, il proprietario terriero ed il bracciante agricolo sono «uguali davanti alla legge», hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri (e questa, indubbiamente, è una grande conquista del mondo moderno), entrambi sono liberi, ad esempio, di stipulare, su di un piano di perfetta parità giuridica, il contratto di lavoro che li vincola reciprocamente: solo che il bracciante ha, in fatto (cioè, sul piano sostanziale), la «libertà» di scegliere tra un contratto vessatorio (si pensi che l’orario di lavoro normale superava le 12 ore giornaliere, e che l’attività lavorativa si svolgeva in condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza estremamente precarie) e la fame o l’emigrazione, tra l’assoluta miseria e un salario che bastava a stento a sopravvivere.

Per comprendere i limiti del principio di eguaglianza formale e per superarne le implicazioni, occorre attendere – in Italia, come in gran parte d’Europa – circa un secolo, e precisamente – per quanto ci riguarda – il 1948, anno in cui entrò in vigore la nostra Costituzione. La Carta Costituzionale, infatti, se da un lato conserva il patrimonio ottocentesco dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 e 3, primo comma), si avvale dall’altro dell’influenza di ideologie, la cattolica e la socialista, che, assenti nel processo storico del risorgimento, avevano svolto, nel corso della resistenza antifascista, un ruolo di primissimo piano: cosí, accanto ai tradizionali diritti di libertà (di pensiero, di religione, di associazione, ecc.), introduce il riconoscimento dei «diritti di solidarietà sociale», legati a una diversa valutazione dell’uomo e dei rapporti economico-sociali.

L’art. 2 Cost., dopo aver dato generale riconoscimento ai diritti che tutelano gli interessi fondamentali della persona (diritti della personalità), sancisce, con un’ampia formula, il principio di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Un tipico esempio di «diritto sociale» è il diritto a una retribuzione «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», previsto nell’art. 36 Cost.: la «socialità» di tale diritto sta nel fatto che esso non è attribuito genericamente a qualsiasi cittadino, non ha come punto di riferimento l’astratta qualità di soggetto giuridico, ma presuppone la specifica qualifica «sociale» che un determinato soggetto riveste nell’àmbito dei rapporti economico-sociali, e precisamente la qualifica, di lavoratore.

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All’astrazione generalizzante – che caratterizzava la formulazione degli enunciati normativi del diritto moderno ottocentesco, che dovevano rivolgersi, indifferentemente, a tutti i cittadini – la Costituzione tende a sostituire il criterio di effettività – ispirato al principio di eguaglianza sostanziale, espressione dell’esigenza di giustizia sociale – che implica una normazione sempre piú specifica e concreta a tutela di interessi particolari, a tutela cioè di soggetti o di «gruppi» socialmente determinati: ad esempio, lavoratori (artt. 3, 35 ss., 43), lavoratrici madri, utenti di beni o di servizi (art. 43), coltivatori diretti (art. 47), piccoli risparmiatori (art. 47), piccoli proprietari (artt. 44, 47), artigiani (art. 45), società cooperative (art. 45), sindacati (art. 39), soggetti disabili (art. 38), donne, minori, ecc.

Fondamentale, al riguardo, è la norma contenuta nell’art. 3 Cost.: tale articolo se da un lato ribadisce al primo comma il principio di eguaglianza formale, ereditato dalla rivoluzione francese, secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; dall’altro sancisce, al secondo comma, il principio di eguaglianza sostanziale, in forza del quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ciò significa che l’eguaglianza davanti alla legge dev’essere considerata un punto di partenza e non già un approdo definitivo che impedisca di guardare alle reali diseguaglianze nelle quali trovano le loro radici le disparità sociali ed economiche: queste non sono, come per il passato, giuridicamente irrilevanti, ma sono prese in considerazione dal diritto, il quale esprime nei loro confronti un giudizio negativo, in termini di “rimozione”, in quanto le considera veri e propri “ostacoli” alla formazione e allo sviluppo della personalità umana, all’effettiva libertà ed eguaglianza dei cittadini, e dunque alla dignità della persona.

L’art. 3, comma 2, Cost. travolge la concezione formalistica del soggetto quale astratto centro d’imputazione di diritti e di doveri senza riguardo al modo in cui tali situazioni si concretizzano nella realtà storica. Più in generale, affermando la necessità di confrontare le posizioni giuridico-formali con le connotazioni storico-reali, la norma in questione abbatte uno dei capisaldi della concezione formalistica del diritto, basata sull’indifferenza per i contenuti materiali di ciascuna posizione; concezione che aveva consentito di guardare al soggetto facendo astrazione dal contesto sociale del suo agire (il soggetto “astratto” e “formalmente uguale” ovvero astorico o indifferenziato), legittimando tra l’altro l’assenza di ogni controllo sulle modalità di esercizio dei poteri formalmente attribuitigli.

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Il legislatore, da parte sua, interviene dapprima (negli anni ’60) sporadicamente, poi (negli anni ’70), sotto la spinta delle pressanti sollecitazioni della società, in maniera sempre più frequente e incisiva, fino a innovare anche i settori più gelosamente custoditi dell’ordinamento giuridico: dal diritto penale – sostanziale e processuale – al diritto civile (si pensi, ad esempio, alle grandi riforme dal diritto di famiglia al diritto del lavoro e così via).

La legislazione speciale, che rappresenta lo strumento attraverso il quale si dà attuazione di valori costituzionali, assume ormai vaste proporzioni: essa si articola in complessi normativi che regolano compiutamente interi settori dell’attività privata (c.d. leggi di settore), e che innovano profondamente la disciplina codicistica, al punto da affiancarsi ad essa, facendo tendenzialmente venir meno quel ruolo di assoluta centralità che il codice civile aveva fino a qualche decennio fa.

La legislazione speciale si caratterizza per l’individualità e la concretezza del suo intervento nel tessuto sociale: il legislatore non detta piú soltanto regole di azione generali e astratte, ma, in attuazione del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.), detta anche regole per determinate attività e per determinate categorie sociali (es., a favore dei lavoratori (l. 300/1970) o, ancóra più specificamente, a favore delle lavoratrici madri (l. 1204/1971); per non parlare, poi, delle c.d. leggi “di genere” (le “quote rosa”, il femminicidio, ecc.) e delle c.d. leggine, cioè di quelle leggi “singolari” che regolano interessi di categoria, e fornisce una risposta immediata a problemi concreti, indicando altresí gli scopi pratici che s’intendono perseguire (si pensi alle misure a favore degli studenti bisognosi e meritevoli o alla citata legge sull’equo canone; si pensi, ancora, alle innumerevoli “leggi incentivo”: es., i mutui di scopo, cioè i finanziamenti concessi a condizioni vantaggiose in vista del compimento di un’opera – es. costruzione della prima casa – o dell’esercizio di una particolare attività economica; il mutuatario in tanto fruisce delle agevolazioni in quanto destini la somma di danaro allo scopo stabilito dalla legge. Le leggi-incentivo, dunque, sollecitando i privati al compimento di attività considerate socialmente utili, svolgono un’importante funzione promozionale). Per non dire, infine, delle tante esenzioni dal diritto comune: dal trattamento differenziato, in riferimento al fenomeno delle discriminazioni, a favore delle c.d. organizzazioni di tendenza, alle esenzioni fiscali e a quelle riguardanti le spese sanitarie; dalle immunità da ogni responsabilità civile e penale dei difensori e dei giudici per le offese nel corso della causa (quando concernano l’oggetto della causa: art. 598 c.p.), alla stessa – tanto discussa – immunità parlamentare (art. 68 Cost.), e via enumerando.
Insomma, si assiste all’affermazione di una nuova logica del soggetto: non più il cittadino neutro e indifferenziato, l’individuo astratto, ma il soggetto concreto, con tutte le sue connotazioni storico-reali. Ciò ha comportato la necessaria affermazione di un nuovo particolarismo giuridico, governato dal criterio di ragionevolezza, secondo cui è contrario al principio di eguaglianza sostanziale – e, dunque, irragionevole – trattare in maniera uguale situazioni diseguali e, viceversa, trattare in maniera diseguale situazioni uguali.

Paradigmatica, ad esempio, è la disciplina del “codice del consumo”, in cui si discorre non più astrattamente – come nel codice civile – di “compratore “ e di “venditore”, posti su di un piano di parità, ma di “consumatore” e di “professionista”, dove il consumatore (categoria, questa, di origine sociologica), in considerazione della sua qualità di contraente “debole” (si discorre, in proposito, di “asimmetria contrattuale”), riceve una tutela particolarmente “forte” nei confronti del professionista (dal diritto di recesso alla difesa dalle clausole vessatorie fino alla tutela in caso di prodotti difettosi, in relazione ai quali la disciplina si specifica ulteriormente ed è ancora più severa riguardo ai prodotti destinati ai bambini).

Ma, come si è detto, le disposizioni “singolari”, formalmente diseguali, in una società sempre più attenta alle connotazioni storico-reali e alle specificità di una società pluralista e multietnica, rappresentano ormai la regola.

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A ulteriore conferma della necessità di disposizioni “singolari”, si pensi al fenomeno delle discriminazioni indirette: ben può aversi, infatti, una discriminazione indiretta allorché una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente “neutri”, perché generali e astratti, possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. La causalità indiretta si riferisce, essenzialmente, alle ipotesi in cui il comportamento che determina la discriminazione consista nell’applicazione indifferenziata dello stesso criterio selettivo all’accesso all’utilità da lui offerta, criterio che di fatto precluda l’accesso a quella utilità a un certo gruppo a rischio di discriminazione, rispetto al resto della collettività.

Nelle ipotesi di discriminazione indiretta, dunque, il preventivo accertamento del fatto discriminatorio implica un giudizio in termini di ragionevolezza sul trattamento uguale. Da ciò, emerge l’idoneità del concetto di discriminazione indiretta, quale trattamento indifferenziato che non abbia tenuto conto di specifiche istanze culturali, religiose, ecc., a garantire il rispetto delle “diversità”, fondamento del diritto all’identità e alla differenza, in una società nella quale sempre più s’intrecciano etnie, culture, religioni, valori che chiedono di essere riconosciuti e rispettati nella loro specificità.

Di qui, in conclusione, la necessità di evitare il luogo comune riguardante le pretese violazioni del principio di eguaglianza ogni qual volta si assista a una disparità di trattamento, giacché quel principio – si ripete – va considerato alla stregua del criterio di ragionevolezza; criterio, quest’ultimo, che ha la funzione di attuare il necessario bilanciamento di principi e interessi in gioco in modo coerente con il sistema vigente e con tutti i suoi valori, e che vieta di trattare in maniera uguale situazioni diseguali.

Bruno Troisi

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Bruno Troisi
L’avvocato Bruno Troisi già Professore Ordinario di Diritto civile presso la Facolta di Giurisprudenza di Cagliari è stato tra l’altro Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche della stessa Università. E’ autore di numerose pubblicazioni anche monografiche e ha contribuito per alcune voci enciclopediche. Oggi è componente scientifico della Rassegna di Diritto Civile diretta a Pietro Perlingieri.

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