Il 17 giugno scorso, il partito conservatore Nuova democrazia ha vinto le elezioni parlamentari in Grecia. Ciò che lo distingueva dalle altre formazioni politiche è che aveva ampiamente sottoscritto i termini dell’accordo di salvataggio della Grecia. Alleandosi con il partito socialista Pasok – anch’esso favorevole al salvataggio – ha ottenuto una maggioranza minima, ma sufficiente per governare la Grecia.
La vittoria è stata accolta con favore dai mercati in Asia ed Europa, nonostante le perplessità sulla stabilità della futura coalizione. Il voto greco è stato recepito con fiducia poiché interpretato come un referendum a favore dell’euro e contro il ritorno alla moneta nazionale.
Non soltanto gli operatori si attendevano un nuovo governo, quale interlocutore credibile ai tavoli europei, ma anche l’inizio di un nuovo corso che legittimasse il salvataggio della Grecia.
Nonostante i predibili e tempestosi sviluppi dei giorni successivi, la situazione politica della Grecia è stata derubricata o tolta dai riflettori. Tuttavia la situazione del paese resta molto difficile. Da un rapporto pubblicato nell’aprile scorso dall’Unicef è emerso che sono 439.000 i bambini che vivono al di sotto della soglia di povertà. Malnutriti, debilitati e in condizioni malsane, capita che svengano a scuola o che i genitori, disperati, li mandino a lavorare.
Il problema appare espandersi come un cratere in attività eruttiva: degli 11,2 milioni di greci, due milioni e 800 mila non hanno abbastanza per vivere.
Il voto greco è stato il primo caso di pronunciamento popolare sul futuro dell’euro. Appare innegabile che le forze più radicali, favorevoli a una scossa politica per cambiare il corso degli eventi, non abbiano prevalso. Dalle urne è emersa la linea della stabilità politica e si è tornati a parlare di misure economiche e di prestiti aggiuntivi. Il fatto che Atene abbia rinunciato alla protesta, alla voice, non significa però che sia scongiurata l’uscita del paese dell’euro. Questo esito, questo exit, potrebbe trovare dimora nella vita di ogni giorno, nella mancanza di un sincero o spontaneo europeismo. L’amore per l’Europa non mi pare alberghi più ad Atene.
In Italia il clima è altrettanto plumbeo e pesante? Sì. Non è un caso che Berlusconi sia recentemente intervenuto con i suoi soliti ballon d’essai, paventando l’uscita dell’Italia dall’euro per capire dove va il vento. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha raggiunto il 36,2% (ovviamente calcolato senza tener conto di chi studia e non cerca lavoro). Il dato è un indicatore inesorabile dell’aria che tira. Non tutti ne hanno contezza. Prevale, per ora, la convinzione che prima o poi la crisi passerà, come passa una brutta stagione di piogge.
Tuttavia occorre vedere chi trarrà vantaggio politico da questo procrastinarsi della crisi e, soprattutto, quali segni lascerà sul tessuto sociale italiano e sul proverbiale europeismo degli italiani.
Anche di questi temi, credo, parlerà il prof. Romano Prodi a Perugia il prossimo 9 luglio.**
Protagonista con Berlusconi della stagione nota come “Seconda Repubblica”, Prodi è stato uno degli artefici dell’ingresso dell’Italia nell’euro e dell’allargamento dell’Unione europea prima dell’attuale fase di stallo o fatica (enlargement fatigue). Ma presso l’Università per Stranieri Prodi interverrà come economista, come un professore che ha avuto il privilegio di mettere in pratica le sue idee. Qual è stato il contributo italiano all’Europa? E soprattutto, quale contributo possiamo immaginare per un’Europa diversa da quella attuale?
Emidio Diodato
Professore associato di Scienza politica
Università per Stranieri di Perugia