La lingua giovanile.

Con la docente Luisa Tramontana dell’Università per Stranieri di Perugia, esperta in linguaggi giovanili, mettiamo un nuovo prezioso tassello al nostro dibattito sulla lingua italiana. L’approfondita analisi del brano di Benni che inizia l’articolo aiuta a capire come oggi la lingua in Italia sia una delle poche cose svecchiate. Una lingua, non da ghetto giovanile, ma che conquista tutti, grandi e piccoli.

I nostri vicini

Da Margherita Dolcevita di Stefano Benni, Feltrinelli, 2005.

Ogni mattina che mi alzo presto per andare a scuola penso: Qualcuno pagherà per tutto questo
Ero stanca, faceva ancora buio. Oltretutto l’acqua calda non arrivava, usciva solo un filo gelido e dispettoso, una bava di strega. Poi avevo un orecchio chiuso. Poi le scarpe non si allacciavano. Poi lo zainetto pesava. Poi con un po’ di biscotti e latte e una fetta di pane e marmellata e un po’ di quei cereali croccanti e guarda un po’ un ovetto, la giornata si è avviata.
Lo scuolabus mi ha caricato, insieme a tre scolari medi tristi come deportati. Il sole era color uovo sodo vecchio.

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Stamattina in classe il tempo non passava mai. Mi è sembrato di fare delle lezioni di una settimana ognuna. Cesare moriva alla moviola, Dante aveva scritto tremila cantiche della Divina Commedia, i fiumi della Romania erano tutti più lunghi del Mississippi.

L’ultima ora ci è toccata la prof. di matematica, detta Manson, che spiegava il teorema di Pitagora e io mi stavo addormentando appoggiata all’ipotenusa.

…[Allora per stare sveglia sono andata in banco con la Baccarini, detta Baciolini. E’ una fanciulla rossa tutta pepe, bassina ma con due tette da cassiera da bar. Ha un diario pieno di cuoricini, boccucce e pensieri dolci e tiene appeso allo zainetto un grappolo di pupazzi e micioli, ma è perfida come una iena. Forse nella nostra classe solo Gasparrone, quello che sigilla le lumache col Vinavil, è più malvagio di lei. Inoltre la Baccarini ha una vita erotica intensissima che le invidio molto. Bacia tutti e poi li butta via, come la carta dei cioccolatini. Il povero Zagara, il giandone della classe, quando lei lo ha mollato ha tentato il suicidio per overdose di meringhe.

Per non annoiarci ci siamo messe a dare i voti alla bellezza dei nostri compagni, e vi assicuro che stavamo larghe, ma la media era cinque e mezzo. Nel far ciò ci scappavano dei risolini complici e ci davamo di gomito.

Allora la Manson, con la faccia stizzita, ci ha puntato contro il dito e ha detto:
– Cosa si fa laggiù all’ultimo banco, si ride?
Ha pronunciato “si ride” con un tono come se dicesse “si spaccia droga”, “si fabbricano bombe”.

Allora mi sono alzata e ho detto:
– Effettivamente, signora professoressa, stavamo ridendo in quanto ritenevamo buffo ciò di cui parlavamo, ma non c’era niente di oggettivamente malsano o criminoso nel nostro atteggiamento, io capisco bene che se ridessimo ininterrottamente per tutto l’orario scolastico ciò farebbe sospettare una nostra disattenzione, o spregio, o beata cretinaggine, ma ritengo che un po’ di umorismo anche in questa austera sede faccia bene allo spirito e, di riflesso, alla gioia dell’apprendimento. In quanto al rapporto fra riso e matematica….

Non mi ha fatto finire. Ha ringhiato: ”smetti-o-ti-do-due”, e per fortuna è suonata la campanella.

Ma insomma, ho pensato, quasi tutti i film e la tivù e i giochi per ragazzi ci invitano a ridere e stare allegri, così poi vediamo le puntate successive e compriamo i gadget. Però a scuola non possiamo ridere un minuto.
La morale è: non dobbiamo ridere quando siamo contenti noi, ma quando sono contenti loro]…

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Questo brano di Benni mi sembra il testo ideale per fare delle considerazioni sul linguaggio giovanile.

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Linguaggio giovanile non è solo il linguaggio parlato dai giovani, ma anche quello che altri, che giovani non sono più, usano per parlare dei giovani. Benni entra nel mondo di una adolescente e si immedesima in lei, quasi memore delle sue lunghe mattinate scolastiche. Si immerge nei preparativi (… faceva buio,… le scarpe non si allacciavano,… lo zainetto pesava…), ha davanti agli occhi ancora le professoresse di italiano, storia, geografia e soprattutto di matematica, l’indimenticabile professoressa che mai nessuno nella vita dimenticherà (…spiegava il teorema di Pitagora e io mi stavo addormentando appoggiata all’ipotenusa… ).

Vorrei fermarmi ad analizzare quegli imperfetti che Benni usa, che ho riportato nelle parentesi. Prima di tutto, come si sa, l’uso dell’ imperfetto è dominante nella descrizione di una scena, dei personaggi, delle situazioni di un tempo passato; non si vuole sottolineare l’azione, gli eventi, ma soltanto mettere davanti agli occhi del lettore una certa realtà “statica”. Ma la funzione dell’imperfetto va oltre, molto oltre.

In genere ci si lamenta della “ignoranza” degli italiani, soprattutto quando parlano in situazioni familiari, informali, a volte anche formali. Si dice che non usino bene il congiuntivo, che sbaglino preposizioni ( più che sbagliare forse si dovrebbe parlare di usi diversi delle preposizioni, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontani).

Se ci si pensa, invece, quando gli italiani usano l’imperfetto, lo usano sempre nel modo giusto. Innanzitutto, fin da bambini viene usato nella sua funzione di imperfetto ludico, quando cioè i bambini organizzano il gioco e si dividono le parti ( facciamo che io ero il ladro e tu eri il poliziotto?). Come forma verbale è tra le più regolari di tutte e proprio per questo motivo è facile ricordarlo. Quindi non solo i bambini lo usano in modo regolare, ma anche i grandi quando per esempio raccontano i loro sogni ( stanotte ho sognato che ero su un’isola deserta), e questo è l’imperfetto onirico.

Entrando ancora di più tra le pieghe della lingua, possiamo dire che anche quando parliamo di un evento passato ma non ne vogliamo determinare i confini temporali, usiamo l’ imperfetto con il suo valore di indeterminatezza appunto, che lascia la frase così, come sospesa, senza legami concreti con altri eventi, come una pennellata che dà più colore e corpo al quadro (Il figlio del farmacista studiava all’estero, Celati).

Con le stesse caratteristiche, ma con qualcosa in più che rende l’evento eroico, si può usare l’imperfetto eroico o narrativo o storico, parlando di Dante ad esempio (Dante nasceva nel 1265) o comunque di personaggi importanti . Quando vogliamo intervenire con modestia, senza voler essere invadenti, usiamo l’imperfetto di modestia ( Io qualcosina in testa ce l’avevo pure). Quando invece vogliamo esprimere l’ idea di qualcosa che stava per accadere ma alla fine non è successo niente, usiamo l’imperfetto conativo ( Per poco non andavamo a sbattere su un albero). Infine, quando vogliamo esprimere la potenzialità dell’azione, quella che avrebbe dovuto realizzarsi o compiersi ma così non è stato, per lo meno ancora nel momento in cui si parla, ci serviamo dell’imperfetto potenziale ( Mario doveva essere qui da un’ora).

groupe_de_jeunes.jpgAttenzione, non si pensi che tutti questi usi siano soltanto letterari, al contrario sono letterari e allo stesso tempo di uso quotidiano, per i motivi che ho spiegato precedentemente.

Nella vita quotidiana, con un orecchio sempre rivolto ai giovani, possiamo ascoltare ogni giorno la forma dell’imperfetto, in varie situazioni. E’ interessante notare che l’imperfetto ha una natura così malleabile che si può usare per parlare del passato, come abbiamo già visto, del futuro, come negli ultimi esempi, ma anche del presente.

Nell’entrare in un negozio, infatti, si dovrebbe usare il condizionale per chiedere gentilmente di essere serviti. Oggi più che mai si usa l’imperfetto:” Volevo vedere un vestito per me”, “Volevo un caffè”. Ma lo volevo prima di entrare o adesso che sono entrato? La risposta è ovvia, adesso e nell’immediato futuro. Ancora:” Se sapevo che tornavi prima ti preparavo qualcosa da mangiare”, direbbe una giovane mogliettina al rientro anticipato del marito.

Certo, i nostri genitori o i nostri nonni non avrebbero mai parlato in questo modo, avrebbero fatto trovare pronto qualcosa comunque! Erano altri tempi, si sa, e le mogli aspettavano obbedientemente a casa il ritorno del guerriero. Non c’erano ipotesi, c’erano solo certezze nella loro vita!

Ancora oggi le parole della canzone di A. Celentano, Il ragazzo della via Gluck, suonano attuali: “Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck, in una casa fuori città, gente tranquilla, che lavorava. Là dove c’era l’erba ora c’è una città; e quella casa in mezzo al verde ormai, dove sarà?” Prima c’era l’erba, ora non c’è più; la gente lavorava tranquilla, ora non ha più lavoro; dove sarà quella casa? Dove sarà?

Luisa Tramontana

Università per Stranieri di Perugia

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