Quell’estate del millenovecentottantadue

Non viviamo, io e te, nello stesso tempo. In quel meraviglioso libro che è “Danubio”, Claudio Magris parla della parola Ungleichzeitigkeit: non contemporaneità. Per me (nato a metà degli anni Sessanta) ci sono cose del passato che appartengono al presente. La morte di Pasolini, la cosiddetta prima Repubblica, il terrorismo, Novantesimo Minuto, le braccia alzate di Gloria Guida, il crollo del muro di Berlino, Mani Pulite. Il periodo tra la prima parte degli anni Settanta (tempo dei miei primi ricordi) e la fine del Novecento è per me costituito da fasi precise e diversissime tra loro. Uno spazio vasto, ma che a me sembra di conoscere, o quantomeno intuire, in ogni dettaglio.  Per le mie figlie, nate negli anni Duemila, è invece un passato indistinto. Al contrario, per me il primo ventennio del terzo millennio (per le mie figlie, quello sì, universo di spaventosa complessità) è un unicum. Una sequenza di giorni di cui distinguo poco, se non il ticchettio di una vita che scorre. Per questo (dice Magris), non viviamo, io e te, nello stesso tempo.

C’è qualcosa che (per chi vive nel mio stesso tempo) abita da 40 anni il nostro presente. Il mondiale di calcio 1982, in Spagna. Quel tempo ha un desiderio di assoluto, e crede di trovarlo in una squadra di calcio: il Brasile. Schiera grandi campioni (Falcao, Socrates, Zico) e gioca con strafottenza. Ha vinto tutte le partite con largo punteggio, segnando reti memorabili e mostrando una larga superiorità. Già si discute se sia la squadra più forte di ogni tempo. L’Italia è invece criticata con violenza. Il giocatore rivelazione dei mondiali precedenti, Paolo Rossi, è in condizioni precarie dopo due anni di squalifica per una (dubbia) storia di scommesse. Magro, pallido, privo di forze. Ma l’allenatore Enzo Bearzot, soprannominato da Arpino “il Vecio” (era vecchio anche da giovane), appassionato lettore di classici, punta su di lui contro ogni evidenza. Attirandosi le ire funeste della stampa. L’Italia ha giocato tre partite mediocri, superando a stento il girone di qualificazione. Universalmente criticata per il gioco rinunciatario e i giocatori spompati, ora è finita in bocca al lupo. In un gironcino a tre squadre con gli avversari più forti.

L’Argentina campione del mondo, che schiera un giovane fenomeno: Maradona. E appunto il Brasile. A sorpresa con gli argentini (l’avversario più difficile, dirà poi Zoff: bravi e soprattutto molto cattivi in campo) l’Italia risorge e riesce a vincere. E il 5 luglio 1982 gioca la partita decisiva. La situazione obbliga gli italiani a battere il Brasile per continuare il torneo. Impresa apparentemente impossibile. Si gioca in uno stadio di Barcellona, il Sarrià, che non esiste più (al suo posto c’è un supermercato). Nel pomeriggio, sotto il sole giaguaro di Italo Calvino. In una luce che trema di calore, quella partita non è una partita; è un mondo. La squadra celebrata come forse la più forte di ogni tempo sarà presa dalla paura della propria fine. Impiccata al suo fantasma. Paolo Rossi onora il misterioso patto segreto con il suo maestro Bearzot, e segna tre reti. I brasiliani riusciranno a rimontarne due, come risalendo da un abisso; non la terza. All’ultimo secondo, su colpo di testa da pochi passi, il portiere Dino Zoff (che in quel momento ha 40 anni) salva la vittoria con un intervento prodigioso: para e, in mezzo alla bolgia, blocca il pallone proprio sulla linea di porta. Qualche anno prima, dopo un identico intervento in Jugoslavia, si era alzato con la palla in mano. L’arbitro aveva creduto ai gesti di esultanza degli attaccanti e convalidato una rete inesistente. Ora Zoff non commette più lo stesso errore. Resta immobile per alcuni secondi con le mani sulla linea. Un centimetro più in là, e ora probabilmente si celebrerebbe quel Brasile come la più grande squadra di sempre: tra inferno e cielo la distanza è un centimetro. Italia-Brasile del 5 luglio 1982 (raccontata in uno splendido libro di Piero Trellini, “la partita”) è finita così.

La nazionale italiana ha poi vinto i mondiali spagnoli, superando senza difficoltà (penso che un sogno così non ritorni mai più) Polonia e Germania (allora, Ovest). L’Italia, come scrisse Oreste del Buono, ha improvvisamente vissuto un’inaspettata festa nazionale senza limiti, che riassumeva e superava tutte le altre. Una belle époque inattesa. Una felicità infinita. Il Brasile “più forte di sempre” è scomparso quel pomeriggio nei gorghi del nulla, ed è vero che nell’esultanza c’era un piccolo dolore: anche a noi piaceva quella squadra meravigliosa. Presuntuosa e vana. Destinata a restare nella storia, sì, ma solo come incompiuta. Anche per quella Italia (quella di Bearzot, Paolo Rossi, Antognoni, Cabrini, Scirea, Tardelli, Bruno Conti), quel mondiale è stato (seppur sublime) il canto del cigno. Negli anni successivi, sarebbero arrivate delusioni e, progressivamente, l’inevitabile ricambio generazionale.  Quel giorno a Barcellona il vincitore e il vinto avevano giocato, entrambi, la loro ultima carta. Si erano giocati il cielo a dadi.

Gli anni Settanta (con due anni di ritardo rispetto al calendario) sono finiti, per me, forse per tutti, in quel momento. Nulla sarebbe stato più uguale a prima. Nel pomeriggio estivo, nel sole implacabile dell’estate italiana, era successo qualcosa che avrebbe abitato per sempre le nostre vite. In tribuna stampa, in quello stadio che non esiste più, e che invano cercherete a Barcellona, c’erano Mario Soldati, Gianni Brera, Giovanni Arpino, Beppe Viola. Fantasmi di un tempo che non tornerà. Non viviamo, io e te, nello stesso tempo. E non si sa mai cosa può riservarci il passato, diceva Françoise Sagan.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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