Le vecchie fontane, madri delle città.

La Giornata mondiale dell’Acqua, il giorno del 22 marzo, è dedicata al bene più prezioso dell’intera umanità.

Senza l’esistenza dell’acqua la storia dell’uomo e degli esseri viventi non sarebbe neppure nata. Non sarebbero sorte le città, non sarebbero nate le strade, né avrebbero preso vita i campi arati, né sboccerebbero i fiori. Senza l’acqua non esisterebbe nulla, nemmeno la più semplice forma di vita. Questo racconto di Flavio Brunetti parla della nascita e dello sviluppo di una piccola città dell’Italia Meridionale, Campobasso (Molise), nei pressi di una limpida e abbondante sorgente intorno alla quale fu innalzata, nell’antichità, una grande fontana, chiamata, sin da secoli addietro, così come accadde per altre città italiane, Fontana Vecchia.

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LE VECCHIE FONTANE, MADRI DELLE CITTÀ
di Flavio Brunetti

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
(San Francesco – Cantico delle creature – 1220)

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Ai piedi del monte, dalla cui cima invincibile l’antico castello s’affaccia agli orizzonti lontani, da sempre, canta la dolce canzone dell’acqua una meravigliosa sorgente. Le case fiabesche del borgo antico, addossate le une alle altre, impaurite pecorelle di un gregge infreddolito, leggere e soffici, e le ripide e strette scalinate si abbracciano al monte, perché le protegga e le accolga.

La fonte ebbe vita quando il massiccio di pietra rocciosa emerse dal mare, milioni di anni fa. L’austero macigno e la soave sorgente nacquero insieme. La bianchissima roccia si innalzò a sfidare l’infinito scrollandosi tutta l’argilla di dosso. Poi, come un’immensa spugna assetata, cominciò a raccogliere l’acqua del cielo.

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La nascose, la protesse tra le sue gole, nelle sue grotte, nei suoi duri, bui, meandri e l’acqua correva felice, lungo le vie che essa stessa scopriva in quegli orridi anfratti. Ma la roccia, in fondo ai suoi piedi, incontrò la terra d’argilla. Essa, invidiosa e gelosa, la baciò con le labbra serrate e sbarrò il gioioso e amoroso cammino a quell’acqua e l’acqua dovette fermarsi senza più accarezzare, scorrendo, la pelle dei labirinti di pietra. Allora il monte, che non sapeva più vivere senza le sue carezze e i fremiti dolci, affinché ancora scorresse nelle sue vene, ridonò alla luce, limpida e pura, la linfa preziosa che aveva rubato alle nuvole e il sole adornò i rivoli argentei di gemme e di fiori.

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Passavano milioni di anni e la roccia e la fonte si amavano. Poi un giorno giunsero gli uomini antichi a dissetare la loro carne. Passata la sete e alzato lo sguardo al macigno, quegli esseri capirono allora che il monte, con la sua inespugnabile cima, era luogo di salvezza contro le armi degli altri uomini e che la fonte avrebbe donato ad essi i giorni della loro vita. Fu così che elevarono, più di duemila anni orsono, sulla cima del macigno, la loro fortezza.

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Quel monte, irraggiungibile alle orde nemiche, proteggeva i corpi dai coltelli, dalle spade e dalle lance, e la fonte, la sorgente, donava la vita con l’acqua sgorgante ai suoi piedi.

E accadde in tal modo che il monte fu il padre e la fonte la madre della città. L’uno la difendeva mentre essa cresceva, l’altra la accudiva e la nutriva perché essa crescesse.

Attorno alla sorgente preziosa fu innalzata una reggia in onore dell’Acqua Regina: una grande fontana con muri, pavimenti, scale, arcate, vasche, portici, inginocchiatoi, canali, “struculatori”.

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Centinaia e centinaia di anni fa. Nessuno conosce l’età vera di quelle fontane, antiche come i castelli. Si sa solo che nelle città, già centinaia di anni fa, il loro nome era “Fontana Vecchia”.

Ogni città ha la sua “Fontana Vecchia”.

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I vecchi sono lo scrigno del nostro sapere, sono il tesoro delle nostre certezze. La terra stessa è intrisa delle loro parole e della loro memoria, le conserva anni ed anni e le infonde nelle nostre anime. E, seguendo la saggezza dei vecchi, nella reggia dell’acqua, nel palazzo della madre e Regina, che gli uomini, a lei grati e devoti, avevano costruita, era tutta una vita, un brulicare di sogni, di fatti e di azioni.

Acqua: per bere e per cucinare, da portar sui carri o sulla testa, in perfetto equilibrio verticale, lungo le scale, sin dentro le mura, nella tina di rame dalla sua forma di femmina.

Acqua: da far bere ai cavalli, ai somari, ai buoi, alle pecore, ai cani e agli altri animali amici degli uomini ingrati. Per non farli morire e poter ancora sfruttare la loro forza, la loro carne, la loro fiducia.

Acqua: per lavare, con la liscivia e la cenere, i panni e scacciar via epidemie e malanni.

Foto di Ph. Marchesciano

Acqua: alla fine delle vie, da essa nella reggia percorse, raccolta in grandi piscine di pietra, per irrigare i campi e donare rigoglio agli orti vicini.

Fontana Vecchia si trasfigurò, da semplice fontana, nell’universo della città e divenne il suo quadro allegorico ricolmo di vita; un meraviglioso disegno in cui si inseguivano la ragione, fonte di civiltà, e gli amori. Quella fontana era tutto un brusìo, un avvicendarsi di cose, un ritrovarsi, un raccontarsi, un corteggiarsi, un dissetare la sete e i sogni. Ed essa, come una vecchia madre premurosa ed attenta, dilettosa madre, guardava e lasciava crescere i suoi amati figlioli.

Arrivarono poi, nella città, i tubi: un intreccio infinito di tubi, di manopole, di chiavi, di pompe, di chiusini, di rubinetti, di scarichi, di contatori, di lavandini e di lavatrici, ma la “Fontana vecchia”, con l’acqua, che, imperterrita, da milioni di anni ancora sgorga dalle vene del monte, dalla pancia de “I Monti”, continua a sussurrare la sua dolce canzone e a fare nascere i sogni e l’amore.

Questi gioielli non devono scivolare via dalle mani di un mondo di arrivisti, che li lasci cadere perché non conosce la loro vera storia. Questi gioielli non devono smarrirsi per sempre nelle profondità di un drammatico oblio, perché perdere tali tesori, per le città, sarebbe l’infinito dolore di perdere la loro madre.

E la canzone dell’acqua è una cosa eterna.

È la linfa profonda
che fa maturare i campi.
È sangue di poeti
che lasciarono smarrire
le loro anime nei sentieri
della Natura.

Che armonie spande
sgorgando dalla roccia!
Si abbandona agli uomini
con le sue dolci cadenze.

( da “Mattino” poesia di Federico Garcia Lorca)

Fotografie dell’articolo e del portfolio ©Flavio Brunetti

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Flavio Brunetti
Flavio Brunetti vive a Campobasso nel Molise. Vince, come cantautore, l’edizione del ‘93 del Premio Città Di Recanati con la sua canzone Bambuascé, e incide negli anni successivi gli album TU TU TTÙ TU e FALLO A VAPORE (ediz. BMG – Musicultura – CNI) delle sue canzoni. Scrive, dirige e interpreta numerose opere teatrali e musicali tra le quali Storia del Clandestino, L’angelo mancino, Frusta là, Lullettino e Lull’amore. I suoi reportage fotografici hanno meritato esposizioni in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Ungheria. Ultime sue pubblicazioni editoriali sono: “Non aprire che all’oscuro”, racconto e catalogo dell’omonima mostra. "Il tempo delle tagliole", romanzo che narra della vita in seminario negli anni ’60.

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