L’eterno fascismo italiano

Che in Italia si sia installato un governo con una forte connotazione fascista è stata un’evidenza per diversi democratici, di sinistra e non, sin dalla concezione stessa del patto Lega 5 Stelle; e diventa ogni giorno che passa più concretamente evidente anche per molti altri, che inizialmente si volevano più prudenti. Eppure la vasta nebulosa antifascista dell’Italia, dentro e fuori il paese, quella stessa che negli anni passati aveva sempre espresso pubblicamente, collettivamente, la propria indignazione, la propria protesta, con la penna e con l’azione, per opporsi ai progetti autoritari, antidemocratici, che più o meno realmente insidiavano la società, oggi che il più radicale di quei progetti ha di fatto preso le redini del potere, se ne resta come imbambolata, stordita, sostanzialmente silenziosa, affidando a qualche atto simbolico o semiprivato (su tutti lo sfogo-selfie-autoconfortante in quel gran vomitatoio irreale che è Facebook) la propra opposizione. Intendiamoci: esistono le eccezioni, esistono le manifestazioni, esistono le voci che si levano a denunciare esplicitamente, pubblicamente, la situazione. Ma sono come fra loro slegate, come se il farsi sentire insieme non fosse più una priorità, e sostanzialmente non riescono, a differenza di quanto succedeva nel passato, ad avere impatto sulla coscienza collettiva: galleggiano isolate, e giungono come attutite, pudiche. E afflitte: non esprimono più l’urgenza, una gioiosa, libera idea di società. Dal di fuori, l’Italia altra sembra spaventosamente intronata. Similmente a coloro che scelgono di non nominare apertamente una malattia per timore che ciò la renda più vera, e irreversibile, preferiamo come far finta di niente, sdrammatizzare, cercar di dire che forse non è poi così grave, che il fondo del corpo sociale è sano, si guarirà da soli, etc., magari attivandoci con merito nel nostro mestiere quotidiano, nell’insegnamento, nella scrittura, nella musica – ma se non la nominiamo, e combattiamo per tempo, quella malattia finirà con l’ucciderci. È per capire da dove nasce questa paralisi, quest’incantamento – che mi riguarda in prima persona – che ho cercato di riflettere, scrivendo.

Fascismo in queste righe – è importante precisarlo – non è usato come troppo spesso capita per qualificare negativamente un avversario, specie se esplicitamente di destra; è usato in senso squisitamente politico, con tutta la precisione che la storia in generale, quella italiana in particolare, ha conferito al termine. Da un lato (Lega), serve a identificare l’ossessivo richiamo all’Ordine, alle Frontiere, alle piccole Patrie, il primato dei nostri (i presunti autoctoni, qui gli Italiani), e della famiglia, l’affermazione trionfante dei valori tradizionali, in amore come nella religione (certo, non il Cristianesimo di papa Francesco…), la maschia ammirazione per la Disciplina e la Forza, e per chi le incarna, dentro e fuori i patri confini, la diffidenza per tutto quel che arriva dall’Estero, siano esseri umani o semplicemente prodotti, idee, il gusto per le formule, per le semplificazioni, per i me ne frego da opporre a tutte le manifestazioni di dissenso o anche solo di complessità, insieme al bisogno di riscrivere la storia, sin dentro al sistema scolastico, con una sostanziale banalizzazione, se non normalizzazione, del ventennio fascista e della sua ideologia. Dall’altro (5 Stelle), permette di comprendere meglio l’avversione più o meno velata per i libri e per la cultura tout court, in quanto strumenti che allontanano dagli autentici bisogni del popolo, la vera e propria esaltazione dell’ignoranza, e dello stesso Popolo (P maiuscola) in quanto ignorante, a cui favore si distribuiscono, o si afferma voler distribuire, una serie di misure sociali (nessuna delle quali tuttavia intacca veramente i meccanismi di ingiustizia propri della società, anzi… e poi il Popolo è comunque solo e sempre italiano), il disprezzo per il passato, l’odio per la politica, i tutti corrotti, l’urlo, la tabula rasa, il vaffanculo generalizzato, il continuo denigrare il vecchio ordine per invocarne uno nuovo, noi il cambiamento, noi la rivoluzione, amalgamati nel grande mantra, che da solo dovrebbe far venire la pelle d’oca a chiunque conosca un poco la storia del Novecento: né di destra né di sinistra.

La Lega e il Movimento 5 Stelle, insomma, non stanno insieme mostruosamente, né per caso, o per un effimero incidente di percorso, magari per via del dissennato rifiuto del Partito Democratico: la loro unione viene da lontano, è inscritta nel loro DNA, è per entrambi una sorta di inevitabile vocazione. Del resto non si può non constatare quanto poche siano state le defezioni vere, nelle file dell’uno come dell’altro partito, in seguito all’accordo, al contratto; anzi, il consenso intorno a Salvini – che è il vero capo e motore della coalizione – cresce, e cresce molto proprio tra le fila dei 5 Stelle, il cui presunto animo di sinistra ha comunque da sempre una tendenza più o meno marcata al sovranismo. Ed ecco che precisamente in chiave nazionalista e anti-europea, molte rivendicazioni o parole d’ordine dei due partiti, che inizialmente sembravano inconciliabili, hanno finito non solo per conciliarsi, ma addirittura per viaggiare da una parte all’altra, diventando patrimonio comune.

Le caratteristiche dell’odierna coalizione di governo qui sopra tratteggiate – e altre se ne potrebbero enucleare – si adattano comodamente, sia pur con le inevitabili differenze (la storia non si ripete in modo identico), al movimento installatosi al potere in Italia negli anni venti del secolo scorso: appunto, il fascismo, nella sua scaltra armonizzazione di autoritarismo e di presunta rivoluzione sociale. È stupefacente, in tal senso, vedere come la sinistra, nelle sue diverse componenti, abbia seguito sbigottita o sbarazzina l’evolversi della situazione. Da un lato, l’auto-flagellazione: non abbiamo capito nullabisogna comprendere le paure della gentedobbiamo cambiare tutti gli strumenti teorici… le nostre categorie non valgono più nientedestra e sinistra non ci permettono di interpretare un fenomeno nuovo etc. Dall’altro (ma sempre di meno) una certa scanzonata e ottimistica superficialità, e sottovalutazione del pericolo: ma che fascismo e fascismocerto è un governaccio, ma sono le regole dell’alternanza… organizziamoci per rivincere le prossime elezioni… la vera Italia sta fuori dalla politica ufficiale… etc.

Ora non solo sempre di più è questione di un progetto autoritario e con prepotenti tratti fascisti – e non di normale alternanza democratica – per quel che riguarda la politica ufficiale, istituzionale; ma anche – ed è a mio avviso l’elemento più inquietante –  per quel che riguarda la società civile (in italiano fa quasi gioco di parole, ossimoro…), che da questo fascismo è investita nel profondo. Il consenso per Salvini cresce non malgrado quel che dice e fa contro i cosiddetti migranti (che sono il vero centro della sua azione), ma proprio per questo. La “nuova” politica, in altri termini, risponde a un bisogno profondo, e maggioritario, della società. C’è il contesto internazionale, certo, la famosa crisi socio-economica, l’ultraliberalismo, l’onda lunga delle destre più estreme, i grandi movimenti dell’emigrazione, le guerre, il terrorismo etc., ma c’è qualcosa di esclusivamente proprio all’Italia, e che è tutt’altro che nuovo: la sua antica, robusta pancia fascista. Come si è arrivati a questo?  Vent’anni e più di Berlusconi hanno certo ben dissossato e concimato il terreno. Ma forse c’è qualcosa di ancor più antico, radicale, più forte dei tanti errori che la sinistra può aver fatto, più profondo (vorrei dire ad alcuni amici) persino delle colpe di Renzi: forse il fascismo più che tornare non è mai veramente finito.

Curiosamente, nella serie di riflessioni, considerazioni autocritiche più o meno flagellatorie che attraversano la smarrita sinistra italiana ne manca una, che a mio avviso è di capitale importanza. E cioè che noi – e per noi intendo qui le generazioni di italiani che son nati fra gli anni quaranta e settanta – siamo cresciuti, ci siamo formati dentro una bolla: la narrazione della Resistenza prima, le grandi battaglie per i diritti civili e sociali poi, negli anni sessanta e settanta, ci hanno fatto immaginare una Repubblica più luminosa e forte di quel che in realtà non fosse. Certo, eravamo consapevoli degli scricchiolii, dei baratri, della strategia stragista di alcuni settori dello Stato, dei diversi tentativi di golpe, delle molteplici criminalità organizzate e delle loro connivenze altolocate – ma era, come dire, una consapevolezza astratta, come astratto era, nei nostri discorsi, il rischio di fascismo, almeno al governo del paese. E soprattutto mai avremmo anche solo immaginato che i diritti conquistati potessero esser altro che irreversibili. Quel che succede oggi, in questa prospettiva, sarebbe allora semplicemente la dimostrazione che l’Italia che portò al potere il fascismo, o comunque lo tollerò, l’Italia in cui l’antifascismo attivo fu una nobile ma ultraminoritaria minoranza fino al disastro della guerra perduta, l’Italia che accolse o comunque non insorse contro le infami leggi razziali, era più viva di quanto l’esaltazione della Resistenza e l’euforia delle lotte degli anni sessanta e settanta non ci avessero fatto pensare. O per dirla con una sola frase: quella che un tempo si chiamava maggioranza silenziosa è oramai maggioranza e basta. E per altro molto rumorosa. (Interrogativo, dubbio, anche se in storia non serve interrogarsi sui se: se Mussolini non si fosse imbarcato nella guerra sbagliata forse sarebbe durato ancor più à lungo di Franco in Spagna…). L’errore più drammatico dell’Italia di sinistra, democratica, repubblicana, sarebbe insomma il non aver capito quanto profondo fosse il problema, quanto fragili le nostre conquiste. Per carità – e per fortuna ! – l’Italia fatta di donne e uomini per cui solo conta l’amore, e non l’orientamento sessuale, e ancora l’apertura, l’accoglienza, la curiosità per l’altro, da qualunque parte del mondo o della società venga, questa Italia – da Trieste a Lampedusa, passando per Riace – esiste, continua a esistere; semplicemente è oggi – e probabilmente da molto tempo – minoritaria. Capirlo può aiutarci a ritrovare il cammino.

Carlo Levi, autore di Cristo si è fermato a Eboli, da leggere e rileggere

Così, per cogliere al di là dell’inquietante quadro internazionale la peculiarità della situazione italiana, più che ingegnarsi a inventare strumenti nuovi per capire un fenonemo nuovo, mi sembra utile ritornare a considerare, a studiare certe analisi, certi libri “vecchi”, che permettono di capire come di nuovo, oggi, ci sia ben poco. Penso soprattutto (andando in ordine di “antichità” crescente) alle osservazioni di Eco sull’Ur-fascismo, all’inizio dell’epoca berlusconiana; all’avversione radicale e sempre all’erta per tutte le forme di fascismo – e su tutte la più pericolosa: il fascismo come normalità – che attraversa l’intera opera di Pasolini sino alla morte, a metà degli anni settanta (il che significa, per lui, critica radicale della borghesia che è madre di tutti i fascismi); e soprattutto, e siamo addirittura nel 43-44, il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli (da leggere o rileggere, subito…), che in un certo senso concretizza, attualizza le riflessioni di Gobetti sul fascismo come autobiografia della nazione (e siamo negli anni 20: da studiare o ristudiare anche lui…), individuando nella struttura incompiuta, piccolo-borghese, della società italiana il nodo patologico, oscuro che avrebbe portato in futuro – secondo Levi – alla probabile rinascita di forme e istituzioni politiche all’apparenza nuove e magari rivoluzionarie ma che in realtà avrebbero riproposto le antiche ideologie. Cioè – per citare le parole esatte di Levi – perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano. (E il discorso potrebbe continuare: mi è capitato negli anni di ritrovare articolazioni originali di queste riflessioni in tanti altri scrittori – fra gli ultimi che ho letto in tal senso: Sciascia, Consolo, Camilleri…)

Gli stereotipi son sempre semplificazioni, non di rado erronee, e pericolose. Ma vale la pena di considerarli, soprattutto quando, per così dire, si muovono. Quel che più mi colpisce, in questo contesto, è come recentemente si stia modificando l’immagine degli italiani, brava gente. Per capirlo, si deve uscire dal cerchio, sia pure ampio, degli italiani che siamo abituati a frequentare qui in Francia, o in Italia; si deve abbandonare il mondo virtuale dei social network, ora confortante, ora spaventoso, e sempre distorto, separato, irreale. Bisogna interrogare gli stranieri che vivono o transitano in Italia; ed orecchiare in giro i  discorsi italiani che si sentono al mercato, in autobus, nei caffè, al ristorante, in spiaggia, per constatare che la rabbia, i pregiudizi, l’ostilità, le panzane più inverosimili e oscene non hanno più bisogno del filtro dei social per esprimersi ad alta voce: la società italiana, da tempo conosciuta e ben voluta nel mondo per la sua accoglienza, per la sua simpatia, per il suo senso dell’umorismo, se ne è oramai impregnata in profondità. Le donne passano il tempo a laccarsi le unghie, c’hanno tutti il telefonino, vengono qui in vacanza, ci costano un sacco di soldi, ci rubano il lavoro, la legge non dev’essere uguale per tutti, sono le nuove invasioni barbariche, c’è un progetto di sostituzione razziale…: ecco alcuni di quei “discorsi”, li ho uditi e annotati quest’estate. A farli erano persone riconducibili a un tipo di “italiano medio” che una volta tutt’al più si disinteressava benevolmente di politica, ed oggi argomenta con passione, soprattutto contro i richiedenti asilo, i quali, omogeneizzati in una sorta di mostruoso nemico esterno dentro di noi, sono diventati una vera e propria ossessione. Come fare a spiegare che le migliaia di arrivi stranieri sulle coste dell’Italia, di anno in anno, sono di gran lunga inferiori alle partenze italiane – che si contano per centinaia di migliaia, con livelli oramai vicini a quelli dell’immediato dopoguerra – e che questo dato dovrebbe allarmare prioritariamente? E che anzi l’Italia, secondo paese più vecchio del mondo, dovrebbe puntare anche su una politica di immigrazione proprio per potenziare il suo futuro?

Non si tratta – è l’accusa, già esperimentata, che è sempre pronta a partire – di parlare male dell’Italia, o di non rispettare la volontà della maggioranza. Si tratta di uscire dal silenzio, di dire con forza – innanzitutto in quanto europei – che siamo, e vogliamo un’altra Italia, un’altra Europa. Perché l’Italia per l’Europa è stata sempre un formidabile laboratorio di idee, nel bene ma anche nel male: e la paura agitata ad arte è contagiosa, oltrepassa volentieri i confini, soprattutto quando come spesso capita si trasforma in aggressività. Sarà una battaglia lunga, che necessita luoghi materiali e non virtuali, dentro e fuori l’Italia: ai social network, illusorio strumento di libertà che sempre di più si rivela un pericoloso recinto propizio al totalitarismo del pensiero breve (non a caso è innnanzitutto digitalmente che si son propagati e si propagano tanto la Lega che il Movimento 5 Stelle) bisognerà opporre, reiventandoli, nuovi spazi reali, aperti, fatti di incontri concreti, di carezze, di sguardi, di chiacchiere e discussioni (ricordate le piazze? le bandiere? i cortili o i prati dove giocano a palla i bambini, i ragazzi?).  Bisogna studiare, certo, combattere l’ignoranza, fertile terreno di tutti i fascismi – ma bisogna anche concretamente, individualmente, e insieme, impegnarsi con tutti i mezzi possibili – dall’insegnamento della lingua del posto, al soccorso, all’ospitalità – per aiutare, per accogliere chi fugge dalla guerra, dalla persecuzione, o semplicemente dalla fame. Specularmente all’ossessione della paura, con le sue gabbie, i suoi muri, dobbiamo costruire, proporre un modello di società (un modello: cioè un’aspirazione, una prospettiva) in cui l’accoglienza di chi viene da fuori sia una priorità, e la libera circolazione, la libera mescolanza delle persone un diritto. E una preziosa opportunità. Il modo giusto di porre la questione non dev’essere Non ci sono soldi, non li possiamo accogliere, ma piuttosto Chi ha bisogno dev’essere accolto, come trovare i soldi? Il che ci fa capire che al razzismo, alla xenofobia, si mescola un problema diverso, di giustizia sociale: i migranti sono innanzitutto poveri, se fossero ricchi nessuno gli chiuderebbe la porta in faccia. (Dobbiamo quindi, anche, lottare di nuovo per una società più giusta…)

Questo impegno nel soccorrere, nell’accogliere, deve essere assunto da ognuno di noi (per noi intendo tutti quelli che non vogliono che trionfi l’eterno fascismo, in Italia e fuori…) Ognuno con i suoi tempi e le sue possibilità: ma non ci possiamo più limitare a difendere o ammirare coloro che, a loro rischio e pericolo, già lo fanno. Perché non si tratta, oggi, di una battaglia politica, o lo è nel senso più ampio e antico della parola – è una battaglia umana, di civiltà.

Giuseppe A. Samonà

Version française : traduction Sophie Jankélévitch
L’éternel fascisme italien – Viceversaonline

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.