Oggi la democrazia è un’altra cosa.

Il guaio è che molti partiti del mondo occidentale continuano a credere che la democrazia sia quella del secolo scorso, assemblearismo, decisioni collegiali, cosi che ogni decisione va condivisa con lunghi e spesso logoranti ed inconcludenti confronti interni.

La realtà è che nel corso degli anni, il rapporto tra istituzioni, partiti e popolo è cambiato. L’hanno capito per prima i populisti, che bisognava superare le mille strettoie del politically correct e guardare al sodo del rapporto con le aspettative del popolo, almeno del proprio popolo. Questo avviene anche perché nella evoluzione degli ultimi decenni, incluso il diverso quadro geopolitico rispetto alla caduta del muro di Berlino e l’avvento della globalizzazione, è venuta meno la pretesa della democrazia novecentesca, del coinvolgimento sistematico dei cittadini, quando la politica divenne pervasiva finanche nel modo di vivere privato delle persone. Ormai molti cittadini non sono interessati alla politica come partecipazione attiva, chiedendo piuttosto alla politica competenza, attenzione ai problemi e risposte a questi, quindi capacità di decisione, di incidere nel cambiamento positivo della società.
Va aggiunto che anche la gestione delle istituzioni non corrisponde più a decenni di consolidata consuetudine. Cio’ si è già denotato anche nella nostra repubblica. Abbiamo avuto presidenti più che decisionisti, come Napolitano che, scavalcando ogni prerogativa ad esempio del Parlamento, imposero di fatto il governo Monti; la stessa magistratura agisce ormai in forme molto meno felpate della prima repubblica finendo per influenzare la stessa azione politica dei partiti orientandone, in modo sensibile, le scelte. Per non parlare delle frequenti discese in politica di ex togati, magari spesso precedute da esternazioni che in altri tempi sarebbero state considerate folli. Le regole scritte o meno della democrazia appaiono oggi molto meno rigide che in passato.

Alla base di questa trasformazione di rapporto, piaccia o no, c’è anche un’evoluzione tecnologica ed informatica della comunicazione in genere e politica in particolare. Il che non vuol dire che siamo alla fine dei partiti, ma che i partiti devono modificare il loro tipo di rapporto con la cittadinanza. Siamo in un mondo dove l’informazione, nel bene e nel male, passa in buona misura attraverso i social ed internet. In tal senso i partiti possono da un lato giocare il loro ruolo territoriale di ricettori dei bisogni e dei problemi locali, dall’altro essere strumento di sensibilizzazione per la soluzione di questi bisogni e problemi. I cittadini oggi, più che partecipare alla costruzione di un progetto politico, chiedono una soluzione ai propri problemi esistenziali e quotidiani. Il che vuol dire che più della soddisfazione alla partecipazione, alla costruzione di idee e soluzioni i cittadini, nella moderna democrazia, chiedono capacità di decisione ed anche in tempi rapidi.
È cambiato quindi il rapporto tra fase di elaborazione collegiale e potere decisionale e oggi la bilancia pende a favore di questo secondo aspetto. Proprio il guardare alla politica come mezzo più che come fine costituisce una delle novità dell’evoluzione delle democrazie occidentali.
A questo va aggiunto che, rassegnati o meno, i cittadini nel mondo sembrano consapevoli di alcune realtà che ipocritamente la politica ha tentato di occultare. È il caso ad esempio delle lobby o dei gruppi di potere che hanno sempre inciso nella vita politica di ogni paese, ma che oggi incidono in modo molto più esplicito ed evidente.
Anche oggi la democrazia, lungi da essere quella sognata e rappresentata nel secolo scorso, fa i conti con lobby, o se preferite il peggiorativo caste, ed alla fine, in molte democrazie occidentali, questo non è considerato un male ma piuttosto una necessità. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, le lobby hanno una loro regolamentazione e sono soggetti giuridici riconosciuti e capaci di dialogare ed incidere nelle decisioni della politica. Il punto è che occorre regolamentare, liberalizzare queste oppure, in alternativa, scioglierle e, in tal senso, questo significa abolire, ad esempio, gli ordini professionali, dando spazio ad una visione più libera e meritocratica della competizione professionale e imprenditoriale sul mercato.
Vuol dire, ad esempio, più spazio e valore a chi studia e ha più esperienza, e che merita più di chi deve ancora farsi le ossa e mostrare il proprio valore.

Le due ipotesi sono entrambe possibili e praticabili, ma occorre uscire dalle ipocrisie con cui in diversi paesi, tra cui il nostro, le lobby o caste decidono, ma si fa finta che non sia vero. Ipocrisia che determina in molti casi “holdings” che mescolano, non senza sospetto, imprese, politici, spesso armati anche da compiacenti mezzi di informazione che alla fine incidono molto più dei tanti collegi decisionali che le nostre istituzioni prevedono.
Sempre più la politica non è determinata semplicemente dal voto e dal consenso popolare, esistono categorie professionali e anche gruppi d’affare che possono condizionare e determinare proprio quel voto e quel consenso. Per gli affari certo le grandi imprese, le banche, la finanza, ma anche la magistratura e finanche gruppi editoriali e l’informazione in genere sono capaci di orientare i gusti e le scelte politiche.

democrazia

La magistratura ha acquisito un potere, che va al di là delle proprie funzioni, sin dal crollo della prima repubblica con tangentopoli. Ancora qualche anno prima ai tempi di Craxi, il giudice Casson era frenato nelle sue inchieste su politica ed affari, proprio dal suo Ordine, quello della magistratura, una cosa che oggi apparirebbe impossibile.
È evidente che in occidente la politica ha perso la sua centralità, i cittadini oggi si sentono utenti della democrazia e più che essere coinvolti nel processo di progettazione di idee e programmi, chiedono soluzioni che favoriscano il proprio benessere.
I partiti sono sempre più personalizzati per il semplice motivo che i livelli intermedi della vecchia democrazia sono venuti meno, parlo dei cosiddetti, quadri intermedi, delle sezioni territoriali che compivano opera di mediazione tra i cittadini e i partiti. Nell’epoca dei social, il rapporto tra leadership e popolo si è fatto più diretto ed immediato. Oggi i capi di stato annunciano una guerra o una legge con un tweet, senza mille mediazioni.
Nel nostro paese il precursore di tutto cio’ fu Berlusconi con la sua discesa in campo, poi sono seguiti gli altri, tutti. C’è chi si fa il suo partito e ci mette la faccia, altri come M5S, che è retta da un’azienda che è la Casaleggio associati, la faccia ce la mettono poco e preferiscono avere un dipendente che opera per loro, leggi Di Maio. La Lega, come gli altri, non ha mai preso una decisione collegiale, è sempre stato Bossi, poi Maroni ed infine Salvini a decidere e questo sulla base di una loro sintonia con il proprio popolo.

Del resto questa forma di democrazia diretta dà più spazio al leader, ma il leader, ad esempio nella sinistra internazionale ed italiana è sempre e da sempre quello che ha deciso, i collettori territoriali, i quadri intermedi si limitavano ad un’opera di convinzione nei confronti dei propri simpatizzanti ed iscritti. Il punto è stato sempre avere un leader con cui il popolo si sentisse in sintonia. Francamente non ricordo una sola volta in cui Berlinguer avesse dettato la linea e che i suoi oppositori interni, e ce n’erano, fossero riusciti attraverso la collegialità a modificarne il corso. Nel suo modificarsi la democrazia del nuovo millennio ha fatto venire meno i suoi rituali che la rendevano sacra e che hanno caratterizzato il secolo trascorso.

Cosi con Renzi nel PD. Il fiorentino, anche da dimesso, resta un leader e non perché sia circondato da pasdaran armati che ne impongono il potere, ma per il semplice motivo che gode del consenso della maggioranza del suo popolo. Chi invoca decisioni condivise, guarda ad un modello democratico che non è più e da tempo, e che forse non è stato mai.
Al massimo, la collegialità è invocata tatticamente solo per colpire e infastidire il proprio leader di partito nella speranza di soppiantarlo alla guida dello stesso.
Semmai il vero punto qualificante è che si esca da questa idea massimalista che l’avversario sia da distruggere e comunque da delegittimare come un delinquente inaffidabile, una nullità sotto il profilo etico e politico. Il vero salto di qualità è partire dalla matura consapevolezza che tutti coloro che hanno consenso hanno diritto ad essere rappresentati e sono legittimati da uno scopo il bene del proprio paese e dei cittadini che rappresenta, questo a maggior ragione, dopo che si è voluto ripristinare un sistema elettivo proporzionale.
La sventolata collegialità è spesso un’ipocrisia, prova n’è quanto avviene in Liberi e Uguali che dopo aver raccolto un mesto 3% dei voti, nelle ultime elezioni, non ha avviato alcuna riflessione interna, né assunto decisioni collegiali. Prova n’è ancora proprio M5S che dopo le elezioni ha imposto a tutti i propri eletti, alla faccia della libertà del vincolo di mandato riconosciuto come strumento di democrazia dalla Costituzione, un contratto di fedeltà alla linea e si badi bene non di Di Maio, ma della Casaleggio Associati.

Proprio il populismo di M5S costituisce un unicum nella democrazia italiana del terzo millennio. Infatti questi non considerano di avere un proprio popolo, ma si rivolgono al popolo, considerandosi come gli unici veri rappresentanti del suo insieme. Proprio questo assunto fa si che tutte le altre forze politiche vengano da loro considerati come nemici del popolo. Questa colossale mistificazione e la delegittimazione del voto degli altri è stato il vulnus che ha complicato enormemente il tentativo di formazione di un governo M5S e Lega, ma questa è storia di queste ore.
Nella democrazia moderna, i partiti devono dare risposte, anche rapide, ai piccoli e grandi problemi della quotidianità dei cittadini, i quali sono sempre meno interessati alle riflessioni sui massimi sistemi e sempre più attenti a chi fa politiche che facciano ridurre le tasse, funzionare i servizi, rendere competitive le nostre scuole e favorire il lavoro. Il resto come suol dirsi è fuffa. Oggi diviene prevalente la governabilità e il potere di decisione ed esecuzione sull’attività parlamentare che da noi peraltro è resa estenuante da un sistema bicamerale perfetto. I cittadini chiedono, e a gran voce, che i leader, prima ancora che i partiti, siano capaci di assumersi responsabilità e di portare fino in fondo le promesse per cui hanno raccolto voti.

pop

Non è inutile ricordare che la modernizzazione del paese e della sua democrazia sarebbe stata più rapida se al referendum del 4 dicembre del 2017 avessero vinto i sì alla riforma costituzionale. Fosse accaduto oggi i 5 Stelle governerebbero felici e contenti da soli, assumendosi davanti al popolo la piena responsabilità delle proprie scelte. Ma cosi non fu.
Questo ritardo in occidente dei partiti “tradizionali” nel prendere atto delle evoluzioni (nei fatti) del sistema democratico ha favorito la vittoria dei populismi, in America con Trump, in Gran Bretagna con la Brexit, ma anche in Francia, Austria e buona parte dell’Europa. In Cina il popolo, senza destare scandalo, preferisce largamente l’attuale sistema, con un Jinping che in pratica resta presidente a vita del paese, perché quel sistema ha garantito e garantisce, specie nelle realtà urbane, benessere. Egualmente in India dove c’è una democrazia, si vota davvero, fortemente decisionista e che mantiene tuttavia molte prerogative a favore di caste, ma si considera di vivere meglio pur con problemi infrastrutturali ancora presenti ed in buona parte irrisolti. I russi amano Putin, eppure molti fan della democrazia assembleare e collegiale storceranno il naso. Ma la priorità per i russi non è come vengono assunte le decisioni, ma la qualità di queste.

Credo che davvero anche da noi, specie nella sinistra, sarebbe l’ora di aggiornarsi su che cosa i cittadini intendano per democrazia.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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