Io, a questa storia dell’”Italia migliore”, mica c’ho mai creduto. L’ho sentita mille volte, quella storia lì. Da una parte, un’Italia splendida, dotata di senso civico, che paga le tasse fino all’ultimo centesimo perché comprende che senza le tasse non ci sono le scuole e gli ospedali e tante cose necessarie, che crede nello spazio pubblico, nelle regole, nella cortesia, nell’onestà, nell’educazione, che in macchina si ferma per far passare i pedoni; un’Italia fatta, per usare una potente espressione spagnola, di hombres (y mujeres, già che ci siamo, ndr) verticales.
Contrapposta all’altra Italia. L’Italia peggiore. Quella furbescamente torva, che evade orgogliosamente il fisco perché pensa che a pagare siano i fessi e che poi è la prima a lamentarsi per i servizi scadenti; che parcheggia in seconda fila ma con rimpianto perché (come dice un mio amico) vagheggia la terza; un’Italia moralista e immorale, che reclama il privilegio per sè e non il diritto per tutti, che blandisce la classe politica se ha bisogno di favori e la insulta se non riesce ad ottenerli.
Ecco: io a questa storia qua, delle due Italie che si guardano in cagnesco, quella splendida e quella orrenda, mica c’ho mai creduto. Gli elementi e le opposte attitudini che ho citato esistono, intendiamoci; ma io credo che esistano soprattutto come due polarità distinte. Due polarità che sono, entrambe, caricature della realtà, che ne esasperano i tratti, e che in un certo senso sono persino necessarie l’una all’altra – come il bianco e l’augusto dei pagliacci del circo.
È nello spazio tra le due polarità che abita il famoso “paese reale”, cioè noi, noi cittadini: a volte luminosi esempi di senso civico, in altri casi invece un po’ meno. E poi, ho sempre avuto un’istintiva, naturale diffidenza verso coloro che si eleggono (unilateralmente, e di solito senza un filo di incertezza) rappresentanti della cosiddetta Italia migliore. Di solito, finiscono per rivelarsi peggiori degli altri.
Ecco, così la penso io. E poi indovinate un po’ cosa mi capita? Mi capita di trovarmi in aeroporto, qualche giorno fa, e arraffare una copia (gratuita. Preciso che sono genovese) del Financial Times. È estremamente chic sedersi in aereo magari accanto ad una bella sconosciuta con sotto il braccio il Financial Times, assieme ad un giornale francese ed uno italiano: l’immagina che si proietta di sé è cosmopolita, intellettuale, brillante. Ma a quel punto (visto che la bella sconosciuta non mi considerava), già che c’ero, l’ho pure aperto e persino letto, il FT. E nel supplemento “Life and Arts” mi sono imbattuto in un articolo dal titolo: “Lunch with the FT: Elisabetta Tripodi”. Elisabetta Tripodi è sindaco di Rosarno. Provincia di Reggio Calabria, Italia, Europa.
La Signora Tripodi, seduta a tavola con il giornalista del FT, racconta di quando ha ordinato il sequestro di una casa costruita abusivamente, dove viveva la madre di un “boss” della malavita locale – la ’Ndrangheta (“lo sai cosa stai facendo?”, il commento di un magistrato). E poi parla, con grande semplicità, della vita con l’ossessione della scorta che la segue ovunque. E della decisione di candidarsi, contro il parere della famiglia, che non voleva vederla imbarcarsi in una simile avventura: decisione presa perché “se tutti si lamentano e nessuno fa niente, le cose non cambieranno mai”.
Elisabetta Tripodi è del PD, ma nell’intervista non risparmia critiche al suo partito, che giudica affetto da maschilismo non meno degli altri. L’articolo finisce su queste parole: “Tripodi sa di essere nel mirino. Se le apparenze non ingannano, rappresenta l’altra faccia della politica italiana, quella dotata di senso civico, intenta a cercare di cambiare le cose, testarda nella sua ricerca. Senza drammi: solo un giorno difficile dopo l’altro”.
Ecco, io non credo che esista l’Italia migliore contrapposta all’Italia peggiore e tutta quella storia lì di cui vi ho parlato, perché non credo all’esercito dei buoni contrapposto a quello dei cattivi; però, accidenti, l’Italia di Elisabetta Tripodi è quella che mi piace.
Maurizio Puppo