Procediamo, come già annunciato, alla pubblicazione della seconda parte dello scritto di Claudio Antonelli, studioso appassionato di lingua italiana espatriato in Canada, sulle parole spesso utilizzate nel corso della pandemia e le “mutazioni” da virus subite ultimamente dal nostro vocabolario. Potrete ritrovare la prima parte delle sue riflessioni da confinato QUI. Buon divertimento!
Seconda parte
“L’uomo vede le cose sostanzialmente, anzi direi esclusivamente,
nel modo in cui la lingua gliele propone.”
(Wilhelm von Humboldt)
Distanze sociali.
L’emergenza causata da questo morbo invisibile che si trasmette soprattutto attraverso il contatto o il quasi contatto fisico ha spinto le autorità dei vari paesi ad imporre il “distanziamento sociale”. Formula quest’ultima adottata in tutte le lingue – “social distancing”, “distanciation sociale” – evocante però una realtà politico-sociologica che ha poco a che vedere con il virus. L’espressione “distanziamento sociale” dovrebbe essere accoppiata a “distanza interpersonale”, “distanziamento fisico”; in tal modo, quel “sociale” perde la sua connotazione sociologica per designare invece chiaramente la prossimità fisica sia individuale sia di gruppo nelle feste e festicciole, riunioni, assembramenti.
Ai giorni nostri, quando sul Web masse di esibizionisti si tolgono anche le mutande mettendo in evidenza oltre alle pudenda il loro viso gongolante di soddisfazione esibizionistica, il mettersi la maschera è ormai divenuto un obbligo. E nell’epoca degli insulti urlati oggi è doveroso trattare il prossimo con i guanti, mantenendo le distanze. “Noblesse oblige”. Dopo tutto questo è un virus che porta una corona…
Domiciliari – Siamo tutti ai domiciliari.
Gli italiani sono ai domiciliari pur non avendo commesso reati (e lo siamo anche noi qui in Canada, dove però la pena inflittaci è meno costrittiva). Chi era già ai domiciliari per aver commesso furti, vandalizzato, minacciato o picchiato dei malcapitati, oggi certamente gongola perché anche le sue vittime si trovano, come lui, ai domiciliari.
Europa/Ue.
“Europa” e “Unione Europea” apparivano fino a ieri sinonimi. I due termini, in apparenza interscambiabili, identificano invece due realtà. Lo ha dimostrato anche l’emergenza da coronavirus con l’azione non coordinata e spesso dissociata di ognuno dei governi di un’Europa divisa in Nazioni ma formalmente unita sotto forma “Ue” ossia come “Unione Europea”.
Quali sono le cause del fallimento di un’Europa “patria comune”? Molti stentano a capire che l’appartenenza territoriale, con il sentimento di un passato comune e di un destino condiviso, implicano non solo gli apparati giuridico-burocratici, ma la cultura, la lingua e l’anima, e un desiderio di affermazione sugli “altri”, ossia su tutti quelli che non appartengono alla grande tribù. Senza un simile sentimento, fortemente ostacolato anche dalla mancanza di una lingua comune, l’“Europa-UE” basata sul mondialismo finanziario promuovente un unico mercato di merci e persone è destinata a rimanere un’entità “ectoplasmica” con il suo spazio fantascientifico di Schengen e i suoi fluttuanti confini.
Fidanzati.
Dai giornali: “I fidanzati non sono ‘congiunti’ ma dal 4 maggio potranno comunque tornare a incontrarsi. La precisazione arriva dall’avvocato dello Stato Giulio Bacosi.” “Anche i fidanzati potranno vedersi: lo sostengono a Palazzo Chigi.”
In Italia si è molto discusso e persino bizantineggiato sul termine “congiunti” contenuto nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). È apparso importante a tutti che si chiarissero certe nozioni perché nella seconda fase dell’emergenza coronavirus, che segna l’allentamento delle interdizioni connesse al “confino”, “confinamento”, “reclusione”, “segregazione”, “clausura”, “relegazione”, “lockdown”, “serrata” da coronavirus, il confinato ha l’autorizzazione di uscire dalla tana quando il suo scopo è di incontrare i “congiunti”. Ma chi sono questi congiunti? Il fidanzato è un congiunto? I chiarimenti ufficiali si sono succeduti in gran numero (come è avvenuto per i modelli dell’autocertificazione) perché non era chiaro chi rientrasse nella sacrosanta categoria. Infine, tutto è stato chiarito, con la precisazione che “I fidanzati non sono congiunti”. Vi è stato un momento di panico, seguito però da un sospiro di sollievo perché i fidanzati rientrano comunque nella categoria delle persone cui il confinato è legati da “affetti stabili”. Non mi soffermo sugli “affetti stabili”, né di quelli “instabili” e “fugaci” evocati dal governo.
Da linguista dilettante colgo invece l’occasione per sollevare la questione dell’uso che nella lingua italiana odierna si fa del termine “fidanzato” che fino a ieri evocava un serio impegno da parte di una coppia dalle evidenti intenzioni matrimoniali. Adesso sappiamo, grazie al DPCM di Conte, che i fidanzati non sono dei “congiunti”. Ma cosa sono? « Siamo fidanzati », oppure « lui è il mio fidanzato », « lei è la mia fidanzata »… c’è un continuo uso, oggi, dei termini in questione. Termini ed espressioni che venivano usati un tempo con parsimonia perché il loro significato era impegnativo. “Era”, perché non è più così oggi. Nel linguaggio comune “fidanzamento” indica ormai una semplice relazione amorosa. Ci si può fidanzare a tutte le età e qualunque sia lo stato civile di quelli che chiamerei “i fidanzati non nubendi”, visto che il matrimonio non c’entra. Lo stesso amante con cui ci si vede ogni tanto e di straforo può anche lui essere considerato, dopo tutto, un fidanzato.
Come spiegavo, il termine « fidanzati » designava fino a ieri, nella patria del Manzoni, un vincolo di un futuro matrimonio che alla fine avveniva nonostante vi fossero talvolta degli impedimenti. Il fidanzamento era una cosa seria. Veniva ufficializzato spesso con una cerimonia, alla presenza dei genitori. E l’ufficiale promessa di matrimonio era assortita di un anello, l’anello di fidanzamento. “I veri fidanzati? Quelli de ‘I promessi sposi’ del Manzoni”, ha detto di recente papa Francesco cui concedo, per una volta, l’infallibilità.
Gli inglesi ricorrono al termine francese “fiancé” per designare il fidanzato d’alta classe. Il “petit ami” francese equivale al nostro “amichetto”. La lingua italiana difetta di un termine ad hoc che designi l’amico, l’amica del cuore, l’amichetto, l’amichetta… Dopo tutto, per noi, gli amici tutti sono amici del cuore. A causa della grande disponibilità del nostro cuore. Capace però di nutrire antipatie e odi altrettanto diversificati e profondi…
Il rinnovamento linguistico, antropologico e morale ha investito l’intera gamma dei legami familiari e di conseguenza anche i termini che li designano. Oggi infatti è possibile per un bambino avere due madri, oppure avere due padri. Perché allora stupirsi di qualcuno o qualcuna che, contemporaneamente, ha più fidanzati o fidanzate? In inglese per designare un rapporto affettivo con sfondo anche sessuale vi è un termine molto più calzante. Io che pur mi batto da anni contro i termini importati dall’inglese proporrei invece caldamente “boyfriend” e “girlfriend” al posto dei nostri ormai carnevaleschi “fidanzato” e “fidanzata”.
Fine del mondo.
Lungo la strada del coronavirus troviamo cadaveri, chiusura dei negozi, blocco del turismo, paralisi dell’economia, interdizioni di uscire… Tutto ciò somiglia a una fine del mondo. Del mondo che noi abbiamo conosciuto finora. Il che non può che generare paure ed angosce nell’uomo. Ma non in tutti. Non nei seguaci di una setta millenaristica che consacrano la propria esistenza a propagandare il loro luttuoso messaggio biblico. Ebbene, questi adepti dell’Apocalisse che già nel passato in ogni calamità, ogni guerra, ogni emergenza vedevano i segni annuncianti la nostra prossima fine che mai però arrivava, adesso invece non hanno più dubbi. Questa volta finalmente il loro dio, da loro presentato come un essere misericordioso ma paradossalmente anche molto vendicativo, darà a tutti noi, scettici, la morte definitiva. Ma ridarà la vita ai suoi eletti in un mondo trasformato in paradiso terrestre. Premiandoli per aver fatto per anni, agli angoli delle strade, il loro dovere di testimoni, missionari, profeti e soprattutto di venditori ambulanti di paure.
I tanti giorni di pioggia, il freddo, lo stare per tante ore all’impiedi, lo studio infinito dei versetti biblici, e tutti gli altri sacrifici diretti a far la propaganda della setta, saranno finalmente ricompensati. Per loro è ormai giunto il momento di fregarsi le mani e ridere sotto i baffi. L’auspicata fine sembra proprio arrivata.
Focolaio.
“Focolaio” era un termine che fino a ieri riscaldava il cuore. In un tempo ormai lontano la famiglia si riuniva, si raccoglieva, si stringeva intorno al focolare. Lì si parlava del presente, del passato e del futuro famigliare. Si raccontavano storie, si ricordavano eventi reali ma anche eventi religiosi, mitici, fantastici… Dimora, nido, magione, focolaio, focolare erano termini che evocavano i valori tradizionali, le virtù domestiche, gli affetti familiari, la continuità, la condivisione. Dal periodico La Voce del cuore di Gesù (Napoli 1892): “Tutta l’antichità proclama che il focolaio domestico è sacro al pari di un santuario”. Nella poesia “Il focolare” Giovanni Pascoli esprime così la serenità del focolare domestico « non li scalda il fuoco, ma quel loro soave essere insieme. »
Questo fino a ieri. Oggi il termine focolaio è associato a “infezione”. Pronunciando la parola focolaio si pensa subito a un “focolaio d’infezione”. Lo stringersi, il “soave essere insieme”, il “condividere” là dove c’è un “focolaio” rischierebbero di condurci difilato al pronto soccorso. E purtroppo anche gli ospedali sono talvolta dei veri focolai, nel senso luttuoso del termine.
Anche questa perdita d’innocenza della parola “focolaio”, un tempo a noi tanto cara, è un altro dei tanti danni del coronavirus.
Generazione sacrificata.
La pandemia ha riempito di parole “obbligate” i nostri discorsi: coronavirus, lockdown, mascherine, virologo, virale, curva, focolaio, distanze sociali… Stranamente assente è l’espressione: “generazione sacrificata”. Vi ricordate? Nel passato risuonavano periodicamente i funerei discorsi sull’atroce sorte toccata a tutta una generazione di giovani: la “generazione sacrificata” alias “perduta”. Le ragioni di questo giudizio apocalittico? Nessuno oggi se le ricorda più…I giovani – futuri vecchi – trovano comodo attribuire ai padri e ai nonni –ex giovani – il loro disagio esistenziale dovuto alle guerre, alle ingiustizie, al riscaldamento planetario, alla disoccupazione e ad un’infinità di questi e altri mali. Il lamento della “generazione perduta” o “sacrificata” metteva in grave imbarazzo gli anziani, i vecchi, i pensionati, compresi gli sdentati residenti degli ospizi, i quali, già portati a fare un bilancio negativo della propria vita, si sentivano, al concludersi di questa, non solo inutili ma, a causa di tali accuse, dannosi per l’umanità.
Oggi il virus colpisce ossia “sacrifica” soprattutto gli anziani. Ai giovani, e meglio ancora ai giovanissimi, a meno di gravi patologie preesistenti, il coronavirus non fa di solito un baffo. Colpisce invece crudelmente i vecchi, sempre più lasciati all’abbandono in case di cura e ospizi da quei pochi – se pur ci sono – figli e nipoti occupati a compiere soprattutto le loro brave visite sociali in Rete. Con tristi conseguenze. Si veda il recente atroce scandalo di quei ricoveri per anziani, in Canada e in particolare in Ontario e in Québec, dove l’esercito è dovuto intervenire per portare fuori cataste di poveri nonni, morti per disidratazione e per le infezioni causate dall’indicibile sporco. Insomma morti di abbandono. O forse anche di coronavirus.… Cosa volete, la pregnante espressione “generazione sacrificata” non si applica a loro, esseri sprovvisti di glamour.
Immunità di gregge.
In Italia il gregge c’è ed è in attesa, ma rumoreggia. Manca ancora l’immunità. Speriamo che questa giunga presto.
Mascherine.
Nelle altre lingue non mi risulta che la maschera facciale venga ingentilita da un diminutivo come fa la lingua italiana con il suo grazioso “mascherina”. E dicendo “mascherina” non c’è bisogno di aggiungere “facciale”. È un risparmio insomma. Beneficio che si aggiunge a quello dei prezzi stracciati, perché grazie al commissario straordinario Arcuri il loro prezzo calmierato è di soli 50 centesimi di euro l’unità nella Penisola. Peccato però che a questo prezzo, veramente basso, pochi siano disposti a metterle in commercio.
Positivo.
In medicina, il significato dell’aggettivo “positivo” è il contrario del significato che questo termine ha nel linguaggio corrente. Udita in Tv: “Oggi, giornata positiva perché i casi positivi sono in calo.”
Dopo essere stato criticato nel passato per il mio carattere negativo, oggi io mi compiaccio di continuare ad essere negativo. Risultato quest’ultimo decisamente positivo per me.
Ripartire.
Dopo la paralisi della nostra vita collettiva normale, molti di noi, oggi chiusi in casa, sognano di partire anzi di ripartire. Il grande desiderio è, infatti, di “ripartire”. Mai come oggi l’idea del ripartire preoccupa governi e popoli. E nella speranza di un prossimo ripartire vi è la confusa speranza che questa volta il viaggio sarà più saggio e bello per tutti noi.
Il ripartire non è visto come la ripresa del viaggio che ci ha condotto al punto morto in cui ci troviamo, ma come un allargamento del viaggio verso altre destinazioni fin qui non ancora esplorate e sulle quali sappiamo ancora poco ma che già ci sorridono. Il nostro viaggio non sarà più quello di prima. Noi lo speriamo.
Noi tutti abbiamo addosso un penoso sentimento di aver sbagliato molte cose nel corso del viaggio precedente cui il coronavirus, spinto da una mano o diabolica o divina, ha messo rovinosamente fine. Peccato che il treno, su cui noi passeggeri stiamo per risalire per questo nuovo viaggio, sia lo stesso di prima…
Sanificare.
Invece del verbo “disinfettare” si preferisce usare oggi “igienizzare” o meglio ancora “sanificare”, termine che racchiude l’idea che noi diventeremo sani e felici dopo l’operazione di “disinfezione”, pardon di “sanificazione”. Sanifichiamo dunque gli ambienti, ché così resteremo sani.
Sanzioni.
Le vaste schiere dei preposti alla tutela dell’ordine non hanno potuto più indulgere all’attività a loro così cara in tempi normali: chiacchierare beatamente tenendosi in gruppo, stretti quasi a riccio e alitandosi reciprocamente sui volti contenti le loro storie private. Che si pensi ai vigili urbani… Ciò è divenuta un’attività impensabile a causa del coronavirus e della presenza, nelle strade deserte, di giornalisti e telecamere. Bisogna anche dire che i “trasgressori” da loro severamente puniti sono spesso dei poverini venuti fuori “illegalmente” dalla tana per una boccata d’aria, ma senza avere il richiesto lasciapassare, ossia la dovuta autocertificazione nella sua ultima versione burocratica.
In certi casi, i controllori dell’ordine pubblico e supervisori della moralità – le mascherine sono divenute le mutande della nostra nuova buoncostume: mai togliersele! – hanno infuriato contro il malcapitato che ha osato fare jogging su una spiaggia deserta o che si è avventurato nei boschi nei pressi di casa sua dove non c’era un’altra anima viva. Si badi io qui non mi riferisco di certo a chi, pur essendo positivo, esce di casa per mescolarsi pericolosamente agli altri. Ma chi ha il potere s’inebria. Lo si è visto anche dalle isteriche grida “Restate a casa!” lanciate da certi sindaci in orgasmo da coronavirus per l’inaspettato potere.
Che l’obbedienza alle regole sia da attribuire soprattutto alle sanzioni, non più fatte di chiacchiere ma reali, si è visto quando i divieti si sono allentati. Corriere della Sera: “Lo sfogo del sindaco di Milano non è bastato. Ci sono volute anche le forze dell’ordine per ‘frenare’ l’assalto ai parchi. Stessa scena replicata in molte altre città.”
Sarebbe forse ora di sperimentare restrizioni, confinamenti e sanzioni nei confronti di chi è fortemente sospettato di essere un camorrista, un mafioso, un ‘ndranghetista”. Se le forze dell’ordine sono riuscite, in occasione di questa epidemia, a disciplinare un intero popolo portato al disordine e alla trasgressione, sono sicuro che non sarebbe poi impossibile riuscire a fermare la propagazione delle varie mafie; grazie, appunto, all’azione coordinata della stessa folla di protettori dell’ordine pubblico che oggi sono impegnati a multare persino chi mangia un gelato senza mascherina.
Spread.
Lo spread, inteso come divario fra due quotazioni di un titolo o due tassi di interesse, penalizza l’Italia nei confronti di altri paesi più virtuosi come la Germania. Tutti noi lo sappiamo. Lo sa anche chi non è un esperto di finanza. “Spread” è un vocabolo quindi negativo. Gli italiani in grande maggioranza ignorano un altro significato di spread, quello di diffusione: la diffusione del virus. Fortunatamente c’è anche “to spread” col significato di “spalmare”. Uno spalmare associato al burro, in Canada, e alla Nutella, in Italia. Speriamo che tutto vada per il verso giusto nel prossimo futuro facendo sì che quest’ultimo “spread” abbia linguisticamente la meglio sui primi due “spread”.
Statistiche.
Con il coronavirus la morte sembra aver perso la sua tragicità. Io direi che come la digitalizzazione dei libri ha avuto la meglio sui libri fisici, comprese le edizioni di pregio a tiratura limitata che le dita sfogliavano con grande riguardo, la statistica ha trionfato sul doloroso dramma della morte dei singoli relegandola tra le cifre e i diagrammi. Il numero giornaliero delle morti causate dal coronavirus conta per le autorità e per il popolo soprattutto per capire l’andamento dell’epidemia. Sicché la famosa curva del seguitissimo grafico assorbe globalmente queste morti riducendole a puro segmento statistico.
Lo scrittore francese Michel Houellebecq ha osservato che mai la morte “è stata tanto discreta come in queste settimane”. Si muore in solitudine e la salma viene subito seppellita o cremata. “Le vittime si riducono a una unità nella statistica delle morti quotidiane”. È proprio vero, come dice Houellebecq, che “mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatezza così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni?), è un po’ come se si fosse già morti.” La sua pessimistica conclusione : “Cari amici, il mondo sarà uguale. Solo un po’ peggiore.”
Turisti.
Certe località per il troppo turismo perdono l’anima. Venezia è un esempio emblematico del sovraffollamento, dello snaturamento, dell’artificialità causata da un turismo straripante mordi e fuggi. Che continuando avrebbe morso Venezia fino al torsolo. Ma con l’emergenza da coronavirus, sorta di peste, i turisti sono scappati. Speriamo che con il ritorno alla normalità italiana i migliori tra loro ritornino perché dopo tutto si vive anche di turismo.
A parte la verità del detto “il troppo stroppia”, non è facile per noi dare una definitiva risposta al dilemma: accoglierli o non accoglierli questi turisti? Non è facile rispondere. “I turisti”, dopo tutto, non sono solo gli altri. Ci è difficile ammetterlo, ma “turisti” siamo anche noi…
Virale.
Il termine “virale” con cui fino a ieri molti esaltavano le prodezze online anche le più cretine, oggi con l’avvento di un virus ispirante paura ed angoscia ha perso ogni connotazione “cool”. E speriamo che ben presto anche il termine “cool” perda il suo favore linguistico, visto che il coronavirus ama il “cool” e sembra invece odiare la luce e il calore.
Ora, vi saluto. Tanti ‘gomiti’ a tutti, cari lettori!
Claudio Antonelli
Da Montréal