Epidemic: G. Garcia Marquez e l’eccezionale normalità del colera (e dell’amore).

Per chi come me considera Gabriel Garcia Marquez il più grande scrittore del Novecento, l’occasione di parlare di uno dei suoi romanzi più pirotecnici: L’amore ai tempi del colera, è un esercizio, in questo caso troppo breve ma, certamente, tanto  gratificante. Naturalmente, nello spirito di “Epidemic”, dobbiamo soffermarci su quanto di epidemico c’è nella sua letteratura per trarre, nello stile della rubrica Controcanto, spunto e confronto con la nostra attualità.

Gabriel Garcia Marquez

La scrittura del premio Nobel colombiano è un crepitare di colori, umori e sentimenti che, in ogni pagina, ci avvolgono e catturano in mille sensazioni, calandoci improvvisamente tra le piogge e le calure solari dei Caraibi. Sullo sfondo delle vicende vi è il colera, terribile infezione virale, tristemente nota anche a noi di Napoli che la vivemmo in prima persona nei primi anni settanta. Ma qui il colera è poco più di un tratto della normalità, i luoghi narrati da Marquez sono troppo ricchi di poesia, di passione ed emozione per perdersi nell’incolore consistenza delle ostinate regole della pulizia.

Per la verità, il colera fu vissuto anche da noi all’ombra del Vesuvio, con allarmata ed allarmante normalità. Ricordo che, diversamente da oggi, non ci fu nessun confinamento. Ricordo anzi cene e cenette con amici (ah, gli amici! eravamo adolescenti!), con l’unica variabile che frutta e verdura erano lavate, con orribile meticolosità, nella nauseabonda amuchina. La morte del figlio del pescatore che abitava di fronte alla mia famiglia, preceduta dalle grida strazianti dei familiari, nel corso di tutta la notte, fu in fondo considerato tragicamente normale e non ci indusse a cambiare le nostre vite. Anche se a ricordarci quotidianamente il colera c’era il respiro terribile delle strade che trasudavano di acre creolina. Per il resto, la vita (amori inclusi), scorreva con tutta la sua rassegnata e a volte felice ed altre infelice improvvisazione di noi napoletani.

E così, anche per Marquez, quel drammatico vibrione può diventare occasione per una storia d’amore,  e che storia d’amore!, un inventario infinito di possibilità ed emozioni  che si distendono nelle disponibili fragilità dell’anima e della carne, e che si intersecano con mille altri amori che insieme fanno la nostra vita. Una moltitudine di sensi e sentimenti scossi, felici e disperati, che fanno dire al grande autore che: “Il cuore ha più stanze di un casino”.

E il colera? Un alibi forse ma del resto se l’amore è “normale” nella sua continua originalità, anche il colera può esserlo e certamente le due cose, amore e colera, hanno un denominatore comune, sono entrambi virali.

Gabriel Garcia Marquez – L’amore ai tempi del colera.

Venne istituita la cattedra obbligatoria di colera e febbre gialla alla Scuola di Medicina e si comprese l’urgenza di chiudere le fogne e di costruire un mercato distante dall’immondezzaio. Il dottor Urbino, però, non si preoccupò in quel momento di invocare la sua vittoria né si sentì in animo di perseverare nelle sue missioni sociali, perché lui stesso era a quell’epoca con un’ala rotta, stordito e sperso, e deciso a cambiare tutto e a dimenticarsi di tutto il resto nella vita per il bagliore d’amore di Fermina Daza.

Era stato in realtà il frutto di un errore clinico. Un medico amico, che aveva creduto di intravedere i sintomi premonitori del colera in una paziente di diciotto anni, chiese al dottor Juvenal Urbino di andare a visitarla. Ci andò quello stesso pomeriggio, allarmato dalla possibilità che la peste fosse entrata nel santuario della città vecchia, dato che tutti i casi fino ad allora si erano verificati nei quartieri marginali, e quasi tutti fra la popolazione negra. Trovò altre sorprese meno ingrate. La casa all’ombra dei mandorli del Giardino de Los Evangelios, da fuori sembrava altrettanto distrutta delle altre della zona coloniale, ma dentro c’erano un ordine di bellezza e una luce incantata che sembravano di un’altra età del mondo. L’atrio dava direttamente su un patio sivigliano, quadrato e bianco di calce recente, con aranci fioriti e il pavimento piastrellato con le stesse piastrelle delle pareti. C’era un rumore invisibile di acqua continua, mazzolini di garofani sui cornicioni e gabbie di uccelli strani sotto gli archi. I più strani, in una gabbia molto grande, erano tre corvi che scuotendo le ali riempivano il patio di un profumo equivoco. Parecchi cani alla catena da qualche parte della casa incominciarono improvvisamente a latrare, impazziti per l’odore dell’estraneo, ma un grido di donna li fece tacere di colpo, e molti gatti saltarono fuori da tutte le parti e si nascosero tra i fiori, spaventati dall’autorità della voce. Allora si fece un silenzio così chiaro, che attraversò il disordine degli uccelli e le sillabe dell’acqua sulla pietra si coglieva il respiro struggente del mare.

Spaventato dalla certezza della presenza fisica di Dio, il dottor Juvenal Urbino pensò che una casa come quella fosse immune dalla peste. Seguì Gala Placida nel corridoio ad archi, passò davanti alla stanza da lavoro dove Florentino Ariza aveva visto per la prima volta Fermina Daza quando il patio era ancora in macerie, salì per le scale di marmo nuovo fino al secondo piano, e aspettò di essere annunciato prima di entrare nella camera da letto della malata. Ma Gala Placida venne fuori con un messaggio: “La signorina dice che non può entrare adesso perché suo padre non è in casa”.

E così tornò alle cinque del pomeriggio, secondo l’indicazione della domestica, e Lorenzo Daza in persona gli aprì il portone e lo accompagnò fino alla camera da letto della figlia.

Restò seduto nella penombra dell’angolo, con le braccia incrociate e facendo vani sforzi per dominare il respiro farraginoso, finché durò la visita. Non era facile sapere chi era più represso, se il medico con il suo tatto pudico o la malata col suo riserbo da vergine dentro il camicione di seta, ma nessuno guardò l’altro negli occhi, se non che lui domandava con voce impersonale e lei rispondeva con voce tremante, tutti e due dipendendo dall’uomo seduto nella penombra. Alla fine il dottor Juvenal Urbino domandò alla malata di sedersi, e le aprì la camicia da notte fino alla cintura con un’attenzione squisita : il seno intatto e altero coi capezzoli infantili risplendette per un attimo come una vampata nelle ombre dell’alcova, prima che lei si affrettasse a nasconderlo con le braccia incrociate. Imperturbabile, il medico le allontanò le braccia senza guardarla, e l’auscultò con l’orecchio contro la pelle, prima il petto poi le spalle.

Il dottor Juvenal Urbino era solito raccontare di non aver provato nessuna emozione quando aveva conosciuto la donna con cui sarebbe vissuto fino al giorno della sua morte. Ricordava il camicione celeste con i bordi di pizzo, gli occhi febbrili, i lunghi capelli sciolti giù per le spalle, ma era così preoccupato dall’irruzione della peste nella zona coloniale, che non guardò niente del molto che lei aveva di adolescente in fiore, quanto invece il più infimo che potesse avere di appestata. Lei era stata più esplicita: il giovane medico di cui tanto aveva sentito parlare a proposito del colera le era sembrato un pedante incapace di amare nessun altro al di fuori di se stesso. La diagnosi fu un’infezione intestinale di origine alimentare che si arrese con un trattamento casalingo di tre giorni. Sollevato dalla prova che la figlia non aveva preso il colera, Lorenzo Daza accompagnò il dottor Juvenal Urbino fino alla carrozza, gli pagò il peso d’oro della visita, che gli sembrò eccessivo anche per un medico da ricchi, ma lo congedò con ostentazioni smodate di gratitudine. Era abbagliato dallo splendore dei suoi nomi, e non solo non lo nascondeva ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per vederlo un’altra volta, e in circostanze meno formali.

La cosa sarebbe dovuta finire lì. Tuttavia il martedì della settimana seguente, senza essere chiamato e senza nessun preavviso, il dottor Juvenal Urbino tornò alla casa all’ora inopportuna delle tre del pomeriggio. […]

Da: L’amore ai tempi del colera – Gabriel Garcia Marquez, traduzione di Claudio M. Valentinetti, Mondadori 1986.

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Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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