Parto da una premessa, un ricordo personale, in cui credo che molti della mia generazione, che non provenivano come me, da famiglie facoltose, si ritroveranno.
Quando ero bambino, a casa mia mangiavamo carne una volta alla settimana. Non perché fossimo vegani o perché ci facesse male alla salute, ma semplicemente perché costava caro e mio padre che era, pace all’anima sua, professore con una moglie casalinga e sei figli, non poteva comprarla più spesso. E così o la mangiavamo al brodo il sabato oppure, più spesso, la consumavamo nel rito napoletano del ragù domenicale.
La nostra dieta per il resto era a base di verdure, all’epoca si trovavano solo di stagione (le zucchine del Sud Africa non sapevamo nemmeno che esistessero), formaggi, i meno cari e sempre italiani, uova, raramente pesce e sempre comunque sardine, alici, se a tavola arrivava un cefalo voleva dire che papà aveva preso la tredicesima. Poi polpette di pane, il pane vecchio lo si doveva pur utilizzare, altrimenti zuppe di fagioli, lenticchie, a volte con le linguine spezzate oppure pasta e piselli, zuppe di fave, quando era il periodo. Il mio sogno era un polletto al forno tutto per me e qualche volta mamma, in occasione del mio compleanno, me lo faceva trovare a tavola, era un regalo. A proposito di regali: non esistevano paghette, e i regali erano solo in rare occasioni; per il compleanno, l’onomastico (importantissimo per noi del sud), la befana e a Natale. I regali erano sempre belli ma alcuni erano proibitivi per le finanze familiari. La pista Polycar, per me resterà un sogno mai esaudito.
Ci sarebbe tanto da aggiungere e raccontare, ma fermiamo la premessa qui.
Dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, circa 100 mila anni fa, al 1920 si passò da qualche migliaio di abitanti ad un miliardo e trecentomila unità. Dal 1920 al 2020, ossia in cento anni, la popolazione mondiale è salita a sette miliardi e mezzo. Già questo è un dato inquietante.
La morte, naturale conclusione della vita, è diventata il nemico principale di qualunque società degli uomini, un qualcosa da bandire, da abolire. La vita è bene, la morte è male. Ogni nostro sforzo tecnico e scientifico è, da almeno due secoli, teso a rendere evitabile l’inevitabile. Ed eccoci così a vivere un mondo senza spazio vitale e senza frontiere in cui ogni malattia si propaga senza fine, siamo lì ad inseguire il male e le malattie, davvero temo e credo che questo sarà il secolo delle epidemie.
Si direbbe che tanta crescita demografica sia una grazia di Dio, ma in realtà qualche cosa non quadra. Questo sviluppo abnorme di popolazione ha portato l’economia del mondo a scelte forse democratiche, egalitarie, propendenti a garantire il massimo consumo di tutto per tutti.
Tutti convengono che le risorse del pianeta sono ormai agli sgoccioli e l’enorme sovrappopolazione pone drammatiche domande a cui i grandi della Terra sono chiamati a risposte urgenti e decisive.
La Cina conta oggi un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, più di quanti ne contasse tutto il pianeta nel 1920, un tempo poverissima oggi gode di un benessere pari agli Stati Uniti e tra trenta anni, secondo le previsioni dei maggiori analisti del mondo sarà la prima potenza economica del pianeta.
Per garantire la sopravvivenza della sua popolazione si sono dovuti industrializzare in modo intensivo tutti gli allevamenti animali, con un’ampia utilizzazione dell’ingegneria genetica, spesso costringendo milioni di capi di suini, vacche, per non parlare dei polli, a condizioni spaventose, il che non è solo eticamente inaccettabile, ma lo è anche sotto il profilo sanitario. Il punto è che quando avviene in Cina, avviene ormai in gran parte del mondo e sicuramente in tutte quelle aree del pianeta che, a partire dalla globalizzazione degli anni novanta, hanno avuto una crescita economica e di benessere rapidissima ed esponenziale.
In realtà, nelle nostre società, da oriente a occidente, dal sud al nord del pianeta, si è consolidata l’idea che il benessere si misuri in consumi, più si consuma e migliore è la nostra qualità della vita. Forse è giunto il momento di rivedere questo principio e di domandarsi se poi è vero che per il bene del nostro essere sia sufficiente avere larghissimi consumi.
Le diseguaglianze nel mondo, al di là dei luoghi comuni che si sentono in giro, sono molto diminuite. Oddio, la torta è sempre quella, ma se prima la mangiavano prevalentemente i pochi ricchi paesi dell’occidente, oggi quella stessa torta, che contiene, materie prime, energia, e tutto il necessario per lo sviluppo di un paese, va diviso con altri paesi che sono usciti dalla fame e che oggi sono agguerriti competitor. L’India e le tigri dell’estremo oriente, la Cina, ma anche paesi latino americani come il Brasile e l’Argentina. Il benessere si è diffuso per la gioia di chi predica, a ragione, più giustizia nel mondo.
Oggi la carne, il pesce, non sono più un lusso, anzi costano meno di prodotti che un tempo erano considerati poveri. Naturalmente la qualità è scaduta enormemente ma la quantità è garantita, anche se con molti dubbi sulla salute delle bestie e sulla nostra che li consumiamo a tavola, nei pub e ristoranti. Le batterie di polli, con migliaia di esemplari stipati come in armadi senza luce naturale, anemici e malaticci, come i capannoni in cui vengono foraggiati uno addosso alle altre, vacche o suini, hanno preso il posto della cura e della cultura della pastorizia o dell’aia per oche e galline, con bestie trattate ad antibiotici, modificati perché possano produrre sempre più rapidamente carne, grasso. Un’industria che sforna animali da produzione e macello sempre meno buoni di qualità, sempre più pericolosi per la nostra salute, ma questo serve a massificare il consumo, a far sentire il povero più simile al ricco, perché ora tutti possiamo consumare un hamburger, con l’illusione che ciò ci renda tutti più uguali. Lo stesso vale per i pesci, che ormai sono sempre più di allevamento, e che allevamento! dato che i nostri mari sono stati lasciati per decenni a morire tra micro plastiche e pesche che per decenni sono state selvagge depauperando l’ecosistema di oceani e mari spesso teatri di un inquinamento tragico.
Paradossalmente, stiamo in via di uscire vittoriosi dal lungo confronto con il Covid 19, ma il nostro mondo è, forse irrimediabilmente, malato, direi morente. Con colpevole ritardo ci stiamo rendendo conto della necessità di rivedere alcuni concetti e valori che per noi erano autentici capisaldi. La stessa democrazia è in crisi, e al netto di ogni facile retorica e demagogia, andrebbe da chiedersi se questo modello sia ancora compatibile e in che modo con un mondo che è al limite dell’esplosione.
Con disprezzo rifiutiamo, specie noi italiani, l’idea di un’agricoltura che sia sempre più all’insegna degli OGM (Organismi Geneticamente Modificati), e tuttavia occorrerebbe sfamare, al momento sette miliardi e mezzo di persone, mica uno scherzo.
Noi stessi ci stiamo modificando, proprio fisicamente, ci alimentiamo male, ci muoviamo poco, e l’attuale epidemia, ha acuito la nostra crescente tendenza all’immobilità, stiamo sempre più diventando simili a quei polli di allevamento che vivono stretti uno accanto all’altro in pochi centimetri, a mangiare, produrre, figliare e morire.
È evidente che occorrono misure drastiche. Le autorità sanitarie abbozzano, nel nome della massificazione ed omologazione alimentare, su allevamenti industriali che sono serbatoi enormi di future pandemie. Ricercatori americani hanno rivelato che la SARS (la febbre del suino) che alcuni anni fa fece stragi in oriente, si sta modificando ancora anche grazie a questi tipi di allevamenti intensivi, e varianti vengono trasmesse nella catena di passaggio dal suino all’uomo e poi ancora al suino.
Un mio amico medico del Cardarelli di Napoli, mi ha rivelato che alcuni ricercatori sostengono che è in corso la modificazioni di circa 500.000 tipi di virus diversi, come abbiamo già ricordato questo potrebbe essere il secolo delle epidemie. In un certo senso la natura cerca di ripristinare, paradossalmente ammazzando una certa quantità di noi, il proprio ordine delle cose, imponendoci una selezione naturale che dovrebbe incidere positivamente sulla qualità della vita dei sopravvissuti.
Occorre, forse, modificare la scala dei valori alimentari, ripristinare sistemi di agricoltura e di allevamento che privilegino la qualità più che la quantità e pazienza se questo comporta un maggior costo e quindi l’esclusione per grosse fasce di popolazione dall’alimentazione attuale. Voglio dire semplificando: meglio un pollo ruspante ogni quindici giorni che la cotoletta quotidiana di pollo da batteria.
Non è detto che sia necessario mangiare arance in tutte le stagioni, per cui con costi altissimi importiamo arance dal Cile o dal Sud Africa perché in Europa mancano. Il tutto con un largo uso di pesticidi e di conservanti che diventano un’ulteriore minaccia per la nostra salute.
Probabilmente occorrerà rivedere la nostra stessa civiltà alimentare, magari ripristinando, se è ancora possibile, quei cicli della natura che c’erano ai tempi della nostra infanzia.
Il nostro mondo è malato anche per i troppi egoismi di cui soffriamo. È fin troppo evidente che bisogna spingere la ricerca e i capitali verso forme di produzione energetiche che liberino il pianeta dalle attuali sofferenze dell’ecosistema. Il che non significa decrescita, o almeno non nel senso in cui viene predicato anche da alcune forze politiche, ma crescita con le fonti di energia pulita e rinnovabile. Significa preservare la natura, senza continuare a violentarla nel nome di consumi massivi.
La realtà è che nel mondo esistono differenze economiche, ambientali, culturali e di civiltà e la pretesa di avere tutti uguali a tavola, finanche nel tempo della globalizzazione è appunto una pretesa.
In un mondo globale non mi indigna il fatto che ciascun popolo preservi la propria cultura e cultura alimentare e ambientale, mettendola anche a confronto e al servizio di altri popoli. Il vero errore è quello di voler dare una risposta globale anche alle particolarità climatiche, biologiche e naturali del nostro mondo.
Per molti geo-politologi tra le possibili cause di una futura guerra mondiale c’è proprio il sovraffollamento e le carenze di materie prime del pianeta. La crescita a dismisura della popolazione più che una grazia suona come una disgrazia e ce ne stiamo sempre più accorgendo, anche con i fenomeni immigrativi che mettono in crisi i già precari equilibri sociali, economici e poi politici, delle nostre civiltà. Il mondo si stringe sotto le mutazioni climatiche che sono sempre più veloci come la nostra sovrappopolazione che in 100 anni ha setteplicato quello che la natura aveva fatto in centomila anni. Da una parte è in corso una desertificazione del centro nord dell’Africa e di aree dell’America latina, il clima equatoriale si allarga sempre più mentre il surriscaldamento con lo scioglimento di serbatoi d’acqua dei ghiacciai “eterni” delle montagne, come le nostre Alpi o delle calotte artiche, porta ad un innalzamento inquietante di oceani e mari, con perdite sempre più consistenti di coste.
A questo punto, uscendo, come sembra, dalla dura esperienza del Covid, occorre farsi responsabilmente delle domande sul nostro futuro, su come dobbiamo adattarci (siamo pur sempre una specie atta all’adattamento, anche se le trasformazioni sempre più rapide dell’ecosistema, mettono a dura prova questa nostra capacità) o cambiare, in meglio, un mondo che sta morendo. Sono domande che non possiamo lasciare solo alla responsabilità dei grandi della Terra, sono domande a cui ognuno di noi, nel suo proprio piccolo deve farsi e soprattutto cercando in coscienza la risposta giusta per sé e per il futuro degli altri.
Davvero bisogna ripensare al nostro modello di vita, al nostro habitat, mettere in discussione le nostre convinzioni anche politiche e sociologiche e il problema è il tempo, in un secolo siamo cresciuti a dismisura mentre il mondo si erodeva e consumava, resta poco tempo e la coperta ormai non copre più tutti.
Nicola Guarino