150 – Il Risorgimento nel cinema italiano. Seconda parte.

Eccoci alla seconda parte del lungo intervento del Prof. Iaccio dedicato al cinema italiano e il Risorgimento. Dagli anni settanta, un periodo storico estremamente ideologico e conflittuale, all’ultima opera di Mario Martone: « Noi credevamo », uscito nel 2011.

Il Risorgimento nel cinema italiano. Prima parte.

A parte il caso particolare di Bronte, che resta un esempio a sé del corto-circuito che la commistione tra cinema e storia può generare, in quello stesso periodo altre originali “rivisitazioni” hanno ripreso temi ottocenteschi e risorgimentali per una interpretazione della storia in cui il presente, e cioè il momento e il clima che avevano suscitato la riscoperta, avevano un ruolo determinante.

Ci riferiamo in particolare ai fratelli Taviani e ad un corpus omogeneo che Luigi Magni ha dedicato ai temi della Roma papalina e al potere temporale della Chiesa. Per i Taviani si possono ricordare San Michele aveva un gallo del 1971 e il successivo Allonsanfan del 1974. L’uno e l’altro, per un verso, vanno molto al di là del tempo in cui le opere sono ambientate e investono temi universali del passato e del presente, per l’altro verso, sono la risposta a stimoli che trovano la loro origine nel clima di caduta delle illusioni e di crisi delle ideologie dell’epoca in cui furono girati.

A questo proposito è interessante riportare una riflessione degli stessi registi che mettono in guardia dai pericoli dell’ideologia e, probabilmente, anche da una visione troppo meccanica e definita dei significati dei loro film. Sembrano anche orientarsi nelle loro opere sempre più verso la dimensione individuale e ridefinire in maniera ancor più originale e iperbolica il rapporto che hanno intessuto tra cinema e storia.

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«Ci mettiamo in sospetto quando sentiamo parlare di ideologia. Ci ha rassicurato la sostituzione che qualcuno ha fatto usando « senso del film » al posto, appunto, di ideologia. Questo termine ci riporta a precedenti preoccupazioni aberranti: ideologia come falsa coscienza, come sovrastruttura diaframmatica tra noi e le cose; ideologia anche, almeno nell’accezione italiana, come assoluta preminenza dell’uomo politico, dell’uomo storico. Oggi le nostre radici materialistiche ci portano a una posizione polemica verso ogni forma di ideologia che ponga l’accento su atteggiamenti storicistici tout court. Ci interessa, oggi, ritrovare anche l’uomo biologico, l’uomo nelle sue strutture di base: l’istinto della sopravvivenza nell’amore e nell’orrore della morte, quei « dati costanti della condizione umana che sotto l’istinto sessuale, l’indebolimento della vecchiaia (con le relative ripercussioni psicologiche), la paura della morte propria e il dolore per la morte altrui »».

Risulta ora più chiara, anche dal punto di vista dell’analisi storico-politica, l’interpretazione che si può ricavare dalle opere della maturità dei due fratelli registi in cui la dimensione individuale viene esaltata da un sentimento di consapevole solitudine presente in alcuni dei san_michele_aveva_un_gallo.jpg protagonisti, a partire da San Michele aveva un gallo.
Involuzione, crepuscolo, restaurazione (con o senza maiuscola) sembrano dimensioni, individuali e storiche, che attraggono sempre più la riflessione dei due fratelli: «La restaurazione non ci appare solo come quel fatto di potere e di classe che fondamentalmente è, ma come una forza che punta su quanto di regressivo, di restauratorio – ed inconfessato – è in ciascuno di noi, anche in chi la combatte. Confessiamo tutto quello che nel momento della ricerca e dell’azione, soprattutto collettive, riusciamo a superare, e che nel momento del ristagno e dell’attesa rimuoviamo con una violenza pari al suo rifluire. La rimozione genera paralisi. Dobbiamo liberarcene. E’ quanto abbiamo cercato di fare con Allonsanfan, ed è stata un’operazione faticosa e sgradevole».

I Taviani in quest’ultimo film, affondano il loro bisturi nella crisi della coscienza di un rivoluzionario che, per tutta la vicenda, è inseguito dal proprio passato, rappresentato dal candore utopico dei suoi (ex) compagni: «Perché venite a riprendermi, ma dove credete di andare così mascherati. Sono venti anni che andate, venite, vi mascherate e corriamo dietro a faville che sono soltanto cenere. Dio mio, come mi siete venuti a noia, state diventando anche voi soltanto delle tremende abitudini!.

Fulvio è spietato con i suoi compagni; non meno che con se stesso. Lo testimoniano le modalità del suo tradimento (l’ultimo di una lunga serie) con cui li denuncia ad un frate.

Frate – Noi la ringraziamo.

Fulvio – Lei non deve ringraziarmi: lei deve assolvermi.

Frate – Assolvere vostra signoria…

Fulvio – Io sono uno di quei venti e sto tradendo i miei compagni.

Frate – A fin di bene, figliolo.

Fulvio – No! Per salvare la pelle […] …io lo rifarei.

Fulvio non « salva la pelle ». Muore di lì a poco vittima di un destino beffardo e del suo ennesimo tradimento. Allonsanfan è un film sulla restaurazione post-napoleonica, come di altre « restaurazioni », o comunque le si vogliano chiamare, avvenute in seguito, ma è anche qualcosa di più. E’ la messa in scena (« glielo farò credere, io sono un grande attore » dice Fulvio, interpretato, non a caso, da un grande « attore » come Marcello Mastroianni, quando opera il suo primo « travestimento ») di una crisi esistenziale e delle « sublimi » bassezze a cui può far ricorso anche il più puro dei rivoluzionari quando vede franare, dentro se stesso, l’idea a cui aveva sacrificato la giovinezza. Fulvio è un personaggio in cui ognuno di noi – come hanno rilevato gli stessi autori – in un momento particolare potrebbe specchiarsi. Fulvio è per questo un personaggio universale.

Per i film di Magni si può vedere come il regista scavi a fondo in una realtà storica fortemente regionale, la Roma papalina, ma al tempo stesso universale, il potere della Chiesa. Con Nell’anno del Signore del 8010020041374.jpg 1969 e In nome del papa re del 1977 si immerge nei temi che gli sono cari e che affrontano il delicato problema storiografico e ideologico dei rapporti della Chiesa col Risorgimento e con i fermenti rivoluzionari che hanno percorso quel periodo storico. «Ho raccontato la lotta eterna della libertà contro la tirannide, libertà sempre perdente perché il potere è più forte. Come potere ho preso a modello uno dei poteri più assurdi mai esistiti, il potere del Papa Re, un potere temporale e spirituale al tempo stesso: quello che Mazzini chiamò “la vergogna civile d’Europa”. Questo però mi ha fatto passare erroneamente per “anticlericale” e mi ha dato un po’ di noia».

Grandi affreschi di un mondo popolare e gentilizio che si giovano dell’interpretazione di attori di primo piano e dell’immersione nelle botteghe degli artigiani, nei palazzi del potere, nelle sacrestie e nelle piazze, negli acciottolati limati dal tempo, nel dialetto della Roma ottocentesca. All’Ottocento risorgimentale Magni ritorna con altre due opere, come il film per la TV Il Generale, una delle poche dedicate alla figura di Garibaldi in anni relativamente recenti e un’altra incentrata su “Franceschiello”, ‘O re, l’ultimo dei Borbone di Napoli.

In questo film si racconta la storia dell’Unità d’Italia vista dalla parte degli sconfitti. Sconfitti ma non demonizzati, in linea con la visione personale, ma non immotivata, con cui il regista romano ha guardato ai fatti del Risorgimento. Si guardi ai titoli e agli argomenti messi in scena da Magni: «In nome del popolo sovrano, sulla Repubblica Romana del ’49. Ma anche questa è una storia che finisce male, ne “L’anno del Signore” vengono decapitati Targhini e Montanari. In “In nome del Papa Re” vengono decapitati Monti e Tognetti. In In nome del popolo sovrano vengono fucilati (nell’ordine) Ciceruacchio e suo figlio Lorenzo, Giovanni Livraghi e Ugo Bassi. Più che dei film ho fatto dei necrologi. Alla fine si vedono sempre delle lapidi».

Alla ideale esposizione di lapidi, di cui parla Magni, se ne può aggiungere un’altra. Si tratta di una originale proposta di Ennio Lorenzini, Quanto è bello lu murire acciso del 1976, un film che racconta la spedizione di Carlo Pisacane al Sud, e il suo tragico epilogo, sulle ali della musica popolare e della ricerca dei luoghi. Lo stile è sobrio e “neorealista”, sia nell’uso della lingua, sia nell’impiego di molti attori non professionisti, sia soprattutto nelle ambientazioni esterne di un meridione impervio e sconosciuto ai più.

Del resto, la cifra documentaristica, con cui tutta la storia è condotta, è 01947101.jpg un tratto distintivo del film derivante dalle esperienze precedenti del regista. Innovativa è la funzione della musica, e dei versi dialettali, curati da Roberto De Simone, con una eccezionale valenza evocativa in cui traspare la riscoperta della tradizione del canto popolare, tipica degli anni in cui il film fu girato. Da questo punto di vista, il passato (della tradizione popolare ripreso con scrupolo filologico) e il presente (in cui la scoperta della tradizione assunse le dimensioni di un fenomeno culturale e politico di massa) si confondono e si sovrappongono.

Un’opera fatta di estremi che si tendono e cercano di combinarsi in un modo che forse non ha eguali. Fondamentale è il ruolo dell’utopia, “interpretata” da Stefano Satta Flores, che conferisce al protagonista due caratteri opposti: l’ansia concreta di immergersi nella cruda realtà del Sud interno, e quindi una vicinanza al mondo che vuole redimere, e, al tempo stesso, la consapevolezza di una inevitabile sconfitta, a cui bisogna votarsi, per accendere la speranza di un futuro cambiamento.

Nel commiato di Pisacane dalla famiglia, inserito in un flash back, c’è la spiegazione del suo agire:

la moglie: “Tu ci lasci per inseguire un fantasma”.

Pisacane: “Non è un fantasma; è un’idea”.

la moglie: “E’ un’impresa senza speranza”.

Pisacane: “La speranza è proprio lì nel farlo”.

Sembra quasi che Lorenzini abbia messo in scena Fulvio, il protagonista di Allonsanfan dei Taviani, ma ripreso prima del “tradimento”. Un personaggio, quello di Lorenzini, che fa della sua integrità e della sua fedeltà all’idea rivoluzionaria, la ragione della sua vita; non meno che della sua morte. “La morte non è una brutta cosa”, dice il protagonista prima dell’epilogo, “quando arriva al momento giusto, né prima, né dopo”. Il Pisacane di Lorenzini-Satta Flores non accetta la caduta delle illusioni (degli Anni Settanta) o – meglio- forse ne è consapevole, ma reagisce nella maniera opposta a quella scelta da Fulvio: accetta il sacrificio nella certezza che il suo sangue servirà a fecondare la rivoluzione quando i tempi saranno maturi. “Non serve che moriamo tutti, basta il gesto. La morte di uno solo […] che qualcuno si prepari per altre imprese, per battaglie più fortunate”. Il finale mostra, in lontananza, un “ribelle” del posto, Antoni, che, visti i corpi dei congiurati trucidati, raccoglie qualcuna delle loro armi e si allontana per continuare la lotta.

La morale del film è recitata nel monologo dell’ufficiale borbonico, il maggiore De Liguoro, autore della repressione, che però, come in trance, riconosce le ragioni degli sconfitti (di oggi) e sembra antivedere la sconfitta del regno borbonico (di domani). Nella lettera-resoconto che comincia a dettare al re, dice che “l’odio aumenta” e che “le misure poliziesche non sono sufficienti”. Ben altro ci vorrebbe per risollevare le condizioni del Sud. Si spinge addirittura a porsi domande sulle reali intenzioni che avevano mosso la spedizione di Pisacane: “ma si proponeva veramente di vincere in battaglia?” E conclude con la lucida ammissione del vero scopo del suo nemico: “si proponeva di piantare una bandiera e l’ha piantata!”. “E l’odio aumenta”. Ma forse è già troppo tardi e lo stesso De Liguoro, interpretato da Giulio Brogi, finisce per strappare la lettera che aveva cominciato. In questo modo, nella versione di Lorenzini, Pisacane è il vero vincitore e la sua utopia non sarà stata inutile, come non è inutile continuare la lotta. “C’è il fuoco sotto la cenere, siamo venuti per soffiare sotto questo fuoco”. Tre anni dopo ci sarà l’impresa vittoriosa dei Mille.

La parabola dei film sul Risorgimento arriva ai nostri giorni con alterne fortune. In un modo o nell’altro, il Sud è presente, come lo era stato nel passato e forse ancora di più. Segno evidente di una ferita aperta che col passare del tempo non si è rimarginata. Le chiavi di lettura e di interpretazione sono diverse. Continua persino il filone del brigantaggio con Li chiamarono…briganti, 1999, di Pasquale Squitieri che riprende una vecchia vulgata del dopoguerra ma è interessante perché forse fa da battistrada a suggestioni e istanze che preannunciano qualcosa di simile ad un rivendicazionismo che guarda con favore al passato pre-unitario.

Un’opera senz’altro originale è Il resto di Niente del 2004, diretta da Antonietta De Lillo, una regista donna, dedicata alla figura di una donna protagonista della rivoluzione napoletana del ’99, Eleonora la-locandina-di-il-resto-di-niente-10059_medium.jpg Pimentel Fonzeca. Bastano queste caratteristiche per considerarlo diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Il film ha una matrice letteraria e filtra gli avvenimenti della repubblica napoletana sulla base del romanzo storico di Enzo Striano. La regista e lo sceneggiatore Vincenzo Rocca hanno rinunciato, in partenza, alla capacità descrittiva della storia evenemenziale in favore di una analisi in profondità delle motivazioni dei personaggi, in particolare di Eleonora, delle spinte ideali che ne erano alla base, delle utopie che muovevano la pattuglia del rivoluzionari napoletani. Non storia materiale, descrittiva, falsamente obiettiva (come generalmente si crede debba essere la storia) ma storia delle idee, della filosofia, dell’utopia illuminista, che però ci aiuta a capire, meglio di tante cronache, i fondamenti ideali e sociali delle riforme illuministe al Sud, le sue radicali innovazioni e le sue fragilità (scarso contatto con le masse a cui si rivolgevano). Nel caso specifico, questa caratteristica spiega i motivi reali e quindi “storici” del fallimento della Repubblica del ’99. Per questa ragione il film non si può definire antistorico, come è stato detto con eccessiva modestia perfino dalla regista, ma storico in un altro senso: storico delle idee, della filosofia, dell’illuminismo napoletano e non solo.

Eleonora è un personaggio pienamente immerso nel suo tempo storico. Le idee, il comportamento, le pulsioni sono quelle di una donna, colta e intelligente, inserita nel flusso delle idee riformatrici della fine del Settecento. La sua eccezionalità, semmai, è di essere una donna che opera in un mondo di uomini, come pure di voler incidere sul presente traducendo nella pratica le istanze ideali dell’illuminismo.

E lo fa attraverso gli strumenti che ha a disposizione e nelle condizioni storico-sociali che si trova a vivere. Il film le rappresenta molto bene: Eleonora adopera la sua intelligenza, la cultura, il dialogo, gli stessi “mezzi di comunicazione” che ritiene più efficaci, dal giornale al cantastorie. Anzi, rispetto ai suoi compagni d’avventura, si dimostra molto meno velleitaria di quanto non lo siano gli uomini. Il suo fallimento, e il fallimento di quella pattuglia di rivoluzionari che diede vita alla Repubblica del ’99, è dovuto alla distanza incolmabile tra la radicalità del loro progetto e le condizioni storiche e sociali in cui doveva essere attuato. A questo punto si può anche far riferimento all’interpretazione storica dei fatti del ’99 che sia Striano sia De Lillo, in maniera intimista attraverso la figura centrale di Eleonora, danno di quegli avvenimenti e che si iscrivono in un contesto storiografico che vede la Repubblica del ’99 e il suo fallimento come un’occasione fallita del processo di rinnovamento del Regno. Le cui conseguenze (negative) si estenderanno al successivo periodo risorgimentale. La decapitazione della parte più innovativa, e in senso lato riformatrice, della classe dirigente napoletana è alla base della corrente storiografica che vede in questo avvenimento traumatico il motivo di una mancata svolta che ha condizionato negativamente il corso degli avvenimenti successivi del Mezzogiorno fino al periodo post-unitario.

Nel 2006 Lamberto Lambertini, con Fuoco su di me, dedicato alla sfortunata esperienza murattiana, coniuga la sensibilità letteraria con la sua esperienza teatrale in un gioco di rimandi culturali e di avvenimenti storici. Gioacchino Murat viene visto come un eroe romantico, tutto impeto e cuore, “nu bell’ommo”, come lo ricorda un proverbio napoletano, che precorre le passioni del Risorgimento. Anche questo, come quello della De Lillo, è un film intimista, nel senso che il regista riversa nelle immagini, spesso quadri singoli di un grande affresco d’epoca, memorie, ricordi familiari, paesaggi, noti e meno noti, il precipitato culturale e visivo che la letteratura romantica aveva costruito sull’icona napoletana. Il tutto rimanda a un clima, a una grandezza, tanto luminosa quanto effimera, a una mescolanza di tradizione e modernità, a personaggi storici e di fantasia che, tuttavia, danno il senso di una stagione di passaggio, di una parentesi, di una svolta storica tentata e non compiuta.

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In tempi più recenti, nel 2007, c’è da notare che Roberto Faenza, in uno dei rari quadri d’insieme che il cinema ha messo in opera, è riuscito a trasporre per lo schermo il fluviale romanzo di Federico De Roberto, I viceré, che aveva scoraggiato una quantità di autori in precedenza, interpretandolo come un saggio di storia italiana di ogni tempo, con i suoi trasformismi, i suoi opportunismi, le sue miserie e i pochi cupi splendori. Il potere vale più dei valori, dei legami familiari, delle passioni politiche. Il potere è più importante perfino del danaro. Il film annulla quei lampi di romanticismo, da un lato, o di speranza in un futuro più o meno lontano, dall’altro, che pure sopravvivevano in opere altrettanto critiche girate in precedenza. Non ci sono personaggi positivi e se ci sono, saranno riassorbiti dalla ruota ciclica del potere. Sul lungo periodo, anche nella modernità, la storia si ripete sempre uguale a se stessa. Faenza ha avuto l’indubbio merito di non edulcorare, come invece è avvenuto di solito nelle opere televisive sullo stesso tema, il ruolo della Chiesa, o di parte di essa, e della “politica” di ieri (e di oggi, come il pubblico l’ha interpretata) nel tortuoso percorso post-unitario.

E’ infine uscito, tra le inevitabili polemiche che, come in altri momenti, 9788845265884g.jpg non sono mancate per temi risorgimentali, Noi credevamo, di Mario Martone. Di questo eccellente lavoro di un autore non conformista, il minimo che si può dire è che, nel panorama delle reazioni, si è riproposto un vecchio “copione” di giudizi sommari e spesso “preventivi”, di accostamenti arditi tra passato e presente, di prese di posizione in cui il giudizio storico si confonde con la valutazione estetica e l’analisi “politica”. Si è verificata persino una iniziale difficoltà di distribuzione, a dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto persistente e pervicace sia, nonostante il cambiamento dei tempi e dei protagonisti, la diffidenza verso opere che trattino un argomento controverso come il Risorgimento e la storia in senso generale.

Come si vede, l’Unità d’Italia al cinema non è un tema scontato, come forse si poteva pensare, e soprattutto non è un tema in grado di esprimere un’epica e neppure una identità condivisa: «Nessun film d’ispirazione storica – ha scritto lo storico Aurelio Lepre – ha espresso la nostra identità con la stessa efficacia della commedia italiana. Eppure abbiamo vissuto vicende tragiche, che hanno coinvolto profondamente l’intera popolazione. Ma non ne abbiamo una memoria condivisa. E senza di essa non può esserci vero epos nazionale, né nella letteratura né nel cinema». In altre parole, le molte ombre che si ritrovano nella controversa rappresentazione del Risorgimento al cinema, non sono di carattere cinematografico ma di carattere squisitamente storico. E’ la nostra storia che, lungi da avere un percorso identitario, è stata ri-scritta secondo le suggestioni delle diverse epoche e delle diverse visioni ideologiche.

Un altro storico si spinge più in là. La nostra storia non è stata studiata a fondo e quindi non poteva che dare riflessi controversi anche nella rappresentazione cinematografica. Paolo Macry ritorna a ricordare che la questione meridionale è tutt’altro che risolta: «La liberazione (o la conquista) del Sud è un puzzle di situazioni simili, che attende ancora di essere sviscerato in modo analitico. Fuor di retoriche e giudizi semplificati. Va bene il museo della nazione, come efficacemente questo giornale ha chiesto [Il Corriere della Sera], ma non sarebbe male promuovere anche una più ampia ricerca storica, capace di lumeggiare la nascita controversa della patria. Com’è tuttora evidente, la grandi divisioni del paese non si superano rimuovendo o manipolando le loro radici».

I “riflessi controversi” dell’interpretazione del Risorgimento sugli schermi sono lo specchio fedele delle contraddizioni latenti, delle fiammate e delle rimozioni, dei nodi irrisolti, delle speranze deluse, delle ferite aperte, delle divisioni persistenti della storia del nostro paese quando si confronta col processo fondativo della nazione italiana.

Foto tratta da

(Queste pagine sono in parte ricavate da un articolo pubblicato sulla rivista “Cinema Sessanta”, gennaio-marzo 2011. Una vasta trattazione della parabola del cinema dedicata al Risorgimento, ad opera sempre di Pasquale Iaccio, è contenuta in un libro in corso di stampa per la casa editrice Liguori di Napoli dal titolo “Antologia di Cinema e Storia”. Nell’antologia è contenuta anche una intervista al regista Mario Martone sul suo ultimo film Noi credevamo) .

Pasquale Iaccio
Docente di storia del cinema – Università di Salerno e Federico II di Napoli

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Pasquale Iaccio
Docente di Storia de cinema - Università di Salerno e Federico II di Napoli