Alessandro Moscé: L’età bianca, l’amore, il calcio e la morte.

Nel nuovo romanzo di Alessandro Moscé: “L’età bianca”, vi sono l’amore, la morte e il calcio, in particolare quello della Lazio. Moscé si misura, come ricorda il titolo, con quell’età innocente che è l’adolescenza. Un tempo irripetibile mentre intorno a noi si perdono pezzi della nostra vita scomponendo il complesso puzzle della nostra esistenza.

C’è una camera oscura, un dispositivo ottico nel romanzo di Alessandro Moscè, che permette di guardare oltre i fatti e le rivelazioni ad intermittenza. L’età bianca (Avagliano editore 2016) ha un obiettivo principale nella compartecipazione con l’altro e nella vivacità degli episodi: svelare la morte.

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Come in un movimento consapevole, partendo dall’amore, dalla Lazio (la grande passione dello scrittore), dai nonni, dalla suora delle elementari, dai medici in camice bianco, dalla malattia (Moscè da ragazzino è stato colpito da un sarcoma di Ewing), la tormentata acutezza e la misura dell’ambientazione, tra Fabriano, Bologna e Roma, è in ciò che non sappiamo mai del tutto. Dunque è la morte la pronuncia più ricorrente, tanto che Alessandro Moscè addirittura la fa apparire di carne, fino al punto che la sua amante, Elena, sembra la rappresenti: una sorta di veglia sull’impossibile, una parola frammista sì di voce, di braccia di gambe, di seni, di sesso, ma soprattutto di quell’attimo prima, l’istante che precede il taglio netto con l’esistenza terrena. Indietro non si torna, neanche nei funerali-spettacolo americani dove il rituale consente che il cadavere non sia sdraiato in una bara con le mani conserte, ma messo a sedere su una poltrona come se il soggetto fosse ancora in vita. Il tutto per rendere meno drammatica la liturgia religiosa dell’ultimo saluto.

Scrive Moscè: “Potresti essere proprio il destino, Elena, che va e viene. Mi hai trovato incolume a sedere sulla poltrona o a dormicchiare sul letto. Ti sei pentita, come farebbe una Madonna piangente”. Ma Elena è una donna o è l’aldilà? E’ la morte stessa, un’entità divisibile tra materia e spirito? E l’età bianca, cos’è? Questo lo sappiamo, senza doverlo immaginare, perché Alessandro Moscè a un certo punto lo dice esplicitamente.

E’ l’età più bella, l’adolescenza senza compromessi, quella che per il narratore segna il ritorno alla normalità, in chiave autobiografica, dopo la malattia. L’adolescenza come segno di purezza, come soprassalto della memoria, come animazione chiaroscurale nel racconto dei natali in famiglia, delle partite in bianco e nero, del centravanti della Lazio Giorgio Chinaglia che mandò a quel paese l’allenatore della nazionale durante un mondiale.

La parola di Moscè è inesausta, sintomatica, ma sembra guidata da un retrogusto. E’ una parola oscillante tra il bene e il male, tra il presente terreno e il tentativo di capire il cosmo. La morte, appunto, quella di Chinaglia, di nonno Ernesto, di zia Mariella, in un intrecciarsi di fisicità e di metafisicità. E quando arriva l’amore, l’eros, la scoperta del corpo, l’emotività messa a nudo, il confronto è breve. L’amore non dura, come non dura l’adolescenza. Moscè fa un’altra operazione in questo romanzo anomalo e seducente: aggiunge la cronaca contestualizzando il privato con il pubblico nel suo orientamento spazio-temporale.

Ecco che il 1983 è anche l’anno della sparizione di Emanuela Orlandi e dell’arresto di Enzo Tortora. I nostri giorni sono quelli del caso Ruby, dei governi precari, dell’abbattimento di un aereo di linea malese. Ma torna sempre l’oasi del pensiero, che può essere rinnovata nel giardino di Fabriano o a Villa Borghese, nella capitale del mondo dove volano i piccioni. Il male e il bene, in fondo, sono alleati inquieti, non si allontanano mai nello specchio duale.

Ma la corrosività di ogni esistenza, come di ogni cosa, inevitabilmente lo prevede: anche dietro i comportamenti simulati nel tempo, della notte infinita in un hotel, delle partite di calcio in cui si aspetta il goal di un attaccante con la casacca bianco-azzurra.

Pierfilippo Serrani

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