A proposito di “1914, Strettamente confidenziale”, del Gruppo Nanou.

Uno spettacolo-performance visto a Palazzo Rasponi durante Ravenna Festival 2014: Il gruppo ravennate Nanou si è esibito nel progetto “1914, Strettamente confidenziale”, un labirinto di azioni coreografiche e installazioni di arte visiva che la compagnia ha realizzato alla ricerca di una simbiosi con lo storico palazzo. Secondo i fondatori del gruppo, Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, il 1914 rappresenta il momento in cui è cambiato il modo di percepire e raffigurare il mondo, e che vede l’inizio degli studi di Freud, l’avvento del grammofono, il cinema di Georges Meliès, Gustav Klimt, Egon Schiele, Arthur Schnitzler, la nascita dell’espressionismo, l’intuizione del surrealismo, le foto di Brassai, l’arte di Hans Bellmer.

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Atmosfera ipnotica, oscurante, sinistramente avvolgente al discendere della notte nel palazzo dai marmi purpurei e bianchi, freddi e glaciali come sepolcri al tatto, nel palazzo austero, di antica foggia nobiliare lasciato a grandi stanze e corridoi spogli, di stucchi bianchi e affreschi rivestito, e grandi colonnati, lasciato all’austerità inumana della morte o di tutti i luoghi disertati del passato. Cosi’ appare immerso nel basso continuo d’un suono elettrico e ripetitivo, d’una singola nota dai mille eco diffusa nello spazio del labirinto scenico.

Qui, figure in livrea e maschere, sinistre figure attraversano e si dissolvono inghiottite dalla luce oltre la linea d’ombra dei corridoi: metafisici maggiordomi, servitori in uniforme di morte, freddi arbitri d’una partita a scacchi giocata altrove, gendarmi dell’assoluto, kafkaiani emissari in cilindro nero d’una sentenza d’esecuzione rinviata all’indeterminato.

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Aleggiano, passano, si manifestano e poi svaniscono attraverso il labirinto di azioni coreografiche lasciato agli spazi delle varie stanze-dimore. Presenze inquietanti si aggirano, anche, preannunciando l’arrivo imminente, il profilarsi all’orizzonte d’una grande deflagrazione; l’evento della Guerra, 1914 Strettamente confidenziale, nel titolo del lavoro aleggia sopra di loro non-visto, invisibile eppure focalmente presente nell’atmosfera, nelle sembianze, nelle intrusioni e negli attraversamenti delle figure metaforiche .

1914 Strettamente Confidenziale del gruppo Nanou è percorso, viaggio entro questo labirinto attraversato di figure, apparizioni, maschere e intermittenze che si animano nell’oscurità. L’avanguardia, di cui il 1914 compare nel lavoro dei Nanou come anno simbolico e punto focale, è vista come la distruzione violenta di codici obsoleti, estetici e non solo dall’interno dei salotti borghesi: l’impeto di forze innovanti e sovversive capaci di decostruire dall’interno una certa visione oggettuale della realtà di cui il cubismo produce un’immagine multiforme e frammentaria, sfaccettata e analitica dell’oggetto. Corridoi e antri oscuri si susseguono come visti attraverso una camera mobile al discendere dell’oscurità simili a cunicoli d’un labirinto e stanze aprendosi allo spettatore come installazioni visive o di danza; poi, sono le entrate e le uscite, le soglie, i passaggi, i movimenti subliminali dei danzatori-attori che, come figure astratte e impersonali incarnano le leggi proprie dell’ eros o d’una realtà psichica a loro interiore.

Un presenza impersonale, immota in uniforme e guanti bianchi si avvicina ricoprendosi d’una testa d’orso, d’una veste di animalità incarnata nel profilo dell’animale per eclissarsi in una delle stanze del palazzo. Porte si aprono, spiragli di luce e corridoi si disegnano attraverso l’oscurità del palazzo nobiliare; figure si aggirano spettrali, entrano ed escono dalle stanze-installazioni attraverso i loro accadimenti scenici.

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In un antro luminoso di porta o varco aperto dall’oscurità pervasiva del fondo, antro di coscienza irradiante di luce, accecante quasi, i danzatori compaiono, tracciano il loro piccolo segmento di cammino, iscrivono i loro segni e, insieme, il loro svanire o eclissarsi riassorbiti dal candore incandescente dell’effetto a vivo della luce, dal circuito elettrico cortocircuitando in quel punto. Figure si stagliano, e profili impersonali si disegnano, nel passaggio, nell’attraversamento, nell’indugiare su quella soglia luminosa di coscienza.

Danzano a passi lievi di tango la partitura d’un incontro, d’un dialogo o d’un passo a due con un partner invisibile; danzano con passi lievi, eleganti, leggeri e appena accennati. Entrano nel varco luminoso disegnati dal controluce tagliente del loro profilo in linee nette, nitide, di bianco su nero incise fino a scomparire riportati dentro l’effetto lucido e dissolvente d’una sorta di magnetico plenilunio .

Il profilo d’un corpo maschile in ombra contro uno schermo riflettente; una figura solitaria e elegante volge a noi le spalle, danza con passi lievi e raccolti disegnando cerchi, ellissi, invisibili figure concentriche in aria con le braccia o al suolo, aprendosi in questa ipnotica partitura musicale come farfalla imprigionata dietro un vetro traslucido e trasparente.

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Perché nelle installazioni di 1914 tutta e’ questione di cilindri, specchi, antri romboidali simili a « boudoir » o piccoli studi che divengono scatole cinesi aperte entro altre scatole–stanze, spazi segreti e arcani aperti entro quelli designati dai salotti borghesi o semplicemente tracciati dal cerchio di luce di un riflettore al suolo. Séparé in vetro divengono gabbie di vetro trasparenti. Questioni di teche o piccoli teatrini che si aprono dentro lo spazio dell’installazione-dimora e teatrini anatomici del corpo dentro lo spazio-teatro. E ancora, è questione di specchi, cristalli e rifrazioni dei medesimi, di lampadari, di marmi lapidari e interni di palazzi marmorei, di riflessi e figure allo specchio, di passaggi dall’interno all’esterno della psiche individuale, d’una parvenza, infine, di realtà oggettuale, decostruita insieme dalle intrusioni o presenze di corpi mossi da altre leve. Pulsioni primarie o esistenziali più antiche, precedenti o innate appaiono investite e messe a nudo come il risvolto interno dell’individuo nel suo margine inconscio e pulsionale; tale, la figura è decostruita nelle avanguardie all’inizio del xx secolo da forze che la spingono al limite del figurale, che la scompongono, la deturpano, la de-figurano nella propria linea e contorno, oppure la mostrano nella simultaneità, nella frammentazione, nella sintesi cubista della medesima.

Un anno dopo scoppiò la guerra e depredò il mondo della sua bellezza. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d’arte nelle quali incorse sul suo cammino. Infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste dalla nostra civiltà…insozzò l’alta imparzialità della nostra scienza, mise a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi dentro di noi che credevamo di aver debellato per sempre grazie all’educazione impartita dai nostri spiriti più eletti nel corso dei secoli. Ci depredò di molte cose che avevamo amato e ci mostrò la precarietà di altre che avevamo considerato durevoli” [[Sigmund Freud, « Caducità » p. 118 in 1914 L’anno che ha cambiato il mondo, E. Ravenna Festival.]] .

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Labirinto di azioni coreografiche attraverso le stanze.

Nel cerchio disegnato dalla luce elettrica d’un rosso vivo e sanguineo sul nero circostante, nel cerchio di luce elettrico stagliandosi violentemente, indaco nel controluce pervasivo del nero, una maschera femminile dal volto coperto appare; lugubre posizionandosi seduta al centro della scena, contempla in silenzio, immobile e muta la realtà circostante. La maschera in questa sua istanza altamente simbolica come immota presenza, preannuncia sinistramente la fine di un mondo, l’avvenimento imminente dell’esplodere della guerra, lo specchio infranto o la frattura aperta sulla superficie liscia e immota di quella realtà borghese e, insieme, l’avvento d’una coscienza mutata, lacerata, divisa di cui la Grande Guerra costituirà il sanguinoso rito di passaggio. Azioni sceniche cominciano a delinearsi intorno al cerchio tracciato dalla luce purpureo-elettrica: figure di uomini e donne entrano in pochi passi di danza, allungate, distese al suolo, ora raggomitolandosi a terra, ora rialzandosi all’improvviso. Escono, altre entrano in una partizione geometrica e rigorosa di azioni identiche ripetendosi fino allo svuotamento delle medesime. Al centro della scena un individuo in livrea comincia a scivolare dal seggio-poltrona, la sua figura scomposta come fosse mossa da interne forze destrutturanti, appare rovesciarsi pesantemente al suolo deflagrata, esplosa, i piedi al posto della testa. E’ manichino immoto di parti disgiunte- busto e cosce- insieme al mobilio capovolto, immerso in un rosso allucinante, violento e intrusivo.

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Più tardi una maschera nera, nero emissario di morte, si imporrà al centro di quella scena quale prefigurazione d’una grande entità del male avventandosi come le guerre e la distruzione, l’olocausto e l’ annientamento dell’umano nel xx secolo; illuminata d’un rosso elettrico e infernale sarà là a immagine d’una grande ombra oscurante dilagata sui ruderi smantellati della società positivista, razionale e borghese di fine xix secolo.

Dal cerchio magico, illusorio e ideale d’un interno fatto di marmi e rilievi di pietra, una lampada è puntata su un tavolinetto in vetro trasparente nel quadro immobile d’un divano e d’un tappeto con scarpe a tacchi alti lasciate ai suoi margini. E’ puntata su un interno nudo, sprovvisto di presenze umane, annunciato da una voce fuori campo ugualmente descrivendo l’equazione matematica d’una perdita in un labirinto senza via d’uscita. Scena di inquisizione o interrogatorio d’un tribunale immaginario, la forma è messa sotto accusa- imputato invisibile nel salotto- mentre il riflettore è puntato sul dettaglio d’un disegno astratto dove linee tangenti tracciate su un triangolo e altre forme geometriche ad esso intersecate disegnano il “percorso più lungo per accompagnare Ofelia dall’ufficio a casa ” , strategia annotata in margine da Fernando Pessoa.

Il percorso più lungo per non arrivare, per non-voler arrivare dove si era presunti dover arrivare, il percorso più lungo per volutamente smarrirsi, perdere le proprie certezze razionali e uscire da una percezione scontata di realtà tale che essa appare come dato di fatto razionale e incontestabile. Il percorso più lungo per attraversare dal cerchio illusorio d’un mondo borghese dall’ordine e l’ideologia costituita all’altro lato della specchio, nella fessura aperta attraverso la superficie, nel lato estraneo dell’io, a un altro livello di realtà, di coscienza o meglio nell’intuizione della sua parte inconscia di sogno e sintomo.

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Manichini immobili di fronte a un televisore a onde magnetiche disturbate, nessuna trasmissione, intermittenze, frequenze interrotte e passi solitari di danza, d’una danza invisibile e lieve nei passaggi brevi, illusori di figure stilizzate nel controluce dello spazio immerso nell’oscurità.

Scatole sceniche, antri si aprono dentro le stanze, l’io è visto costantemente su questa soglia tra la sua veste oggettuale, sociale e reale e il suo darsi nel risveglio istintuale di forze e pulsioni dell’eros, d’ una psiche perlopiù inconscia. Dentro il silenzio di questo grande albergo-dimora, il senso delle proporzioni perdute, l’attore si annuncia nel curioso progetto di “sognarsi e rendere percettibile un sogno che ridiventerà sogno in altre teste, nella mente di altre persone differentemente”[[Cfr Nanou, « Strettamente confidenziale » video su www.grupponanou.it/video.]]. Il senso del tempo oltre la sua nozione apparente di tempo storico e oggettivo appare dilatato e condensato enormemente come spazio mentale per essere portato all’esterno in puro spazio scenico, intimo e onirico nelle installazioni-danza.

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Una danzatrice ingigantita nelle proporzioni appare dentro questa gabbia-scena o minuscola scatola cinese compressa, deformata e espansa nello spazio stringente della gabbia sociale, benpensante e borghese in cui si trova contenuta. Una scatola scenica è aperta dentro una stanza di impronta decadente, un lampadario di cristallo al soffitto, un grammofono solitario di inizio novecento unico oggetto su un tavolinetto. La figura si offre a noi travalicando il confine tra sogno e realtà, in un attraversamento costante tra esperienza reale e spazio onirico della medesima, nel risveglio delle forze e delle pulsioni più vitali all’umano, in questa frattura aperta tra interno e esterno della psiche e rispetto al modello razionalista dominante. La sua danza appare come un paesaggio mentale attraversato dalle sue interne linee di cesura e, ancora, in questo rovesciamento tra corpo e mente, in questo corpo “acefano”, privato di testa e dato per pezzi, per parti disconnesse: cosce e busto, gambe e bacino. E’ corpo del desiderio mostrato attraverso le sue soglie di attraversamento e rimozione, corpo della pulsione inconscia, del risveglio dell’eros contro la gabbia del soggetto razionale e cosciente. La figura nella sua frammentazione e scomposizione, è corpo come riserva illimitata d’un potenziale energetico liberato, corpo come campo di forze contrastanti e campo di battaglia di tensioni opposte e sovrapposte: coscienza e inconscio, io e altro, forze di aggregazione e di distruzione esposte e esplorate dal lavoro performativo.

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Ancora negli interni di stanze vuote, nella plasticità delle linee dei divani su cui la luce rifrange nitida e tagliente, tra i tappeti e la luce soffusa delle lampade, tra i marmi e i camini di pietra sono queste immagini di specchi dove manichini e pezzi di corpi sono mostrati sulla suggestione di Hans Bellmer: divelti, senza più testa, ricomposti e sovrapposti in una grammatica astratta di segni e parti, di pezzi smembrati in desideri esposti. Una danzatrice discinta appare, rovesciandosi insieme alla forma plastica del divano, offrendosi nella sua sensualità esposta, progressivamente denudandosi, la camicetta e i capelli disciolti prima di scomparire. Gli specchi appaiono come metafore essenziali quali luoghi dell’unità infranta tra interno e esterno dell’io: specchi incrinati da cesure sulla superficie o finiti in frantumi in seguito a violente esplosioni storiche, una sola data il 1914; specchi visti per mettere a nudo la distorsione della figura nelle avanguardie o la frammentazione della percezione, per fissare l’autoritratto dell’estraneo, del lato sconosciuto dell’io, la fessura sulla superficie, l’alienazione o l’interrogativo esistenziale della coscienza moderna. Ci mostrano, ancora il risvolto interno del desiderio quale forza agente nell’uomo, in inizio xx secolo scoprendosi mosso da pulsioni esistenziali più antiche, innate o perlopiù inconsce.

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In un altro salotto ricostruito con perfezione plastica e formale, la distruzione agisce in modo sottile attraverso un dipinto di Egon Schiele cui fanno eco le azioni performative dei danzatori. Accostato al caminetto di marmo è posto là quasi a dischiudere una soglia altra della figura oltre il limite della barriera realista, nella sensualità esposta, nel disagio esistenziale messo a nudo dal pittore attraverso l’intensità espressiva del ritratto femminile. Nella stanza dentro uno spazio trasparente e romboidale quale antro dischiuso del corpo, ugualmente, varie figure femminili compaiono, si muovono, misurano quello spazio felinamente attraverso pochi passi. Un corpo si mostra di schiena nella sensualità della sua forma nuda, esposta al pubblico muovendosi in essenziali movenze espressioniste, illuminato dai sensi entro la teca trasparente del salotto borghese. Intensità espressiva, restrizione della figura e disagio esistenziale ad essa connessa, il corpo femminile è esposto come in Schiele nei suoi tratti taglienti, nella sua intensità esacerbata e contenuta entro uno spazio scenico ristretto, ritagliato e per questo tanto più investito di espressività.

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Nel paradigma di distruzione e creazione quali termini intorno ai quali si esplica l’avanguardia dei primi anni del xx secolo, il labirinto di azioni coreografiche e installazioni pensato per 1914 Strettamente Confidenziale agisce come percorso facendoci attraversare, ipnoticamente trattenendoci attraverso l’immobilità del marmo in questa dimora regale, deserta, dove aleggia l’atmosfera immota del tempo passato e una strana aurea di morte. Eppure, attraverso il percorso libero delle stanze, al suono ipnotico e ripetitivo del suo basso continuo, assistiamo, anche, al disgregarsi di quelle superfici formali, siamo come messi di fronte ad intermittenze ed intrusioni di presenze individuali, siamo come attirati e catturati dall’irrompere sulla superficie di questi spazi segreti del corpo, della psiche e dell’eros incarnati dai danzatori. Tali antri si fanno rivelatori di un’altra storia dell’io, di un’altra verità di quell’oggetto e soggetto insieme, li messo a nudo esponendosi e, ancora, lasciano udire il mormorio o il grido appena udibile dai ruderi infranti del mondo borghese.

Qualcosa dissolve sottilmente, qualcos’altro si crea simultaneamente, una crepa aperta su un muro ma anche l’immagine d’una porta o d’un antro luminoso alla fine d’un lungo corridoio. Una figura leggera si muove a passi lievi di danza mimando in un passo a due con un partner invisibile, metafisico messaggero dell’altrove, una qualche verità a noi sconosciuta dell’altro lato dello specchio per scomparire infine ed essere riassorbito dall’irradiazione luminosa della luce.

Testo di critica e scrittura creativa di Elisa Castagnoli

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Elisa Castagnoli
Nata a Ravenna ma viaggiatrice e cittadina del mondo Elisa Castagnoli si è laureata in Lingue e Letterature Comparate all’Università di Bologna proseguendo con un Master alla University of Toronto. Insegna lingua e civiltà inglese nella scuola secondaria di II grado, collabora con varie riviste letterarie on-line e scrive un blog personale sull’arte. Simultaneamente, segue la danza contemporanea nella sua connessione tra corpo, movimento e scrittura.

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