Vita precaria o precario a vita?

Le nostre società cercano di imbrigliare con ogni espediente politico e scientifico le nostre esistenze in una lotta senza quartiere alla precarietà economica ed esistenziale. Eppure, malgrado mille sforzi, il percorso di ognuno tende a perdersi in mille particolari, offrendo uno scenario di smarrimento in un mondo che sembra aver perso anche il senso della fiducia verso il prossimo. La precarietà sembra un demone invincibile e anche il ridurre i bisogni umani all’essenziale ha finito per rendere le nostre società forse più flessibili, ma probabilmente più fragili.

Riprendo il titolo di un convegno a cui ho partecipato, in qualità di relatrice, nel 2008, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Quello contenuto nel titolo mi sembra, tuttora, un interrogativo denso a livello degli individui e delle collettività. Riprendo la questione, provando ad approfondirla, ad introdurre nuove idee relative a più campi, senza la convinzione che esistano risposte definitive e/o soluzioni salvifiche, di aver trovato la conclusione di come stanno le cose.

Militarizziamo la città, eppure continuano i traffici illegali, gli omicidi della malavita.

Realizziamo strumenti di dominio sulla natura, eppure possiamo prevedere (fino ad un certo punto) ma non evitare le catastrofi (terremoti, maremoti, uragani, etc…).

Elaboriamo congegni per la tranquillità e la difesa nazionale, eppure non possiamo sottrarci ad atti di terrorismo.

Ci avvaliamo delle notizie provenienti da internet, dai mass media, eppure non siamo necessariamente preparati e capaci di decidere, forse solo più esposti.

Formuliamo piani di studio perché i bambini, sin dalla tenera età, apprendano le nuove tecnologie e una lingua straniera, affinché siano al passo con i tempi, malgrado ciò osserviamo, continuamente, bambini che non sono al passo con i propri tempi, che non sanno e possono più giocare se non con la realtà virtuale.

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Preannunziamo ammende ai medici di medicina generale nei casi di non oculata prescrizione di prestazioni sanitarie, pur tuttavia non li attrezziamo dei saperi tecnici e relazionali, non tanto per contribuire al contenimento dei costi della spesa sanitaria, quanto per interessarsi al paziente nella sua globalità, in modo da decifrare il significato racchiuso nella richiesta di un farmaco, di un esame clinico, di una visita specialistica. Scopriamo vaccini, costruiamo macchine di precisione per la diagnostica e la chirurgia, ciò nonostante la salute dei pazienti non è sempre assicurata ed il personale sanitario fa quali suoi complici il farmaco, le conoscenze tecniche ed informatiche anzichè allearsi con lo strumento più antico del mondo, la relazione.

Invochiamo l’installazione di telecamere in ogni dove e l’emanazione di «pene più severe» per far scomparire l’assenteismo sul posto di lavoro, la corruzione di politici e di amministratori, per evitare i maltrattamenti su bambini, donne, anziani, disabili fisici e psichici, per eliminare le infrazioni stradali e gli incidenti associati, la contraffazione alimentare, l’avvelenamento dell’ambiente, l’evasione fiscale.

Le apparecchiature accurate, il controllo invasivo, la logica coercitiva diventano gli espedienti per non confrontarsi con ciò che genera angoscia ed orrore, che è dentro ognuno di noi, in forma latente, come controparte misconosciuta. L’alieno, l’estraneo, il mostruoso, negati, ritornano ed irrompono prepotentemente. Perciò, per tenerli a bada, li si affida alla tecnologia e all’asetticità, vengono depositati nell’altro, che diviene “il” nemico, oggetto di offese o di indifferenza, o ancor peggio, oggetto inanimato, al quale, quindi, non occorre tutelare la vita.

La sofferenza psichica e fisica, la morte, la solitudine, l’insipienza, la delittuosità, la perdita riguardano tutti, nessuno è escluso.

Depenniamo l‘obbligo di fedeltà dalla legge sulle unioni civili con la dichiarazione pretestuosa di non volerle equiparare al matrimonio, ma perdiamo di vista che il concetto di fedeltà ha a che fare con l’osservare un patto, con il mantenere una promessa, non è tipico, cioè, dell’unione matrimoniale, ma tutte le relazioni umane (d’amore, d’amicizia, di lavoro, della politica, etc…) ne sono interessate e da esso discendono gli altri diritti e doveri che un legame comporta.
Ogniqualvolta, l’accordo tra due (o più) soggetti viene meno, ci si sente, per così dire, frodati. Nei cosiddetti rapporti “extraconiugali”, l’infedeltà diventa l’espressione della sensazione che è stato consegnato ad una specie di “rivale” quell’amore fatto di esclusività (e di tutto ciò ad esso connesso), che si era giurato di alimentare e difendere “per sempre”. Si rompe un patto! Tacito e dichiarato, fatto di parole urlate e di non detti.

Pensiamo alle formule patto sociale, patto educativo/formativo, patto di sangue, patto con il diavolo, patto leonino, patti chiari ed amicizia lunga, scendere a patti e così via discorrendo.

Pattuire significa collegare le parti, costruire un legame, del e nel quale la fiducia/fedeltà è il collante, l’aggregante.

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Riformiamo l’università, realizzando due cicli di studi, creiamo master di I e di II livello, corsi di perfezionamento e di specializzazione post-universitari, eppure ci troviamo immersi in contratti di lavoro part-time, a progetto, interinali, occasionali, intermittenti, di apprendistato, di inserimento professionale, stagionali, ecc…

Facciamo appello alla disponibilità di giovani e meno giovani a fare qualsiasi tipo di lavoro, con qualunque compenso/salario, con qualsivoglia orario, tacciando di indolenza o di scarso senso di realtà chi vorrebbe svolgerne uno in base alle proprie aspirazioni, ai propri interessi personali, agli studi che ha compiuto, alla pratica che per anni ha esercitato.

In quale angolo nascosto sono state relegate le funzioni identitarie e sociali del lavoro, identificate da anni di indagini e ricerche? E i diritti dei lavoratori, frutto di battaglie? Ci sono aziende, nelle quali, ancora adesso, non ci sono i sindacati. Questo non per fare un’apologia del sindacato in Italia, piuttosto per sottolineare l’impossibilità, in alcuni luoghi (nel 2016), di avere un ente che rappresenti – seppure formalmente – le parti in un rapporto di lavoro, un ente che contratti, stabilendo i dettagli di un’intesa che si vuole raggiungere.

In quale angolo nascosto è stato confinato il desiderio di diventare ciò che si è, di trasformarsi in ciò che uno è capace di diventare, di sentirsi amati, apprezzati, riconosciuti dagli altri, di occupare una posizione soddisfacente nel proprio gruppo sociale?

Il lavoro è un processo carico di significati simbolici individuali e collettivi. Il conseguimento di denaro, beni e servizi è solo una delle funzioni manifeste del lavoro, come indica la psicologa sociale Maria Jahoda (anni ’70), ma ci sono una serie di funzioni implicite che la propaganda politica italiana attuale si lascia, costantemente, sfuggire. Il lavoro organizza e struttura il tempo, fornisce una connessione tra mete individuali e scopi sociali, è una categoria interpretativa del mondo, è un luogo d’apprendimento della vita sociale. Solo per dirne qualcuna.

Pare che siano, invece, tornate in auge idee arcaiche che legano l’attività lavorativa alla pena, al dolore, alla dipendenza, allo sfruttamento.

Abram Maslow, uno dei massimi studiosi dei bisogni e delle motivazioni umani, negli anni ’50 del secolo scorso, ha individuato una piramide di bisogni umani – da quelli primari (o fisiologici) per arrivare a quelli che servono per realizzarsi compiutamente –, della quale è importante il concetto che l’uomo ha dei bisogni da soddisfare e, se non sono soddisfatti, non può progredire.

La ricerca di un lavoro “alla giornata”, dunque volto alla sopravvivenza immediata, giornaliera, se acquieta i bisogni primari (es. fame, sete, sonno), certamente non assolve alla soddisfazione né della necessità di assicurarsi un’occupazione di natura “fissa” – che consente di fare ciò che si desidera (sono un esempio il comprare nuovi vestiti, l’affittare/acquistare un appartamento, l’avviare un progetto di convivenza, di separazione dalla casa genitoriale, il viaggiare, ecc…) – né della necessità di svolgere un lavoro che arricchisca psicologicamente, in termini di aspettative future, di carriera, di competenze che possono essere sperimentate ed acquisite nel corso degli anni, in termini di auto-valutazione ed affermazione professionale.

Fare un lavoro temporaneo, se, da un lato, può essere un modo per mantenersi aperte più opportunità e garantirsi maggiori gradi di libertà, in quanto rende possibile continuare a progettare altro per il proprio futuro, dall’altro, può trasformarsi facilmente in un elemento di vulnerabilità, perché può indebolire la capacità di autodeterminazione della propria esistenza e rendere difficile la connessione di senso tra le varie esperienze vissute, impone comportamenti di risparmio assicurativo – che portano a voler accumulare sempre di più –, sovraccarichi di lavoro per proteggersi dall’eventualità di rimanervi un periodo senza, incarichi che si sovrappongono visto che, molte volte, i tempi si allungano e diviene tassativo lavorare molte ore al giorno per far fronte alle scadenze.

Se “il lavoro nobilita l’uomo” secondo un antico adagio, se “il lavoro mobilita l’uomo” come mostra la prima didascalia del film Il Vangelo secondo Precario (2005) [[Il film narra quattro storie di ordinaria flessibilità, che si concatenano nell’arco di ventiquattrore: a Dora, stagista alla Zenzero Tv da due anni, vengono rubate le idee; Franco, agente finanziario per vivere, riceve una proposta per la pubblicazione del suo libro, essendo un aspirante scrittore, ma non potrà dirsi un uomo felice; Mario è un avvocato che aspetta di poter diventare socio di uno studio legale e scopre quanto costi oggi far parte di “quelli che comandano”; Marta sta facendo indagini per conto dell’Istat riguardo al precariato giovanile. Su tutti vigila Sandro Precario, un pugile morto per sbaglio, delegato da San Pietro all’archiviazione delle preghiere dei precari, che giungono ogni giorno.]] del regista Stefano Odino, lo stato attuale delle cose lo rende “precario”.

Il vocabolo “precario”, dal latino Precarius, deriva da prex precis “preghiera”: ha a che fare con qualcosa “ottenuto per preghiera”, “concesso per grazia”. La questione centrale è che, attualmente, il lavoro incerto e provvisorio, che può subire, da un momento all’altro, un cambiamento (non necessariamente migliorativo), è dato da uno scenario politico-economico in cui si lavora con permissione. Il lavoro non dura sempre, ma quanto vuole (in maniera, più o meno, arbitraria) il concedente – al quale deve essere, prima o poi, restituito –.

La flessibilità degenera in precariato e la stabilità è solo un flusso continuo di occupazioni temporanee.

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Perfino, i professionisti, specialmente quelli che svolgono la libera attività, si identificano con l’identità di precario – con l’aggiunta degli oneri della partita IVA –, non solo per il rischio tangibile di fallimento costitutivo dello statuto di lavoratore autonomo, ma perché costretti a svolgere lavori che, spesso, non corrispondono alla loro preparazione o alle loro aspettative, a seguire finanche determinati orari di lavoro, come fossero regolari dipendenti che si recano sul luogo di lavoro tutti i giorni, senza avere in cambio, però, quella credibilità ed affidabilità economica che farebbe ricevere il “sì” da una banca alla richiesta di un prestito o di un mutuo.

I contratti di lavoro che non assicurano continuità nel tempo minano l’indipendenza economica e psicologica, dovendo fare affidamento sulla famiglia di origine e sul partner, la condizione di disporre del proprio tempo libero, la possibilità di percepirsi in un’ottica evolutiva in senso professionale, poiché accade che, quando si cambia lavoro, la nuova realtà non sempre tenga conto del patrimonio di conoscenze ed esperienze, del livello salariale ottenuto, dell’anzianità professionale.

Siamo «in bilico sul filo di un rasoio» (da “Estate” dei Negroamaro). Probabilmente, viviamo in una stagione storica, politica, economica, sociale e culturale, in cui il rischio di tagliarci è proporzionale al cedimento di quei contratti (inconsci), che intervengono nella strutturazione della psiche individuale e dello spazio psichico condiviso, fondanti la capacità di assettarsi e riassettarsi senza collassare, l’opportunità di trovare una propria collocazione nell’ambiente familiare e sociale senza la perentoria realizzazione degli impulsi.

Ci troviamo in un’epoca, in cui la sicurezza assoluta (assenza totale di pericoli fisici e/o psichici) non solo è un concetto difficilmente traducibile nella vita reale, ma, verosimilmente, nemmeno auspicabile. È difficile stabilire che un’azione non produrrà, in alcun modo, effetti indesiderati, per di più può accadere che non si tengano in giusta considerazione eventuali danni non previsti.

La parola ‘sicurezza’, dal latino “sine cura”, significa “senza preoccupazione”; pertanto, vivere in sicurezza equivale, senz’altro, a vivere senza pensieri che occupano la mente determinando uno stato di inquietudine, ma anche e soprattutto vivere senza sollecitudine a guardare oltre la propria visuale, ad ascoltare oltre la propria lunghezza d’onda, a prendersi cura di ciò che sta facendo.

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Sarebbe interessante mettere a punto spazi e tempi, nei quali ciascuno possa recuperare la narrazione del proprio percorso di vita e del percorso di vita in comune con gli altri, riappropriandosi dei frammenti lasciati in giro, senza rinunciare ai rischi piuttosto imparando a valutarli, a tenere presente, in altre parole, i guadagni e le perdite derivanti da una decisione, dal taglio che si vuole dare alla propria vita, dalla propria Weltanschauung .

Le persone, per proteggere la “stabilità” mentale, si rifiutano di guardare in faccia i problemi, i rischi, arrivando addirittura a non riconoscere che ve ne siano. Le difficoltà, gli errori, i rischi restano a lungo celati e sottovalutati, senza che sia possibile prendere appropriate misure per affrontarli e per ridurli. Il futuro può risolversi in uno sviluppo o in una rovina a seconda del tipo di intervento che si sceglie di attuare, a seconda della disponibilità ad accettare, in prima persona, responsabilità e conseguenze di un’affermazione e di un’azione.

I problemi umani non possono essere risolti isolatamente. L’indifferenza, per Eugenio Borgna, è «la malattia più crudele e inesorabile della vita psichica», in quanto ostacola una sincera relazione con il mondo delle persone e delle cose.
«…si forma una comunità di destino, […] quando ciascuno di noi sappia sentire e, vivere, il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza, dell’altro come se fosse, almeno in parte, anche il nostro destino: il destino di ciascuno di noi» (Borgna E., Elogio della depressione, pag. 105)

I problemi umani possono essere risolti attraverso la fondazione di un patto koinonico, un contratto di solidarietà ed amicizia (su cui ho insistito già in altri scritti), che porta ad una comunione di risorse, mobilitandole e non ‘precarizzandole’. È un accordo, che fa uscire da una condizione di inoperosità anonima per intraprendere un lavoro, mediante il quale gli individui collaborano tra loro per modificare il senso del mondo, senza aver paura della non certezza, dell’incertezza. È un’alleanza, nel quale l’aggressività è forza che contribuisce alla creazione di legami, è cammino in avanti singolare e plurale – come suggerisce l’etimologia “ad-gredior” –, senza alterarsi in distruttività, diretta, al contrario, a disfare ciò che è stato costruito, ciò che esiste, ciò che è vitale e desiderabile.

Felicia Tafuri

Da Napoli

(Psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista)

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