Un libro Una città. La scelta di Giovanni Graziano Manca. Ai lettori di Altritaliani scelgo di segnalare il racconto che nel 1952, anno della sua pubblicazione per Einaudi, fece uscire lo scrittore esordiente Beppe Fenoglio dall’anonimato, “I 23 giorni della città di Alba”. È un racconto che periodicamente rileggo, ruvido, diretto, struggente, in qualche modo, studiato per la prima volta ai tempi delle scuole medie, poi ripreso alle scuole superiori e perfino all’università.
Fenoglio ad Alba ci era nato (sarebbe morto prematuramente a Torino, nel 1963) e conosceva bene la città e, per essere stato partigiano, le dinamiche della lotta resistenziale; si spiega almeno in parte così, credo, questa accorata visione (che sta a metà strada tra realtà e finzione letteraria) di una città martoriata dalla lotta tra fascisti repubblichini e partigiani che si concluse il 2 di Novembre del 1944. Conquistato il 10 ottobre dello stesso anno dai partigiani, il grosso centro piemontese tornò sotto il controllo della Repubblica Sociale Italiana, appunto, ventitré giorni dopo.
Alba, in provincia di Cuneo, conta oggi oltre trentamila abitanti e rappresenta il centro più rilevante delle Langhe per numero di abitanti e per floridezza economica. Durante la seconda guerra mondiale vi si costituì la prima repubblica partigiana e rappresentò il fulcro delle attività della Resistenza contro i nazifascisti; oggi è città decorata con una medaglia d’oro al valore militare. Nel suo racconto, una delle perle dell’Italia letteraria novecentesca, Fenoglio dimostra di avere grande personalità stilistica e un linguaggio del tutto originale. Sono punti di vista narrativi verosimili, quelli fenogliani. Essi avvicinano la trama letteraria, venata di pessimismo e scevra da qualsiasi rigurgito di ideologia e di inutile eroismo, ai fatti che concretamente e per più aspetti caratterizzavano le lotte partigiane. Non a caso Davide Lajolo, deputato comunista dal 1958 al 1972 e anch’egli, a suo tempo, partigiano appartenente alla Brigata Garibaldi, bocciò sull’Unità il racconto di Fenoglio: «Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto […] Stupisce che un editore come Einaudi pubblichi roba del genere, con partigiani che stanno tra la caricatura e il picaresco». Negli anni Settanta Lajolo rivide la sua posizione polemica nei confronti di Fenoglio, scrittore neorealista tra i maggiori autori italiani del secolo scorso.
Giovanni Graziano Manca
Testo:
“Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944. […] Fu il Comandante la Piazza a dare il segno della ritirata, sparò un razzo rosso che descrisse un’allegra curva in quel cielo di ghisa. Parve che anche i fascisti fossero al corrente di quel segnale, perché smisero di colpo il fuoco concentrato e lasciavano partire solo più schioppettate sperse. Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.
Qualcuno senza fermarsi raccattò una manata di fango e se la spalmò furtivamente sulla faccia, come se non fossero già abbastanza i segni che era stata dura. È che la via della ritirata passava per dove la città dà nella campagna: li c’erano ancora molte case e si sperava che ci fosse gente, donne e ragazze, a vederli, a vederli cosi. Ma quando vi sbucarono, nel viale del Santuario quant’era lungo non c’era anima viva, e questo fu uno dei colpi più duri di quella terribile giornata. Soltanto, da una portina uscì una signora di più di cinquant’anni, al vederli scoppiò a piangere e diceva bravo a tutti man mano che la sorpassavano, finché da dietro un’imposta il marito la richiamò con una voce furiosa. Tagliarono il viale del Santuario e andando contro l’acqua che ruscellava giù per la stradina, attaccarono a salire la collina di Belmondo che è il primo gradino alle Langhe. A mezza costa si fermarono e voltarono a guardar giù la città di Alba. Il campanile della cattedrale segnava le due e dieci. Gli arrivò fin lassù un rumore arrogante, guardando a un tratto scoperto di via Piave videro passarci due carri armati, e poi altri due, ciascuno con fuori dell’orlo una testa con casco. Oh guarda, così avevano i carri e non li hanno nemmeno adoperati. I partigiani ripresero a salire, era spiovuto, i fascisti entrarono e andarono personalmente a suonarsi le campane.”
Beppe Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba, Super ET Einaudi
Sinossi: «I ventitre giorni della città di Alba, rievocanti episodi partigiani o l’inquietudine dei giovani nel dopoguerra, sono racconti pieni di fatti, con una evidenza cinematografica, con una penetrazione psicologica tutta oggettiva e rivelano un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile, asciutto ed esatto», Italo Calvino.
Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e speranze impossibili. Con quel suo linguaggio preciso e vero Fenoglio scrive per penetrare il “mistero” della spietatezza dei rapporti umani.