Dopo l’avvio della Grande guerra, gli italiani si divisero subito in due gruppi: coloro che volevano che la neutralità fosse mantenuta sino alla fine della guerra, e che perciò si dicevano neutralisti, e coloro che chiedevano l’intervento a fianco dell’Intesa antigermanica, e che perciò si dicevano interventisti.
Nelle sue “Lezioni di Harvard”, redatte intorno al 1943 negli Stati Uniti, Gaetano Salvemini descrisse la complessità e l’eterogeneità dei due schieramenti. Un certo numero di conservatori, che si raccoglievano intorno al più importante quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, si dichiararono a favore dell’intervento contro l’Austria e la Germania.
La grande maggioranza dei deputati, senatori e giornalisti influenti prese un atteggiamento di prudente attesa. Non appena il governo ebbe dichiarato la neutralità, i nazionalisti si spogliarono di ogni entusiasmo per la Triplice assumendo un atteggiamento di riserva. Ma quando, nel settembre del 1914, l’Austria subì le prime sconfitte e l’avanzata tedesca venne fermata, cominciarono ad invocare la guerra contro l’Austria e la Germania. Nella loro grande maggioranza, i cattolici si dichiararono a favore della neutralità.
L’Impero austro-ungarico era la sola grande potenza europea la cui dinastia fosse fedele alla Chiesa cattolica e in cui il clero cattolico godesse di una situazione di privilegio. La vittoria dell’Intesa antitedesca avrebbe portato vantaggio alla Russia e alla Serbia, cioè a paesi in cui era dominante la religione greco-ortodossa.
Tra i radicali e i socialisti riformisti emerse alla fine un vivo spirito interventista. Il governo italiano doveva intervenire nel conflitto con un programma di giustizia per tutti i popoli. Ciò avrebbe rinforzato le correnti democratiche e anti-imperialiste e avrebbe contribuito a preparare una pace duratura.
Come ha scritto online Massimo Bordin su Il Foglio il 25 agosto, sul referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre si dovrebbero anzitutto fare considerazioni sul merito. Ma poi non si possono ignorare gli schieramenti in campo e riflettere sul modo in cui gli italiani si dividono. Il fronte del No è eterogeneo, vi sono rappresentate posizioni inconciliabili. Questo può accadere, ci dice Bordin, così come è accaduto con la cosiddetta legge truffa nel 1953 che non scattò grazie ai voti ottenuti dai comunisti e dai fascisti. L’obiettivo comune era quello di evitare che la Democrazia Cristiana godesse di un forte premio di maggioranza.
Tuttavia oggi la situazione è diversa. Il No accomuna Sinistra italiana, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Movimento 5 Stelle e anche una parte del partito di Renzi. Un arco politico talmente ampio, sottolinea Bordin, che rende difficile considerare il No come un voto contro il sistema.
Per conto dell’Agi, il 24 ottobre Andrea Cauti ha riportato le indicazioni di voto e gli endorsement più o meno espliciti a favore del Sì oppure del No. Sono un garbuglio. Roberto Benigni ha dichiarato che se vince il No è peggio del voto sulla Brexit. Sono d’accordo con lui due scrittori nazional-popolari come Federico Moccia e Susanna Tamaro. Ma anche due filosofi diversamente raffinati come Umberto Galimberti e Angelo Bolaffi. Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha schierato gli imprenditori per il Sì. La stessa scelta è stata fatta dai più noti amministratori delegati d’Italia: Marco Tronchetti Provera, Pirelli; Mauro Moretti, Finmeccanica; Sergio Marchionne, FCA; Claudio Descalzi, ENI. Parrebbe delinearsi un fronte pro-sistema. Ma uno sguardo al fronte del No mina questa certezza.
Di primo acchito pare presidiato da forze del mondo dello spettacolo. Si va da Toni Servillo a Maurizio Crozza. Non mancano, ovviamente, gli intellettuali di grido come il filosofo Gianni Vattimo, il matematico Piergiorgio Odifreddi, l’archeologo e storico Salvatore Settis, il filologo e storico Luciano Canfora. Tuttavia, non si può omettere di ricordare quel plotone che Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del 16 ottobre ha definito “reduci della Prima Repubblica”. Senza fare troppa ironia, colpisce che Massimo D’Alema sia riuscito a mettere insieme a difesa della Costituzione Paolo Cirino Pomicino e il suo antico rivale Ciriaco De Mita, così come sia riuscito a fare andare d’accordo i figli di Bettino Craxi, Bobo e Stefania.
Nel 1914 il governo italiano decise di vedere come andavano le cose prima di prendere una decisione in merito al da farsi. Alla fine Roma decise nella convinzione che la guerra sarebbe stata breve. Così non fu e ciò provocò una lacerazione sociale da cui ebbe origine il fascismo, benché l’Italia ottenne dalla guerra quasi tutto ciò che chiedeva per completare il suo Risorgimento.
Se oggi si recassero in massa alle urne il 4 dicembre, molto probabilmente gli italiani lo farebbero per dire No. Chi risponde ai sondaggisti assicura che andrà a votare. Ma tra questi c’è un terzo che si dichiara per il Nì e che, alla fine, potrebbe aggiungersi a quelli che rispondono ai sondaggisti: ‘so’ di fretta’. Insomma, il fronte dell’astensione o dell’annullamento del voto potrebbe essere maggiore di quanto affermano i sondaggisti.
Tuttavia, a prescindere dalle considerazioni sul merito del quesito referendario se prevalesse il No allora vi sarebbe un terremoto politico che solo l’imminente natale di dannunziana memoria potrebbe contribuire ad attenuare. Molti sostengono che se gli italiani non si recheranno in massa alle urne con sacro egoismo, allora molto probabilmente prevarrebbe il Sì. Sarebbe un modo per evitare la temuta instabilità. Ma temuta da quanti?
Comunque andrà, aveva ragione Perry Anderson quando descrivendo il paese da Berlusconi a Renzi sulla London Review of Books del 22 maggio 2014, in un intervento intitolato The Italian Disaster, concluse che l’Italia non è e non è stata un’anomalia in Europa, come si è creduto per lungo tempo, ma il luogo dove si sono concentrate prima che altrove le anomalie europee.
Emidio Diodato
Politologo, docente Università per stranieri di Perugia