Giancarlo Alfano insegna Letteratura italiana alla Seconda Università di Napoli ed è uno dei più significativi studiosi di Boccaccio. In questo 2013, con Amedeo Quondam e Maurizio Fiorilla, ha licenziato una nuova edizione commentata del Decameron. Un primo bilancio delle iniziative di questo Centenario, una riflessione su cosa significhi commentare Boccaccio, l’indicazione di alcune novelle dalle quali iniziare una lettura del capolavoro boccacciano, le prospettive future degli studi su questo autore: sono alcune tematiche che emergono da questa ampia intervista.
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Giovanni Capecchi: Il 2013 è l’anno di Boccaccio. Le iniziative, già avvenute o previste, appaiono numerose e diversificate. Si va da convegni a riscritture in lingua contemporanea del Decameron, da nuove importanti edizioni a iniziative lanciate in rete, come quella promossa dalla Società « Dante Alighieri » per riassumere ogni novella del capolavoro di Boccaccio con un ‘twitter’ di centoquarantaquattro caratteri. Tu che hai sotto gli occhi il quadro delle iniziative – molte delle quali ti coinvolgono direttamente – potresti fare una rapida panoramica di ciò che sta avvenendo e avverrà nelle prossime settimane, in Italia e fuori d’Italia, per questo anniversario?
Giancarlo Alfano: Direi che ci sono tre livelli da tenere in considerazione, tutti piuttosto attivi. C’è la proposta di letture e spettacoli tratti dal Decameron e dalle opere minori di Boccaccio: tra le cose particolari, segnalo soltanto la lettura della “lettera napoletana” che l’autore e attore napoletano Enzo Moscato ha fatto proprio in questi giorni a Napoli. C’è poi l’iniziativa dei mass-media, e devo dire soprattutto di Radio Tre Rai, che sta dedicando una serie di incontri di presentazione del Decameron il sabato pomeriggio alle 18, che ha dato spazio a una serie di letture nell’ambito di Fahrenheit e che, infine, ha previsto uno speciale che andrà in onda per Radio Tre Suite. L’ultimo livello riguarda l’attività propriamente scientifica, con convegni, conferenze, edizioni di testi, pubblicazioni di studi.
A questo proposito, mi fa piacere ricordare il nuovo libro di Marco Cursi, che è un paleografo, su La scrittura e i libri di Giovanni Boccaccio (uscito il 23 ottobre), e quello annunciato da Renzo Bragantini (tra i massimi studiosi della tradizione novellistica italiana).
Se si può provare a fare una prima sintesi, direi che risaltano due aspetti a mio avviso importanti. Il primo è che il Centenario sta dimostrando che, nonostante l’oggettiva distanza linguistica del Decameron, la lettura in viva voce, e soprattutto la lettura in presenza (cioè la performance di lettura) è ancora estremamente efficace per l’apprezzamento (posso dire: il godimento, o esagero?) dell’opera di Boccaccio. Il secondo, più per gli studiosi, riguarda il felicissimo intreccio di saperi filologici e materiali con la cornice interpretativa: si tratta di una caratteristica spiccata della tradizione degli studi italiani, che mi pare stia dando frutti importanti proprio per l’opera di un autore che ritenevamo ormai saldamente inquadrato dentro una serie di griglie ermeneutiche, e che invece si sta rivelando assai più intrigante, se non addirittura inquietante.
G.C.: Tra le iniziative editoriali più importanti deve essere ricordata la nuova edizione del Decameron, curata da te, da Amedeo Quondam e da Maurizio Fiorilla, edita in questo 2013 da Rizzoli, con un accattivante prezzo di copertina:
18 euro per oltre 1.800 pagine. Prima di parlare dell’impostazione di questa edizione, vorrei chiederti in che modo vi siete divisi i compiti, come curatori, e quando avete iniziato a lavorare a questo libro.
G.A.: Abbiamo lavorato per circa due anni, dividendoci i compiti in maniera chiara: Fiorilla preparava il testo critico, Quondam faceva le note di comprensione del testo, io le schede di tipo interpretativo. Il lavoro, ovviamente, è stato complesso: Fiorilla è anche tornato in Germania per un mese al fine di controllare il testo ancora una volta direttamente sull’autografo, e intanto tra tutti e tre noi giravano mail con sollecitazioni e richieste di comprensione. Tieni conto che non c’è nemmeno un brano, nemmeno una parola che nella nostra edizione non sia spiegata o per la quale non ci sia almeno un tentativo, con discussione, di spiegare il significato. Durante il lavoro sono poi nate altre idee, come anche è ovvio: così Quondam ha pensato di fornire quel preziosissimo indice finale, con le famiglie semantiche delle parole che più spesso appaiono nel testo; così, ma in maniera meno evidente, io ho provveduto a rendere più visibili certi aspetti di costruzione del libro, facendo filtrare nelle schede delle indicazioni più estensive (si leggono all’inizio della giornata).
Devo dire che il confronto quotidiano, da una parte con un maestro di lunga esperienza come Amedeo Quondam, e dall’altra con un filologo e storico della lingua agguerrito quanto pronto a incrociare dati filologici con questioni interpretative, è stata un’esperienza molto divertente, e molto formativa (nonostante i miei quarantacinque anni, credo ci si continui a formare per tutta la vita…).
G.C.: Quasi all’inizio dell’Introduzione, Quondam scrive: «(…) è di immediata evidenza che le competenze linguistiche e culturali medie di chi parla legge scrive capisce l’italiano sono radicalmente mutate negli ultimi cinquant’anni: sulla base di questa ordinaria esperienza (…) è stato prioritario progettare un’edizione del Centenario che assumesse consapevolmente questo nuovo standard di lettore come parametro di riferimento per le note e i corredi paratestuali». Si può dire che l’intento della vostra edizione sia proprio quello di tenere insieme da un lato la scientificità, la cura filologica, l’aggiornamento interpretativo e, dall’altro lato, le esigenze di un pubblico non di esperti e di studiosi, ma di lettori e di studenti? Anche tu, poco fa, hai parlato del fascino del Decameron letto a voce alta (e della sua forza comunicativa), ma anche dell’ “oggettiva distanza linguistica” di questo grande libro…
G.A.: Abbiamo sempre tenuto conto della sede editoriale. Pubblicare un commento a un grande testo letterario del passato all’interno di una collana di grande distribuzione significa dover utilizzare nella maniera più efficace possibile gli strumenti del lavoro interpretativo e filologico, volgendoli al consumo del grande pubblico. E allora occorre fare precise scelte di ordine comunicativo, sempre nel rispetto del testo che si vuol far circolare.
Nel nostro caso, il Decameron è un testo di immediata comprensione per quanto riguarda le strutture narrative, tanto che si è prestato nei secoli a riscritture e adattamenti di vario genere. Al tempo stesso, è un’opera che appartiene a un sistema culturale assai diverso dal nostro, per cui è necessario tentarne una mediazione attenta e direi anche sagace. Faccio un esempio, se non si spiega l’organizzazione urbana di Firenze, è impossibile capire alcune novelle, soprattutto quelle di beffa, in cui l’orizzonte conoscitivo, quello comportamentale e quello concretamente spaziale tendono a coincidere.
Quel che scrive Quondam impone però anche un’altra riflessione, che riguarda il nostro lavoro oggi, nel 2013 e nei prossimi anni. Tanti si lamentano spesso della “mutazione antropologica” dei giovani. Io non so in che senso ci sia questa mutazione, e se sia possibile davvero parlare di una cosa del genere. Osservo però che i “nostri” giovani, cioè quelli che arrivano all’Università oggi, non sono più tutti uguali: la scuola è infatti cambiata, e gli ordini scolastici seguono da qualche tempo percorsi differenziati. Per dirla tutta, non è più vero che tutti coloro che hanno superato l’Esame di Stato conoscono i rudimenti della storia letteraria, in quanto questa storia non si studia più ovunque (per esempio negli istituti professionali). Data questa nuova situazione, e data la forte presenza di studenti che provengono da famiglie di cultura diversa da quella italiana, è evidente che chi lavora nel campo della letteratura, della storia letteraria e della interpretazione letteraria deve ormai porsi il problema di una mediazione estesa ed estensiva, collaborando con gli storici della lingua, coi filologi, con gli storici e gli antropologi.
G.C.: Come è stata accolta la vostra edizione del Decameron? Quali sono state le recensioni più significative al volume? Sono nate discussioni, tra gli studiosi, a proposito delle scelte da voi effettuate in questa edizione di grande divulgazione? E avete qualche dato riguardante le vendite del libro a pochi mesi dalla sua pubblicazione?
G.A.: I dati precisi sulle vendite complessive (nei formati elettronico e cartaceo) saranno noti soltanto il prossimo aprile, però si può dire che il “nostro” Decameron è andato in ristampa a cinque settimane dall’uscita: un fatto interessante, soprattutto perché in linea coi buoni risultati che stanno avendo le edizioni Bur in collaborazione con l’Associazione degli Italianisti. Sottolineo questo aspetto perché è significativo che un grande editore stia osservando la continuità di vendita di opere che presentano un importante apparato esplicativo e interpretativo. Ciò vuol dire che nel mondo universitario ci si è accorti che si tratta di uno strumento necessario per fare lezione. Ma vuol dire anche che una presentazione, ricca ma sobria, attrae anche altri lettori.
Le recensioni di tipo giornalistico, quindi rivolte a un pubblico indifferenziato, sono state buone, e a volte molto lusinghiere. Siamo adesso in attesa delle recensioni scientifiche, che credo appariranno a partire dalla fine dell’inverno. Sarà un momento importante per ragionare anche sull’altro aspetto del nostro impianto di lavoro: la revisione filologica del testo e il complessivo sistema ermeneutico.
L’unica osservazione negativa che fin qui ci è stata rivolta riguarda la scarsa attenzione nei confronti delle “fonti”. È una questione complicata, ma al tempo stesso interessante. Mi limito a osservare che in effetti abbiamo riservato le notazioni sulla intertestualità ai cappelli introduttivi, evitando di farle filtrare nelle note a piè di pagina. Ciò può essere un indebolimento dell’apparato introduttivo. Ma solo se crediamo che il discorso delle fonti sia fondamentale per la comprensione del Decameron, cosa sulla quale ho molte riserve: è necessario comprendere il sistema dei riferimenti (per esempio la presenza di Dante, o le allusioni al conflitto tra cultura laica e culture religiose), ma non sono affatto convinto che far emergere l’a volte anche fitta trama intertestuale sia davvero indispensabile per una edizione commentata del capolavoro di Boccaccio.
G.C.: Il sito italo-francese Altritaliani ha deciso di dedicare un mensile a Boccaccio anche per invitare alla lettura o alla rilettura di questo autore, partendo dalla convinzione che il modo migliore per omaggiare gli scrittori, tanto più in occasione di importanti anniversari, sia quello di leggere le loro pagine. Se tu, che da anni ti occupi di Boccaccio, dovessi indicare tre novelle del Decameron dalle quali partire per una lettura (o rilettura) di questo libro, quali sceglieresti? e perché?
G.A.: Questa è forse la domanda più difficile. Innanzitutto perché mi costringe a scompaginare il libro. Il Decameron è infatti un’opera che si vuole fortemente presentare come “libro”, come unità di significato. Per questa ragione, scegliere un’antologia significa sovvertirne un principio basilare.
D’altra parte, è vero che nei secoli è sempre stata fatta una selezione, a partire da Petrarca, che traducendo in latino la novella di Griselda, secondo me con grande consapevolezza e perfidia, sabotò il progetto boccacciano di dare autorevolezza letteraria alla narrazione breve in lingua volgare.
Se ho tre novelle a disposizione, allora proporrei due grandi classici e una “new entry”:
I 1: ser Cepparello/san Ciappelletto, ma compresa la premessa di Panfilo, perché la grande performance del notaio criminale è tutta dentro la prospettiva mondana; imbrogliare un confessore fino a crearsi fama di santo è una grande impresa retorica, ma la retorica è di questo mondo qui, lavora sull’opinione, non mira alla verità. Da questo punto di vista la prima novella del Decameron è davvero esemplare di tutto l’impianto concettuale (e io direi: ideologico) dell’opera: agire qui, nel sistema dell’opinione.
IV 5: Lisabetta e il suo silenzio che diventa in coda di novella il canto straziato di una canzone; sappiamo che a questa novella è dedicato un libro che è stato imprescindibile per chi, come me, si è formato negli anni ottanta del Novecento: Il testo moltiplicato curato da Mario Lavagetto; ebbene, il testo può ancora essere moltiplicato, interpretato, spiegato (ma nel rispetto delle “pieghe” che lo caratterizzano e ne fanno quella precisa individualità che è), proprio a partire dal progressivo ammutolire della povera giovane (costretta al silenzio dalle ragioni sociali, e “di mercatura”: altro che epopea…, che diventa alla fine testimonianza corale (che è poi quella degli stessi vicini che si accorgono del pallore della giovane e ne avvisano i fratelli). “Inventando” la storia che sarebbe alla base di una canzone effettivamente conosciuta dal pubblico di allora, Boccaccio fornisce inoltre un’importante indicazione sul modo in cui funziona il libro nel suo rapporto con le fonti: spesso “inventate”, cioè reperite in una commistione di testi (orali e scritti) precedenti (si veda il caso di VII 1, la novella di monna Tessa e Gianni Lotteringhi, col magnifico gioco sulle differenti versioni dello stesso pettegolezzo).
La nuova entrata, infine, è la novella I 5, dove la marchesana di Monferrato riesce a sviare l’aggressività del re di Francia con un bon mot che è prima di tutto l’espressione di una grande capacità di regia. Il lettore di queste righe torni al testo, vedrà la sagacia della donna, la sua capacità di comprendere le vere intenzioni del suo antagonista a partire da pochi indizi, e infine l’abilità nel fare in modo che sia proprio l’antagonista, il potente re di Francia, a nominare lo scopo celato delle sue attenzioni. Il lettore apprenderà così che l’arte della buona cucina è sempre anche un’arte del bene parlare.
G.C.: A settecento anni dalla nascita di Boccaccio, con decine e decine di importanti studi sull’autore del Decameron, remoti nel tempo ma anche recentissimi, ci sono ancora spazi interessanti nei quali può muoversi la critica? E tu, in particolare, hai in programma altri lavori su Boccaccio?
Innanzitutto ricordiamo che della formazione di Boccaccio sappiamo pochissimo; anzi, sappiamo solo quello che lui stesso ha raccontato. Ogni ricostruzione si è pertanto dovuta attestare sulle dichiarazioni dell’autore, che non sempre appaiono credibili. Negli ultimi anni abbiamo lavorato in équipe a un progetto chiamato “Boccaccio angioino” per tentare una definizione più accurata dell’ambito di riferimento iniziale del grande scrittore, che ci appare oggi un po’ meno “fiorentino” e un po’ più “napoletano”. Su questa linea credo si possa andare avanti anche in vista di ulteriori risultati per la comprensione del Decameron: è quel che ha fatto a più riprese Marco Cursi per la prima trasmissione manoscritta dell’opera.
C’è poi un aspetto importantissimo, di tipo storico-letterario: ed è tornare a riflettere sulla costituzione del genere narrativo in prosa. Le nostre etichette, i nostri percorsi argomentativi, che vanno abitualmente dagli exempla al Novellino al Decameron, sono in sé giustificati, oppure le nuove acquisizioni anche filologiche ci spingono a pensare diversamente? Io sono dell’opinione che si debba riaprire il fascicolo e capire se davvero Boccaccio sia stato il momento di svolta nella costituzione dello spazio narrativo moderno. Per fare questo occorre lavorare in chiave comparativa, partendo dalla tradizione medioevale romanza e spingendosi almeno fino a Bandello, Maria di Francia e Cervantes (Novelas ejemplares).
Ci sono poi gli aspetti specifici del Decameron, a partire dall’analisi e discussione delle novelle. C’è per esempio chi dà una grande importanza al concetto di fonte. È questo il caso di un profondo conoscitore dell’opera boccacciana e della tradizione novellistica come Renzo Bragantini. Per parte mia, sono persuaso che le fonti siano interessanti, a volte decisive per comprendere alcune novelle (un solo esempio: la IV 9 [la novella del “cuore mangiato” su cui interverrà nelle prossime puntate di questo mensile Floriana Calitti, Ndr]). Al tempo stesso credo che sia errato cercare “la” fonte di una novella (eccezion fatta per taluni casi specifici); quello che mi appare oggi evidente è invece che Boccaccio lavorò su almeno tre livelli: la presenza, talvolta, di un testo concreto che conosceva; la dimensione aneddotica della cultura urbana (fiorentina, innanzitutto, ma anche napoletana, o semmai trentina, etc., etc.); il grande sistema antropologico dei temi narrativi, cui poteva attingere, in maniera indifferenziata, sia attraverso la letteratura “alta”, sia attraverso la testualità “bassa”. Questo, inevitabilmente, riapre la grande questione del rapporto tra oralità e scrittura.
Si tratta di un ambito che trovo affascinante, e su cui ho lavorato in passato. Adesso, in vista di una guida alle lettura che ho scritto e che uscirà in gennaio per Laterza, ho provato a ragionare in questa chiave innanzitutto per comprendere l’organizzazione strutturale di questo grande capolavoro.
Un’intervista a cura di Giovanni Capecchi
Università per Stranieri di Perugia
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SOMMARIO DEL MENSILE BOCCACCIO 700
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich