Con questo intervento si conclude il “mensile” che Altritaliani ha voluto dedicare a Boccaccio nel 700esimo anniversario della nascita. Luigi Surdich, docente di Letteratura Italiana presso l’Università di Genova, è uno dei più importanti studiosi di Boccaccio, autore, tra l’altro, dei volumi «Boccaccio» (Laterza 2001) e «Boccaccio – Profili di storia letteraria» (Il Mulino 2008).
Un libro fittamente articolato e incline a prestarsi a una molteplicità di sezionamenti interni come è il Decameron (dalle introduzioni alle conclusioni delle singole giornate, dal Proemio di avvio alle Conclusioni dell’Autore in chiusura) [[Si utilizza l’edizione di GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 1980. Le indicazioni di giornata e paragrafo seguono direttamente la citazione.]] è anche un libro che, in dipendenza della distribuzione degli interventi narrativi dei singoli componenti dell’«onesta brigata» e a riscontro della durata di permanenza dei dieci giovani nelle dimore in contado, presenta una serie differenziata di “conclusioni”, oltre a quella deliberatamente così denominata per volontà dell’autore.
Proprio a riscontro della sua stessa struttura (un libro costruito sulla sequenza di novelle, dunque sul fondamento di narrazioni brevi ed autonome), il Decameron è testo che esibisce varie e differenziate forme di conclusione, perché, ad esempio, si registrano le conclusioni di ogni giornata, fondate sulla letizia conviviale e sull’intonazione di canzoni o ballate, accompagnate dalla danza.[[Si veda RUGGIERO STEFANELLI, Donne allo specchio tra canzoni e ballate, in «Rivista di letteratura italiana», XIV, 1-3, 1996, pp. 13-39. Particolare attenzione alle ballate e canzoni che concludono le giornate decameroniane dedica ANTONIO GAGLIARDI, Giovanni Boccaccio. Poeta Filosofo Averroista, Sovderia Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 1999.]] Ma, ancora, ogni novella, per suo stesso destino narrativo, è completata da un capoverso o da una frase conclusiva. In proposito, allora (e lasciando per il momento da parte due-tre casi singolari, che verranno ripresi a parte), potremmo schedare, con ampia selettività nella ricerca, le conclusioni che richiamano all’esemplarità di quanto appena narrato (I.10, II.10, V.8, VII.1), quelle che sottolineano un avvenuto cambiamento nei personaggi (I.7, I.8), quelle che provocano un ammonimento serio (X.7, X.8) o sentenzioso (X.9), ma anche malizioso (III.10, VIII.7), quelle che preannunciano il futuro per il protagonista o i protagonisti (I.2, I.3, III.9, IV.6, VII.5, VIII.8, IX.2, IX.8), quelle che prefigurano il ritorno a casa dopo varie peripezie (II.1, II.2, II.5, VI.7, X.1) e, spesso parallelamente, si proiettano fino alla fine dei giorni del protagonista (II.4, II.6, II.8, V.1, V.2). E, ancora, da indicare le novelle che si concludono in forma di ricapitolazione (IV.4, VI.3) o di constatazione (VI.4, VI.6, VI.8) e quelle (non poche) suggellate da un proverbio (II.7, II.9, III.1, VII.4, VIII.10), [[Cfr. GIUSEPPE CHIECCHI, Sentenze e proverbi nel «Decameron», in «Studi sul Boccaccio», IX, 1975-76, pp. 119-168.]] mentre le vicende amorose a fine tragico producono l’evento della sepoltura in comune degli amanti (IV.1, IV.8, IV.9), in quella quarta giornata in cui il motivo della sepoltura in comune è declinato in chiave comica dalla sepoltura dei giovani di bassa condizione Simona e Pasquino (IV.7); e, sempre nella stessa giornata, compare la singolare conclusione sotto forma di trascrizione dei versi di una canzone dolorosa, ad epilogo dello sventurato amore che conduce Lisabetta da Messina alla morte per consunzione (IV.5). [[Entro l’ampia bibliografia sulla novella si indicano almeno il volumetto Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», a cura di Mario Lavagetto, Parma, Pratiche Editrice, 1982 (con saggi di Mario Baratto, Alessandro Serpieri, Cesare Segre, Giovanni Nencioni, Alberto M. Cirese), e l’articolo di ILARIA TUFANO, «Qual esso fu lo malo cristiano». La canzone e la novella di Lisabetta (Decameron, IV.5), in «Critica del testo», X/2, 2007, pp. 225-239.]]
Forte certamente sarebbe la tentazione di uno studio più ravvicinato sulle forme di conclusione delle novelle, ma converrà rinviare ad altra occasione questa ricerca. E tuttavia, ad essere sottili, entro la struttura internamente sezionata e ripartita del Decameron si potrà a suo modo considerare una parziale conclusione (poi rimossa e scavalcata) lo iato che si impone tra chiusura della III giornata e apertura della IV giornata, con intervento diretto, da parte dell’autore. Già trenta novelle sono state raccontate e queste trenta novelle, secondo quanto riferisce l’autore, non sono state ascoltate e giudicate soltanto dai componenti della brigata, ma, dopo essere circolate e aver avuto la loro diffusione, hanno suscitato più critiche che consensi, non però in relazione alla loro qualità che sommariamente potremmo dire “estetica”, ma per i contenuti in più di una circostanza spregiudicati. Incuneandosi, con l’arbitrio concesso dalla sua auctoritas di autore, nel ludus novellistico che la brigata dei dieci giovani sta sviluppando e in posizione del tutto separata e autonoma rispetto ai narratori, Boccaccio prende la parola e in prima persona difende le trenta novelle precedenti dalle critiche che erano state mosse da chi ne era venuto a conoscenza e aveva puntato il dito d’accusa soprattutto verso la sua facile disponibilità nel compiacere alle donne. Per difendersi, Boccaccio non si affida a una replica teoreticamente solida e argomentata, ma fa ricorso ai ferri del mestiere con cui ha maggiore dimestichezza, quelli dell’arte del narrare.
E allora racconta una novella, la «novelletta delle papere»,[[Su cui si vedano l’articolo di FEDERICO SANGUINETI, La novelletta delle papere nel ‘Decameron’, in «Belfagor», XXXVII, 2, 1982, pp. 137-146, e il saggio di SIMONE MARCHESI, Satira e commedia nell’Introduzione alla quarta giornata, contenuto nel volume di IDEM, Stratigrafie decameroniane, Firenze, Olschki, 2004, pp. 31-66.]] quella in cui il figliolo di Filippo Balducci, cresciuto fino ai diciotto anni del tutto segregato dalla vita e dall’esperienza cittadina, vissuto in eremitaggio coatto per la volontà paterna di sottrarlo a qualsiasi pericolosa tentazione, finalmente accompagna il padre in città e, curioso di conoscere per nome qualsiasi aspetto del mondo cittadino, mostra predilezione assoluta per le donne, che il padre, in eccesso di prudenza e timore a fronte di quanto comunque è inquadrato come «mala cosa» denomina «papere»: «Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere”» IV. Introd. 23). E alla pervicace intenzione del giovane di portare con sé, nel luogo del suo eremitaggio, una di quelle papere, al padre disarmato non resta che la resa suggellata da una constatazione, una riflessione morale: «e sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno» (IV. Introd., 29).
La “novelletta”, alla luce di quanto in premessa aveva riconosciuto l’autore stesso, Boccaccio, va considerata interrotta, inconclusa («mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia, quale fu quella che dimostrata v’ho, mescolare», IV. Introd. 11) e questa particolare conclusione-non conclusione in realtà è fortemente motivata dalla spinta che l’autore riceve per un discorso che all’autodifesa faccia seguire la parte propositiva di affermazione del valore del proprio lavoro letterario. Se ben si osserva, infatti, il frutto della consapevolezza secondo la quale la forza della “natura” riesce a vincere qualsiasi argine posto dall’”ingegno” (il metodo “educativo” di Filippo Balducci, padre autoritario e repressivo, portatore di una pedagogia indirizzata a inibire istinto e vocazione) va oltre i confini di una linea difensiva, perché l’autore arriva anche al punto di promuovere e sanzionare la dignità artistica della sua prova letteraria.
Interrotta la novelletta dalla battuta del padre («tu non sai donde elle [le papere] s’imbeccano!», IV. Introd. 29) e dalla notazione che ne segue e che si sarebbe addirittura tentati di qualificare come “antropologica”, al di là della novelletta stessa e quasi a riflesso di una necessità di chiarificazione più urgente del completamento della novella stessa, nel pieno della esibizione di nuove carte utili alla propria difesa e indispensabili per il rilancio di supplementari motivazioni giustificative, Boccaccio istituisce una sorta di canone di scrittori che, anche in età avanzata, non si sono certo dimostrati insensibili al fascino femminile e alla forza di attrazione e seduzione esercitata dalle donne: «io mai a me vergogna non reputerò infino allo stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro piacere loro» (IV. Introd. 33).
L’esibita tessera dantesca («onor si tennero»), recuperata dalla celebre canzone dell’esilio, Tre donne intorno al cor, per intanto ribalta in orgoglio ciò che potrebbe essere interpretato come oggetto di deprecazione, vale a dire la compiaciuta sensibilità nei confronti dell’attrattiva rappresentata dalle donne, anche in età non più giovanile. Ma c’è dell’altro e di più rilevante da rimarcare. C’è che il nucleo dei quattro scrittori, emulo della compagnia dei sei grandi del Limbo dantesco, si aggrega sì per affinità nel compiacere alle donne: ma non è un canone istituito su di un valore degradato, come in prima istanza potrebbe apparire, bensì un canone di dignità letteraria, dal momento che, come avrà modo di puntualizzare Boccaccio, egli (e dunque anche chi come lui ha prestato costante attenzione alle donne) «né dal monte Parnaso né dalle Muse» si è allontanato «quanto molti per avventura s’avisano» (IV. Introd. 36): «la “laude” delle donne si trasforma in entusiastica affermazione della nuova letteratura», che è quella che si impone attraverso il genere della “novella”. [[Cfr. GEORGES GÜNTERT, Tre premesse e una dichiarazione d’amore. Vademecum per il lettore del «Decameron», Modena, Mucchi Editore, 1997, p, 137.]]
Quella sorta di “prologo al mezzo” che è l’Introduzione alla quarta giornata sostiene l’ampia e asimmetrica campata che ha per pilastri estremi il Proemio e la Conclusione dell’autore. I tre interventi saldano la loro coerente prossimità sia perché in essi direttamente prende voce l’autore nel suo dialogo con le «carissime donne»[[Cfr. EUGENIO L. GIUSTI, Dall’amore cortese alla comprensione. Il viaggio ideologico di Giovanni Boccaccio dalla «Caccia di Diana» al «Decameron», Milano, LED-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 1999, p. 136.]] e sia perché entrano nel merito della definizione narratologica del testo. Fatto, questo, più evidente nella connessione Proemio-Conclusione dell’autore, con la riduzione definitiva dell’elenco costituito da «novelle, o favole, o parabole o istorie che dire le vogliamo» (Proemio13) al termine esclusivo di “novella”, al punto che chiaramente spicca la sua distinzione rispetto a “istoria”, propria dell’ambito ecclesiastico (Concl. aut. 7), e dunque non pertinente a quanto si narra «in luogo di sollazzo» (Ibidem); mentre il nesso più rilevante che associa Introduzione alla quarta giornata e Conclusione dell’autore si fonda sulla simulazione di repliche difensive, simulazione che, incentrata in un solo specifico punto nell’Introduzione (la risposta all’accusa di essere compiacente nei confronti delle donne), si moltiplica, nella Conclusione, in tutta una serie di risposte e di prese di posizione nei confronti di ipotizzate riserve o critiche da parte dei lettori. Trova giustificazione, allora, qualche licenza linguistica, la presenza di «alcuna paroletta più liberale che forse a spigolistra donna non si conviene» (Concl. aut. 5) [[Per questo aspetto rinvio al mio articolo Tradizione, riuso e modificazione della metafora erotica nella novellistica postdecameroniana, in «InVerbis», I, 2, 2011, pp. 23-52.]] e spicca l’immagine di sé che Boccaccio vuol dare e che è quella del semplice, modesto, appartato ascoltatore delle narrazioni e loro ritrascrittore, per cui le eventuali debolezze e insufficienze debbono essere imputate ai novellatori e non a lui: «ma io non pote’ né doveva scrivere se non le raccontate [novelle], e per ciò che esse le dissero le dovevan dir belle e io l’avrei scritte belle» (Concl. aut. 16). Al tempo stesso, però, la destituzione del ruolo autoriale viene surrogata da una presenza in prima persona che è quella, apparentemente gregaria, della scrittura delle rubriche, redatte anche per autorizzare una lettura di tipo antologico: «Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono e quelle che pungono e quelle che dilettano legga: elle, per non ingannar alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascose tengono» (Concl. aut. 19).
Eppure la Conclusione dell’autore, con quanto di decisivo la perentoria formulazione sostiene, non è la sola conclusione di un libro dalle plurime conclusioni qual è il Decameron. Ci sono almeno ancora due “conclusioni” da prendere in considerazione: la “conclusione” della narrazione delle novelle e la “conclusione” dell’esperienza della brigata in contado. Con “conclusione” delle novelle si intende far riferimento a quella che è l’ultima novella che viene raccontata, la X.10, la novella del marchese di Saluzzo e di Griselda, cui si presterà attenzione puntando non in senso stretto al suo contenuto, ma agli interventi del narratore.[[Entro l’ampia bibliografia sulla novella si indica qui solamente (anche per le segnalazioni di altri studi sull’argomento) il saggio di LUCIANO ROSSI, La maschera della magnificenza amorosa: la decima giornata, in MICHELANGELO PICONE e MARGHERITA MESIRCA (a cura di), Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, pp. 267-289 (in particolare, pp. 277-289). Per l’interpretazione e traduzione di Petrarca cfr. MIRKO BEVILACQUA, «Non cosa magnifica ma una matta bestialità». A proposito dell’interpretazione della Griselda decameroniana. Francesco Petrarca vs. Giovanni Boccaccio, in IDEM, Leggere per diletto. Saggi sul ‘Decameron’, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 87-92; e cfr. anche FRANCISCO RICO, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma-Padova, Editrice Antenore, 2012, pp. 42-43. Si veda inoltre La storia di Griselda, Textes rassemblés par JEAN-LUC NARDONE, Atelier d’Imprimerie de l’Université de Toulouse-Le Mirail, 2000.]] Intanto, nel preambolo di introduzione alla novella che sta per narrare, Dioneo sembra come suggerire all’autore, Giovanni Boccaccio, l’incipit della rubrica, segnalando come personaggio primario il marchese e non Griselda. Al tempo stesso, colui che è per definizione il “trasgressivo” tra i novellatori,[[Cfr. il libro di EMMA GRIMALDI, Il privilegio di Dioneo. L’eccezione e la regola nel sistema Decameron, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987.]] conferma il suo ruolo, con degli aggiustamenti e dei compensi, perché prefigura continuità a differenza rispetto all’assunto tematico della giornata: la continuità sarà nel parlare di un personaggio di nobili origini, in linea col predominante status sociale dei protagonisti della decima giornata («vo’ ragionar d’un marchese»); la differenza consisterà nel raccontare, in relazione al personaggio della novella, «non cosa magnifica ma una matta bestialità» (X.10, 3), suggerendo pertanto una specifica attenzione sull’esercizio di una immotivata violenza del marchese nei confronti di Griselda.
Ma, una volta espletata la narrazione della novella, contrariamente alla prassi ricorrente nel libro delle cento novelle, con l’eccezione più vistosa della prima novella della prima giornata, quella di Ciappelletto, in cui il narratore, Panfilo, si fa scrupolo di inquadrate la narrazione entro ampi ed articolati incipit ed explicit, per affermare il principio della imperscrutabilità del disegno divino, Dioneo fa sentire la sua voce, precedendo con la formulazione di alcune domande e con una risposta a se stesso e a chi ascolta, in piena linea con l’estrosità che lo caratterizza, il giudizio del pubblico che, nella circostanza, rispecchia l’ambiguità del racconto con la diversità delle opinioni: «assai le donne, chi da una parte e chi d’altra tirando, chi biasimando una cosa, un’altra intorno a essa lodandone, n’avevan favellato» (X Concl. 1).
Per porre termine al suo intervento, Dioneo adotta una modalità interrogativa, invero insolita nella centuria delle novelle. Se non ho visto male, la si riscontra in due novelle della medesima decima giornata, le novelle 4 e 5, le due novelle recuperate e rielaborate da due “questioni d’amore” del Filocolo, rispettivamente dalla tredicesima e dalla quarta “questione”.[[Per le “questioni d’amore” si vedano: VICTORIA KIRKHAM, Reckoning with Boccaccio’s «Questioni d’Amore», in «Modern Language Notes», 89, 1974, pp. 47-59; PAOLO CHERCHI, Sulle «quistioni d’amore» nel Filocolo, in IDEM, Andrea Cappellano i trovatori e altri temi romanzi, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 210-217; LUIGI SURDICH, Il «Filocolo»: le «questioni d’amore» e la «quête» di Florio, in IDEM, La cornice di amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, ETS, 1987, pp. 13-75. E, inoltre, cfr. BRUNO PORCELLI, Quando un racconto entra in una macrostruttura narrativa (e ne esce), in GABRIELLA ALBANESE, LUCIA BATTAGLIA RICCI e ROSSELLA BESSI (a cura di), Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, Atti del Convegno di Pisa, 26-28 ottobre 1998, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 55-66; MICHELANGELO PICONE La morta viva: madonna Catalina e Gentile de’ Carisendi, in IDEM, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del Decameron, Ravenna, Longo, 2008, pp. 321-333; e RENATO LENTI, Una ulteriore possibile fonte boccacciana (Filocolo, quest. XIII; Decameron, X iv), in «La Rassegna della Letteratura italiana», Serie IX, 2, Luglio-Dicembre 2011, pp. 347-360.]] A conclusione delle due novelle decameroniane si legge: «Che dunque qui, benigne donne, direte? estimerete l’aver donato un re lo scettro e la corona, e uno abate senza suo costo avere riconciliato un malfattore al Papa, o un vecchio porgere la sua gola al coltello del nimico, essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile?» (X.4, 47) e «Che direm qui, amorevoli donne? preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita?» (X.5, 26). Certamente la tipologia mutuata dalle “questioni d’amore” influisce sulla forma interrogativa assunta dalla parte conclusiva delle due novelle. Ma la formulazione interrogativa si prospetta in un’altra circostanza, in modo meno esplicito, più occulto, nella postazione di conclusione non di un’intera novella ma di una ben visibile e marcata cesura interna: insomma, una conclusione per una novella ancora non conclusa.
Il riferimento va alla novella V.1, che ha per protagonista Cimone e che è nettamente divisa in due sezioni. La prima parte della novella, grosso modo il primo quarto della novella, fino al paragrafo 20 (in un totale di 70 paragrafi), è un trasparente remake della Comedia delle ninfe fiorentine, il prosimetro allegorico col quale Boccaccio aveva inaugurato la sua stagione fiorentina, dopo il rientro da Napoli, mettendosi in sintonia con la tradizione della lirica stilnovistica circa la funzione di ingentilimento assolta dalla conoscenza di Amore. E allora vediamo bene come, a riflesso delle potenzialità di elevazione di cui è incaricata Efigenia, Cimone porti a compimento un percorso di raffinamento della persona e di acquisizione di valori intellettuali e spirituali.[[Utili suggestioni di lettura e di interpretazione fornisce l’ottimo saggio di IRENE VIVARELLI, Il Decameron visualizzato. La tradizione figurativa della novella di Cimone ed Efigenia (V 1), in «Studi sul Boccaccio», 32, 2004, pp. 161-200.]] A questo punto la novella decameroniana sembra come essere conclusa e a confortare questa impressione di conclusione sono i paragrafi 21-22, con l’interrogativa[[Cfr. EDOARDO SANGUINETI, Lettura del «Decameron», a cura di Emma Grimaldi, Salerno, Edizioni 10/17, 1989, p. 85: «si può notare come, mentre di solito il passaggio dal prologo all’apertura d’intreccio è espositivamente mimetizzato, grazie alla formula d’uso semaforico dell’”ora avvenne che”, al contrario, qui, conclusa l’esposizione della fase concernente la conversione di Cimone, prima di passare alla peripezia Panfilo si rivolge ai presenti, e in particolar modo alle donne, dicendo appunto: “Che dunque, piacevoli donne, diremo di Cimone?”, usando cioè una formula prettamente conclusiva» (ora, nella nuova edizione, Torino, Nino Aragno Editore, 2011, a pp. 121-122).]] che propone un bilancio e con la susseguente celebrazione della virtù raffinante e illuminante che Amore esercita nei confronti degli uomini:
Che dunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l’alte vertù del cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa fortuna in piccolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti Amor ruppe e spezzò sì come molto più potente di lei; e come eccitatore degli addormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui subgetti e in quale gli conduca co’ raggi suoi (V.1, 21-22).
E invece la novella non finisce. Anzi, quello che finora è stato delineazione di un percorso esistenziale, sintetizzato in sede di rubrica nella semplicissima proposizione «Cimone amando diventa savio», comincia proprio ora, proprio da questo punto, ad essere novella: con Cimone che, acquisita la condizione umana uscendo da quella di bruto animale, allo stato bestiale dà l’impressione di retrocedere, utilizzando le armi per uccidere con crudeltà e ferocia e con lo scatenamento di una fitta dinamica di azioni animate e movimentate dalla connessione di amore e rapimento, separazione e riconquista, all’interno di uno scenario marino assai propizio alle peripezie e agli “accidenti”. Si hanno, a ben considerare, due novelle in una, che sembrano come riprodurre, in chiave metaletteraria, a rebours, il percorso formativo e culturale di Boccaccio, che, al predominante romanzesco della stagione napoletana, fa seguire l’interesse per l’amore in forme prossime alla tradizione cortese e stilnovistica, oltre che allegorica, negli anni immediatamente successivi al ritorno a Firenze (Comedia delle ninfe fiorentine e Amorosa visione).
Anche una particolare forma di conclusione, la conclusione interna, va dunque ascritta a identificazione della prassi narrativa di Boccaccio. E ora, tornando al punto entro il quale si era inserita la parentesi relativa alla novella di Cimone e riprendendo il filo del discorso con la postilla di Dioneo al termine del racconto della storia del Marchese di Saluzzo e di Griselda, osserviamo che a una prima domanda («Che si potrà dir qui?»), che promuove la conferma dell’amore «anche nelle povere case», fa seguito un’altra interrogativa, più inquietante, perché pone l’accento sulla sopportazione non sofferente ma serena di Griselda: «Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai più non udite prove da Gualtier fatte?». E poi, non una risposta o un approfondimento dell’interrogativo viene, ma una sterzata impressa da Dioneo, che in piena rispondenza alla sua identità dissacrante così si esprime: «Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una che quando, fuor di casa, l’avesse fuori in camiscia cacciata, s’avesse sì a un altro fatto scuotere il pilliccione che riuscito ne fosse una bella roba» (X.10, 68-69).
Attraverso la spiritosaggine licenziosa Dioneo propone un commento alla novella che, per via della spregiudicatezza dell’espressione, per intanto ribadisce con maggior forza la sua prerogativa di contrappunto comico; e la ribadisce proprio nel momento in cui sta per uscire definitivamente di scena e proprio nella circostanza della maggiore altezza sublimante, qualora si consideri che il «pilliccione» da scuotere è quello di Griselda, della paziente e fedelissima Griselda. Ma la puntuta malizia di Dioneo a suggello della novella adombra l’ipotesi di una rottura del sistema binario e del regime di opposizione tra dominio e umiliazione, arroganza e sopportazione che vede contrapposti Gualtieri e Griselda, con un’apertura liberatoria a un triangolo amoroso: figura geometrica, quella del triangolo, nella relazione d’amore, di cui Dioneo è il massimo competente, oltre che il più divertito mediatore narrativo, essendo stato lui il re della giornata, la settima, che si fondava su trame governate dal meccanismo del triangolo amoroso.[[Cfr. CESARE SEGRE, Funzioni, opposizioni e simmetrie nella giornata VII del Decameron, in IDEM, Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Torino, Einaudi, 1974, pp. 117-143.]] Molla determinante che spinge alla istituzione del triangolo amoroso è l’identità, ricorrente nella novellistica decameroniana, della “malmaritata”.
In un certo senso “malmaritata” è anche Griselda, che peraltro accetta il suo ruolo, per di più lieta, e in tale accettazione invera la sua dignità e la sua virtù. Ma la giunta personale di Dioneo, se rettamente considerata, rivela uno spostamento dell’attenzione da un piano contenutistico a uno formale e strutturale. Ciò che Dioneo intende dire è che è vero che le cose sono andate così, che Griselda è stata paziente, che la pazienza è stata condivisa dalla donna con piena disponibilità. Ma, al tempo stesso, ci avverte che le cose potevano anche andare altrimenti. E, allora, il possibilismo dell’esito non univoco ma plurale delle vicende umane, cui si sovrappone la dimensione mobile ed eterogenea delle narrazioni, induce Dioneo a suggerire il sospetto che anche la remissiva Griselda poteva diventare ingannatrice, adultera, traditrice, perché anche lei poteva imbattersi in qualcuno che le scuotesse il «pilliccione», sì che allora il suo nome l’avremmo trovato affiancato a quello delle numerose donne insoddisfatte che popolano il Decameron e la sua storia l’avremmo letta in altra occasione, in altra giornata. Proprio a conclusione delle cento novelle, grazie all’intervento di Dioneo, Boccaccio ci ricorda che la novella è il genere letterario fondato sulla coscienza che «le cose di questo mondo non hanno stabilità, ma sono sempre in mutamento» (Concl. aut. 27) [[Si vedano le riflessioni, particolarmente incentrate sulle parti conclusive del Decameron, di CESARE DE MICHELIS, Contraddizioni nel «Decameron», Milano, Guanda, 1983.]] e che, pertanto, resocontando narrativamente quanto è successo o quanto potrebbe essere successo o potrebbe succedere, propria del suo statuto è l’apertura al possibilismo, alla problematicità, alla varietà della casistica e alla mutevolezza degli eventi. E in questa prospettiva, allora, la sequenza delle cento novelle si chiude nell’esitazione di una possibile apertura.
Tale ipotetica ed eventuale riapertura, però, non sarà la brigata dei dieci giovani a proporla, poiché l’altra conclusione del libro «chiamato Decameron cognominato principe Galeotto» si deve a una brigata che decide di porre fine alla serena parentesi in contado e rientrare in Firenze. Al di là delle motivazioni rese esplicite da Panfilo, re dell’ultima giornata cui spetta di analizzare la situazione, alla fine della novella del Marchese di Saluzzo e di Griselda, e alle quali si rinvia (X Concl. 2-7), c’è verisimilmente una sottile e ben motivata ragione che induce la brigata a porre fine all’esperienza del novellare e a prendere la strada del ritorno.[[Come è stato osservato, già con la settima giornata, completato il rito di iniziazione nella Valle delle Donne, comincia il cammino di rientro, coincidente con un atteggiamento di riflusso rispetto alla spinta espansiva ed ascensionale delle precedenti giornate; cfr. ROBERTA BRUNO PAGNAMENTA, Il Decameron. L’ambiguità come strategia narrativa, Ravenna, Longo, 1999, p. 121: «già a partire dalla fine della settima giornata le cose cominciano a cambiare: la scelta meno trasgressiva di allargare il tema della beffa a uomini e donne (VIII), la libera ripresa di temi già trattati precedentemente (IX), la celebrazione finale della virtù (X), sono segnali di mutamento di intenti».]] Fra le molte brigate che nella circostanza funesta si sono formate, quella del Decameron, attraverso la convivenza confortata dal narrare, ha acquisito un ordine razionale e una pratica della letizia e del diletto che ha condotto i dieci giovani, «attraverso e contro la peste», a conquistare «l’unica vera e paradossale vittoria della quale essi possono gloriarsi: quella di aver imparato ad accettare il mondo, e di aver dunque imparato ad accettare il loro destino. Ridendo hanno accettato il mondo, e lieti accettano la morte».[[Così ENRICO FENZI, Ridere e lietamente morire. Un’interpretazione del Decameron, in «Per leggere», VII, 12, primavera 2007, p. 143.]]
I presupposti che stanno a fondamento della decisione ultima di interrompere il ludus narrativo e di tornare a Firenze, anche se nella città il morbo pestilenziale continua a imperversare, sono per intero dispiegati nella introduzione alla nona giornata, ove i giovani della brigata si presentano inghirlandati di fronde di quercia:
Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le mani piene o d’erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niuna altra cosa avrebbe potuto dire se non: «O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderà lieti». (Dec. IX Introd. 4).
Fin dalla prima giornata una corona di alloro aveva ornato la fronte dei novellatori e tale corona era unica e passava dall’uno all’altro dei componenti della brigata nel momento dell’elezione a re o a regina della giornata, quale «manifesto segno a ciascun altro della real signoria e maggioranza» (I Introd. 97). Due sono i fatti nuovi che l’esordio della nona giornata prospetta: 1) la corona è di fronde di quercia; 2) dieci sono le corone e tutt’e dieci i componenti della brigata la ne sono ornati. [[Cfr. JONATHAN USHER, Boccaccio Ghirlandaio: l’incoronazione universale del Decameron, in JOHANNES BARTUSCHAT e LUCIANO ROSSI (a cura di), Studi sul canone letterario del Trecento. Per Michelangelo Picone, Ravenna, Longo, 2003, pp. 147-160.]]
La quercia è, nella simbologia, pianta rappresentativa di forza e saggezza; e sapientia e fortitudo sembrano essere i traguardi conquistati dalla brigata.[[Cfr. JEAN CHEVALIER-ALAIN GHEERBRANDT, Dizionario dei simboli, traduzione dal francese di Maria Grazia Margheri Pieroni, Laura Mori e Roberto Vigevani, Milano, Rizzoli, 1986, vol. II, p. 272, s.v. quercia.]] La compagnia dei dieci giovani, divenuta conclusivamente perfetta, incoronata di fronde di quercia, si colloca in un paradiso in terra, appagata da una felicità tutta terrena. Questa società ideale rappresentata dai giovani della brigata nel culmine della loro pienezza è completamente laica. Anche il senso della morte si spoglia di ogni connotazione trascendente, sia che si tratti di “cattiva morte”, di morte di peste, sia che si tratti di “buona morte”: di quella morte che, secondo la capitalissima informazione dell’avvio della nona giornata e, in verità, secondo lo spirito dell’intero Decameron, o non vincerà o ucciderà persone liete.
Nel modo più originale i dieci giovani confermano l’esaltarsi del principio del piacere che era quello che li aveva spinti ad allontanarsi dalla città: il profilo di Epicuro sembra sovrintendere alla apparizione dei giovani e al loro muoversi e comportarsi in questo particolare frangente. [[Si veda l’eccellente libro di MARCO VEGLIA, «La vita lieta». Una lettura del Decameron, Ravenna, Longo, 2000.]] Se da una parte il principio che governa il pensiero dei seguaci di Epicuro, e cioè la convinzione dell’impossibilità dell’immortalità dell’anima, si converte antifrasticamente in una enunciazione di immortalità del corpo, tale enunciazione, dall’altra parte, lascia il campo aperto alla consapevolezza della ineluttabilità della morte; ma è una morte che smentisce quanto di dolente, cupo, orrido, essa costantemente prospetta e, soprattutto, ha prospettato attraverso la peste: una morte «lieta», perché l’adempimento delle potenzialità umane è stato espletato.
Luigi Surdich
(Università di Genova)
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SOMMARIO DEL DOSSIER BOCCACCIO
L’EDITORIALE DEL MENSILE BOCCACCIO
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich
Boccaccio e le “conclusioni” del Decameron
Lorsque j’ai achevé la lecture du Decamron,j’ai eu l’impression d’avoir déjà lu ou entendu ces « histoires ».
La littérature allemande,espagnole sans parler
des copiés collés de Marguerite de Navare…ont
pillé l’oeuvre de Boccace.
je recommande le livre :
Bailet, L’Homme de verre, Antenore, Nice-Padoue, 1972