Quando Madame de Rênal nel capitolo ventunesimo della prima parte di Le Rouge et le Noir deve affrontare il marito che ha appena scoperto, grazie a una lettera anonima, la sua storia d’amore con il protagonista del romanzo, Julien Sorel, Stendhal la descrive in preda ad un angoscioso pensiero che, tra l’altro, la immette subito nella lunga tradizione delle eroine degli amori “tragici”:
Ella tornava dal villaggio. Era stata a Vergy ad ascoltare la messa. Secondo una tradizione, che sarebbe stata molto incerta agli occhi di un freddo razionalista, ma alla quale la signora de Rênal prestava fede, l’attuale chiesetta sarebbe stata un tempo la cappella del signore di Vergy. Quel pensiero l’aveva ossessionata per tutto il tempo che aveva contato di passare in preghiera. La signora de Rênal immaginava continuamente suo marito che uccideva Julien, come per caso, durante una partita di caccia, e che poi, alla sera, le faceva mangiare il suo cuore.
La leggenda che narra del cuore dell’amante fatto mangiare dal marito alla moglie colpevole di averlo tradito, moglie che poi si uccide disperata, sembra avere delle origini orientali. In realtà, il motivo del pasto amoroso, ricco di implicazioni magiche e religiose, richiama un rito cannibalico ma anche eucaristico, ed è noto in diverse culture. Ha, ad esempio, una presenza nelle Metamorfosi di Ovidio dove Tereo sposa Procne ma si innamora della sorella Filomela e allora la sposa tradita gli farà mangiare il loro figlio Iti per vendicarsi, oppure nel culmine del teatro tragico di Seneca quando nel Tieste il protagonista sarà costretto dal fratello Atreo a cibarsi alla lauta mensa imbandita, a sua insaputa, della carne dei suoi tre figli; e poi ancora, nelle fonti celtiche, ormai da tempo accertate, e nella sua prima attestazione letteraria, già nel Tristan di Thomas, dove Isotta canta un Lai Guirun (Lamento di Guiron) che ha lo stesso tragico argomento:
Era un giorno sola, nella
stanza, Isotta e sottovoce
ripeteva un canto triste:
come fu sorpreso un giorno
per amore di una donna
Guiron che fu messo a morte.
E l’amava più di ogni altra
cosa al mondo: ed il suo cuore
gli fu tolto e venne offerto
come cibo alla sua amata
dal marito, un conte, un giorno.
E la donna disperata
della morte dell’amante
venne a conoscenza. Isotta
canta dolcemente,
piano, piano, a bassa voce.
La vicenda di Guirun è evocata nella altrettanto infelice storia di Tristano e Isotta perché rappresentativa dell’amore perfetto: il marito geloso uccide l’amante ma, in realtà, il destino, per un ribaltamento paradossale, fa sì che, proprio con il rituale del “pasto” amoroso, evidentemente anche ad alta “densità” erotica, il cuore dell’amato possa ricongiungersi per sempre all’amata, anche dopo la morte.
Stendhal conosce perfettamente la crudele storia del cuore mangiato; d’altronde al tema del “pasto d’amore” aveva anche dedicato un intero capitolo di De l’amour nel quale ne cita esplicitamente la fonte provenzale, una delle vidas dedicate al trovatore Guillem de Cabestaing. Costui era un cavaliere molto bello e molto abile nelle armi, originario della contrada di Rossillon e, soprattutto, un poeta. Un giorno viene accolto alla splendida corte di Raimon de Castel Rossillon, un nobile ma malvagio che aveva come moglie Soremonda, di rara bellezza e gentilezza d’animo.
I due fatalmente, secondo le leggi dell’amore cortese, si innamorano e Guillem imprudentemente canta l’amore per la sua dama. La scoperta del tradimento scatena la brutale vendetta del signore di Rossillon:
E un giorno Raimon de Castel Rossillon incontrò Guillem che passava senza grande scorta e lo uccise; e gli trasse il cuore dal petto; e lo fece portare a uno scudiero al castello; e lo fece arrostire e ben condire col pepe, e lo fece servire da mangiare a sua moglie. E quando la donna lo ebbe mangiato, il cuore di Guillem de Cabestaing, Raimon le disse di che cosa si trattava. E ella, quando lo seppe, perse la vista e l’udito. E quando rinvenne disse: «Signore, mi avete dato un così buon cibo che non ne mangerò mai altro». E quando egli udì quello che aveva detto, corse alla sua spada e volle colpirla sulla testa; ma ella corse al balcone e si lasciò cadere di sotto, e morì. E la notizia si diffuse per tutto il Rossillon e per tutta la Catalogna che Guillem de Cabestaing e la donna erano morti così malamente e che Raimon de Castel Rossillon aveva dato da mangiare alla donna il cuore di Guillem. Molto grande ne fu la tristezza per tutte le contrade; e la denuncia giunse davanti al re d’Aragona, che era signore di Raimon de Castel Rossillon e di Guillem de Cabestaing. E si recò a Perpignan, nel Rossillon, e fece chiamare davanti a sé Raimon de Castel Rossillon; e quando fu giunto, lo fece prendere e gli tolse tutti i suoi castelli e li fece distruggere; e gli tolse tutto quello che aveva, e lo fece chiudere in prigione. E poi fece prendere Guillem de Cabestaing e la donna, e li fece portare a Perpignan e seppellire in una tomba davanti alla porta della chiesa; e fece incidere sulla tomba il modo in cui erano stati uccisi; e ordinò per tutta la contea del Rossillon che tutti i cavalieri e le dame venissero ogni anno a celebrarne l’anniversario. E Raimon de Castel Rossillon morì nella prigione del re.
Il racconto degli infelici amanti, della loro triste fine e della loro sepoltura congiunta sul modello dell’archetipo di tutte le storie, quella di Tristano e Isotta sulla cui tomba due alberi crescono intrecciati, ha enorme fortuna nella letteratura medievale europea, in Francia, in Inghilterra, in Germania e in Spagna (nella storia della marchesa d’Astorga). In Italia il tema è molto presente e con diverse varianti, alle volte anche versioni volutamente “abbassate”, degradate o contraffazioni grottesche e persino tragicomiche, come nel caso della novella di «messer Ruberto» del Novellino (LXII), dove il cuore del povero Baligante che ha avuto la colpa di soddisfare la Contessa e le sue cameriere finisce nell’impasto di una torta che le donne gradiscono molto, come sottolinea messer Roberto: «Ciò non è maraviglia, ché Baligante vi è piaciuto vivo, s’elli vi piacie di morto!». Ma a fare da modello vincente è, invece, la «maravigliosa visione» del III capitolo della Vita nuova di Dante quando Amore appare in sogno al poeta con in mano il suo cuore che arde da dare in pasto a Beatrice dormiente da cui il famoso sonetto A ciascun’alma presa:
E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus tuus”.
Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare.
E nell’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente.
Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato.
E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte.
Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa.
È un punto di snodo fondamentale perché il sonetto è il primo della Vita nuova e, dunque, serve a marcare la conquista del dettato poetico e l’ ingresso di Dante poeta nella schiera dei “fedeli d’amore” e in linea con tutta la tradizione lirica precedente nella quale il vincolo tra amore e ispirazione poetica è strettissimo; così come sarà anche per quella a venire, in particolare per Petrarca, che proprio citando il caso del trovatore Guillem, nei Trionfi, unisce il canto amoroso alla morte («Giaufré Rudel, ch’usò la vela e’l remo/ a cercar la sua morte, e quel Guillielmo/ che per cantar ha ‘l fior de’ suoi dí scemo», Triumphus Cupidinis IV, 53-55).
Ma dopo Petrarca e dopo tutte le riprese della lirica cortese e tutti i casi dei “paradossi d’amore” e di tutti i cuori che escono dal corpo o trasmigrano verso l’amata, oltre a tutti i luoghi in cui è esaltato l’amore oltre la morte, come per Piramo e Tisbe, è sicuramente Boccaccio quello che si mostrò più sensibile al tema del “cuore mangiato”: nel Filocolo, nell’episodio del sogno del re Felice (II, 3) nel De casibus virorum illustrium (IX, 26), ma, soprattutto, nel Decameron dove nella «fiera materia» della quarta giornata si registra la presenza costante del “cuore” sin dalla prima novella, quella in cui la protagonista Ghismonda segna la storia del topos dell’ostensione dei cuori sanguinanti, bevendo il veleno che versa nella coppa con il cuore dell’amato che il padre il «prenze», principe Tancredi, le ha fatto pervenire, nel suo letto, diventato insieme tomba e altare, aspettando la morte:
Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: «Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava».
Ghismonda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello esser il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: «Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato».
E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da parte mia gli renderai».
[…]
La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia».
E questo detto, si fé dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte (Decameron, IV, 1).
E come nella nona delle cento novelle, dove si raggiunge il vertice del nuovo pathos macabro e cruento, quella di Messer Guiglielmo Rossiglione che, pur seguendo da vicino il racconto della vida provenzale di Guillem de Cabestaing, ha delle innovazioni molto significative. Nella versione “cortese” della storia provenzale i personaggi seguono uno schema fisso che è quello che regola i loro comportamenti: Raimon pur essendo nobile è cattivo, perché non è nobile d’animo. Infatti non seguirà le regole della cortesia che sono incarnate da Guillem e da Soremonda che, invece, in virtù delle loro qualità “cortesi”, possono diventare amanti perché l’adulterio è ammesso in quel mondo e in quell’ideologia. Avranno, dopo la morte, anche l’avallo del re, garante del codice cortese, e la celebrazione da parte del pubblico.
Per Boccaccio le cose stanno diversamente: le opposizioni si fanno più complesse e problematiche e, soprattutto, non sono fisse ma cambiano durante la vicenda e hanno sviluppi imprevedibili. Innanzitutto Guglielmo Guardastagno non è un trovatore e quindi l’attività poetica non è indicata come uno dei mezzi usati dall’innamorato per suscitare interesse nella donna, come se Boccaccio volesse sottrarre alla storia una derivazione necessariamente “lirica”. Inoltre, i due personaggi maschili prima di diventare rivali sono amici, quasi un doppio segnato fatalmente dal portare lo stesso nome che, peraltro, rafforza la loro “sovrapponibilità” sin dalla rubrica dell’autore, come al solito, un sommario folgorante:
Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo poi, si gitta da un’alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita.
E poi, poco dopo l’incipit della novella nel quale il debito verso la tradizione provenzale della tematica è dichiarato apertamente («Dovete dunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili cavalieri…»):
E perciò che l’uno e l’altro era prod’uomo molto nell’arme, s’amavano assai e in costume avean d’andar sempre a ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa.
Il tradimento sembra, dunque, duplicato, «fuor di misura» perché oltre i limiti imposti anche, anzi soprattutto, dal codice cavalleresco dell’amicizia e delle armi:
E come che ciascun dimorasse in un suo castello e fosse l’uno dall’altro lontano ben diece miglia, pure avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non obstante l’amistà e la compagnia che era tra loro, s’innamorò di lei e tanto or con uno atto or con un altro fece, che la donna se n’accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere le piacque e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richesta: il che non guari stette che adivenne, e insieme furono una volta e altra amandosi forte.
E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n’accorse e forte ne sdegnò, in tanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì…
Guiglielmo Rossiglione non è geloso e crudele di natura, lo diventa quando, scoperta la verità, il rancore lo rode e il desiderio di vendetta lo acceca, e il grande amore che portava all’amico «in mortale odio convertì». E allora tende un agguato al suo nemico, gli apre il petto con un coltello e poi «con le proprie mani il cuor gli trasse». Torna al castello, fa chiamare il cuoco e gli fa cucinare il cuore di Guardastagno come fosse un cuore di cinghiale, con una particolare cura nella scelta delle spezie:
«Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento». Il cuoco, presolo e postavi tutta l’arte e tutta la sollecitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece un manicaretto troppo buono.
La morale di Boccaccio non è precostituita, in un certo senso, come anche nelle novelle di Tancredi e Ghismonda (IV,1) e di Lisabetta da Messina (IV,5). Boccaccio guarda da lontano un mondo che considera oramai passato, “sfuma” e rende meno netti proprio quegli elementi costitutivi dell’avventura cortese ma non quelli delle regole d’onore, della lealtà che si deve, a maggior ragione nell’etica del cavaliere: armi, amore, morte, cuore mangiato, unione eterna dopo la morte.
La lettura boccacciana, che dal punto di vista narrativo si rende più indipendente dalla vida provenzale, probabilmente anche per affrancare e nobilitare il genere della narratio brevis rispetto alla forte tradizione trobadorica, pur in una tematica come quella degli «infelici amori» da sempre pertinenza della fin’amor, della lirica, avrà grande successo e imitatori. Ad esempio, un grande ammiratore di Boccaccio, Giovanni Sercambi, riprendendo nel suo Novelliere la storia decameroniana, la varierà nel far mangiare alla donna che tanto lo aveva “mirato” il bel viso e gli occhi del suo amante, e quasi dichiarandosi a favore del doppio “assassinio” messo in atto dal marito tradito («hai mangiato come cattiva femmina la faccia del conte che vivo tanto baciato avei»).
Ma le versioni del motivo del “cuore mangiato” avranno ancora tante e tali varianti, registreranno una tale persistenza e continuità del tema medievale anche in diversi generi letterari (dalla novella macabra e orrorifica del Cinquecento al romanzo e al teatro settecentesco, fino al melodramma) e non solo, ma anche nell’arte e nella musica, che è impossibile seguirne la fitta tramatura. Si cita ancora soltanto un rifacimento cinquecentesco meno noto (e studiato da Leonardo Terrusi), interessante perché nella seconda novella del secondo trattato della Libraria di Anton Francesco Doni si passa dal cuore mangiato della storia del Guardastagno boccacciano alla sua parodia con l’introduzione di un nuovo topos, quello del corpo imbalsamato dell’amante nel letto della moglie, una riscrittura nel quale è chiaro il gioco intertestuale consueto nelle opere del Doni.
Saltando poi di tre secoli, una delle riprese più interessanti è certamente quella del racconto “tragico” di fine Ottocento La Vengeance d’une femme (La vendetta di una donna), incluso nelle Diaboliques, un testo di straordinario successo, opera di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly, in cui sono concentrati tutti i topoi del romanticismo “nero” e delle voluttà più morbose che saranno proprie della materia “decadente”. La duchessa d’Arcos de Sierra Leone (per “vendetta” diventata una prostituta parigina in modo da disonorare il nome che porta) è andata sposa al più grande signore di Spagna, tre volte duca, quattro marchese, cinque conte e Toson d’oro, ma si innamora di don Esteban, marchese di Vasconcellos, cugino del Duca. Il loro amore ardente ma casto, talmente “mistico” da poter essere esibito (e dunque scoperto), porta il Duca a irrompere nella stanza dove i due amanti si guardano soavemente negli occhi. Due mori strangolano don Esteban e la sua testa ricade pesantemente in grembo alla duchessa che si sente come se in quel momento le stessero strappando il cuore; ma è al cadavere di Esteban che squarciano il petto per estrarne il cuore, quel cuore colpevole di amare chi non avrebbe dovuto neppure osare guardare. È a quel punto che alla duchessa stravolta dal dolore e dalla disperazione torna in mente la storia di Gabriella, la castellana di Vergy (l’antica leggenda medievale francese del Duecento non includeva originariamente il motivo del pasto del cuore, ma con il tempo le riscritture e le variazioni portano a una contaminazione con la storia provenzale di Guillem de Cabestaing e con quella della fine del XIII secolo del Castellano di Coucy e della dama di Fayel), di cui tante volte aveva letto insieme con l’amato Esteban (citiamo dalla traduzione del poeta Camillo Sbarbaro). Il Duca, infatti, procede così alla sua feroce vendetta, non accontentandosi della morte del suo rivale:
Fischiò; e all’irrompere di due feroci mastini: “Buttate in pasto a questi cani”, ordinò, “il cuore di quel traditore!”.
Allora non so che cosa insorse in me.
“Eh via! vendicati meglio”, gridai. “Tocca a me mangiare questo cuore!”.
Queste parole lo colpirono come una mazzata.
“Lo ami dunque a questo punto?” chiese interdetto.
Ah se lo amavo! grazie al duca, non lo avevo mai amato così! Tanto, lo amavo, da non provare né orrore né ribrezzo per quel cuore sanguinante; pieno di me, caldo ancora di me. Come avrei voluto, quel cuore, scampano, ricoverano dentro il mio!
Chiesi questa grazia in ginocchio; a mani giunte, la chiesi! Volevo a quel nobile adorato cuore risparmiare l’atroce, sacrilega profanazione. Di quel cuore mi sarei comunicata come ci si comunica con l’ostia consacrata: non era forse Esteban il mio dio? Mi tornava a mente la storia di Gabriella di Vergy che tante volte avevamo letto insieme, Esteban ed io. La invidiavo, quella donna! la stimavo fortunata d’aver potuto fare del suo seno una viva tomba all’amato!
Senonché lo spettacolo d’un amore come il mio, rese il duca spietato. Sotto i miei occhi i cani consumarono il feroce pasto. Disputai a quelle belve, quel cuore; m’azzuffai con esse. Non riuscii a strapparlo loro. Mi copersero di orrendi morsi e asciugarono alle mie vesti le fauci lorde di sangue!
Proprio quella stessa Gabrielle, la castellana di Vergy, la cui leggenda, affiorando nel ricordo, aveva così profondamente turbato Madame de Rênal, e la cui storia “galeotta” proprio perché letta tante volte insieme, come nel modello dantesco di Paolo e Francesca, e con la presenza dei cani che divorano il cuore dell’amato, variante non di minore importanza facendo capo ad un altro topos di grande vitalità che dal mito di Atteone passa a Dante e al Boccaccio della novella di Nastagio degli Onesti (di cui si parlerà tra breve in questo stesso mensile) fa conquistare alla marchesa d’Arcos un posto d’onore in quella lunga catena, in quella lunga “schiera”, in quel lungo “corteo” degli amanti tragici.
Floriana Calitti
Università per Stranieri di Perugia
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[*SOMMARIO DEL MENSILE BOCCACCIO 700*]
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich
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Stendhal, Il rosso e il nero, introduzione, traduzione e note di Mario Lavagetto, Milano, Garzanti, 1968, p. 128;
Thomas, Tristano e Isotta, con la traduzione dal francese antico di F. Troncarelli, Milano, Garzanti, 1979, i versi citati alle pp. 32-33;
Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano, Milano, Rizzoli, 2013;
La castellana di Vergy, a cura di Giovanna Angeli, Roma, Salerno editrice, 1991;
Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, La vendetta di una donna, in Le Diaboliche, traduzione di Camillo Sbarbaro, Milano, SE, 2004;
Luciano Rossi, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal «Lai Guirun» al «Decameron», in Studi provenzali e francesi 82, «Romanica Vulgaria», Quaderni, 6, 1983, pp. 28-128;
Capitoli per una storia del cuore. Saggi sulla lirica romanza, a cura di Francesco Bruni, Palermo, Sellerio, 1988;
Mariella Di Maio, Il cuore mangiato. Storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini e Associati, 1996;
Leonardo Terrusi, Ancora sul “cuore mangiato”. Riflessioni sul Decameron IV9, con una postilla doniana, in «La parola del testo», II, 1998, pp. 49-62;
Paolo Canettieri, Guillem de Cabestanh e il cuore mangiato [2013 mag 16]. Available from:
http://paolocanettieri.wordpress.com/article/guilhem-de-cabestanh-e-il-cuore-mangiato