I brani sono tratti da Marzio Barbagli – Alla fine della vita. Ed. Il Mulino, 2018.
La febbre spagnola tra il 1918 e il 1920 fece 400.000 morti in Francia e 600.000 in Italia, in un mondo che allora contava poco più di 2 miliardi di abitanti, le stime dei morti (mai definite con certezza) contarono tra i 17 e i 100 milioni di morti.
Anche i nostri anziani, non ricordano quella pandemia che ebbe effetti finanche più nefasti della peste nera (a partire dal 1346 in Europa) che pure uccise un decimo della popolazione mondiale.
Mio padre, che invece la visse, alternava alle sue improvvisate fiabe, spesso più comiche che avventurose, il racconto di quell’influenza spagnola. Allora si faceva serio, il suo era un ricordo nitido, aveva al tempo tra i 14 e i 16 anni. Con enfasi drammaturgica mi ripeteva sovente, fissandomi con i suoi occhi blu che in Italia ogni famiglia aveva pianto almeno un caro deceduto. Io lo ascoltavo, mescolando le sue fiabe e questa epopea leggendaria, almeno per me ragazzino, epidemia che in più ondate (come si teme oggi con Covid-19) aveva fatto molto più morti dell’appena conclusa prima guerra mondiale.
Con cabalistica precisione, esattamente un secolo dopo, ci ritroviamo a fare i conti con una nuova pandemia, certo con mezzi ben diversi e con alle spalle una ricerca scientifica ben più efficace di allora, ma anche con una coscienza dei nostri limiti che è ancora tutta da ritrovare. Ricordando l’inquietante film di Lars Von Trier, la rubrica Controcanto presenta “Epidemic”, perché, anche se l’avevamo dimenticato, la storia, e anche la letteratura ci ricordano quanto peso hanno avuto le epidemie nello sviluppo evolutivo del nostro mondo. Come l’epidemie hanno influito nel nostro destino, come accadde in Mesopotamia con la fine dei Sumeri oppure, in tempi più recenti, con le ondate di peste, colera e vaiolo, su cui tanti autori si sono cimentati dal Boccaccio a Manzoni senza dimenticare che la stessa nascita di quella che possiamo definire, la nostra letteratura compiuta parte proprio dall’epidemia omerica raccontata nell’Iliade.
«Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale
Liberò dalla corda, ed un ronzío
Terribile mandò l’arco d’argento.
Prima i giumenti e i presti veltri assalse,
Poi le schiere a ferir prese, vibrando
Le mortifere punte; onde per tutto
Degli esanimi corpi ardean le pire»
(Omero, Iliade – Vincenzo Monti)
Ma cominciamo questa serie di scritti, dalle cronache del tempo che ci vengono riportate dagli studi di Marzio Barbagli, professore emerito dell’Università di Bologna, dove ha insegnato sociologia, nel suo recente e riflessivo libro: ”Alla fine della vita” edito da Il Mulino. Da queste brevi cronache si evince con chiarezza come l’epidemia fosse nel tempo un evento ricorrente con cui tutti dovevano fare i conti.
Marzio Barbagli. I lazzaretti.
Il primo fu fondato nel 1423 in un’isola di Venezia e chiamato Lazzaretto vecchio, e servì per gli ammalati certi. In quella città, nel 1471, ne fu aperto un secondo (il Lazzaretto nuovo) che doveva invece accogliere i sospetti. Nel Quattro-Cinquecento, questa strada fu seguita da molte altre città, in Italia e fuori: da quelle della terra ferma veneta, Padova, Brescia, Verona, Vicenza, Treviso e Bergamo a quelle di altre regioni, come Ferrara, Firenze, Milano, Mantova, Genova, Siena, Parma, Udine, Palermo, dove ve ne erano tre. (…) Nel lazzaretto di Milano, dove furono ricoverate decine di migliaia di ammalati, il direttore, padre Felice Casati, spesso digiuno, indossando il cilicio, passava per i portici, le capanne e le vie di questo ospedale: “di giorno imponendo coll’autorità del nome e del cappuccio, la notte armato di una lunga asta, qua raffrenava in segreto misfatti, là distribuiva pubblicamente premi e castighi, dove recava vesti e farmaci, dove porgendo orecchio alle confessioni dei moribondi gli confortava a lasciare il mondo colle speranze d’una vita migliore”. (trascrizione dal Ripamonti 1841).
Naturalmente, nessuno voleva essere portato al Lazzaretto “strascinato sul carro” scriveva Ludovico Muratori: “Consegnato a gente non conosciuta e inumana, fra i puzzori e le schifezze di tanti Ammorbati. Chi ha un animo cosi forte – si chiedeva questo studioso – dal non cadere nella disperazione al vedersi levato e rapito improvvisamente, e con rigori e violenze, dal proprio letto e casa, o dalle braccia de’ suoi più cari, con pericolo ancora o perdita di tutte le Robe sue e mirarsi portato in massa con altri Ammorbati in que’ Lazzeretti che pur sono come tante beccherie, e luoghi regolati, e non serviti per lo più da gente di poca o nessuna carità?” (Muratori – 1712).
La solitudine dell’infetto.
A Firenze e nel suo contado, secondo Merchionne di Coppo, la pestilenza era stata cosi forte che nelle case dove entrava: “chiunque servia niuno malato, tutti quelli che lo serviano, moriano di quel medesimo male, e quasi niuno passava lo quarto giorno. Fu di tanta paura che niuno non sapea che si fare; quando s’appigliava in alcuna casa, spesso avvenia che non vi rimanea persona che non morisse. E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma anche gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia[…] le genti spaventate abbandonavano la casa, e fuggivano in un’altra; e chi nella città, e chi si fuggia in villa […] Lo figliuolo abbandonava il padre, lo marito la moglie, la moglie il marito, l’uno fratello l’altro, l’una sirocchia l’altra ». (Merchionne di Coppo, 1780).
La segregazione.
“Il medico curante e il m.r. parroco hanno il dovere di persuadere l’ammalato a lasciarsi trasportare nell’ospedale quando ciò sia possibile senza aggravare le condizioni, specialmente poi se l’abitazione non si presti alla segregazione dei conquilini e famigliari e l’ammalato non possegga mezzi propri per governarsi”. ( Forti Messina 1984).
È probabile che in molte città si sia ripetuto quel fenomeno verificatosi a Livorno durante l’epidemia (di colera ndr) del 1837 e cosi descritto, da Giuseppe La Farina in una lettera al padre: “se povero era portato negli adatti ospedali; se agiato alla propria casa. Ivi la Sanità spediva due o tre guardie, delle quali una restava nell’andito della casa, onde impedire ogni comunicazione, le altre prendevano cura dell’ammalato”. (La Farina 1860).
Altri contributi di « Epidemic » nella rubrica Altritaliani « Controcanto »
Nicola Guarino
(L’immagine in evidenza è la foto di un ospedale ai tempi della febbre spagnola 1918.)