Cagliari per me, un lampo bianco al ‘parabrise’.

Da Sestu a Cagliari per arrivare a Parigi. La Cagliari al femminile di Carla Cristofoli. Odori, luci e sensazioni accanto ad una nonna fiera e combattiva. La lingua sarda e il suo faticoso confronto con l’italiano. Ma tutto comincia con la scrittrice sarda Maria Giacobbe.

Qualche anno fa ho avuto occasione, qui a Parigi, di incontrare Maria Giacobbe, scrittrice sarda, che rappresenta la chiave di volta della letteratura femminile sarda.

Forse per voi (Ô Lettori) che non siete né donne, né sardi, né nati nel ’68 questo non significa granché, ma per me, che invece sono donna sarda nata nel ’68, Maria Giacobbe rappresenta l’anello di congiunzione tra ‘la donna sarda sottomessa’ e ‘la donna sarda liberata’, in termini moderni e non matriarcali. Il suo lavoro è lo scatto verso l’evoluzione, verso la ‘mulier sapiens’. (n.d.r. Vedi Maria Giacobbe)

Sestu in provincia di Cagliari

Certo abbiamo avuto in seguito le nostre derive, più femminili che femministe, vedasi le numerose ‘Veline’ di Striscia la notizia o la fortunata fidanzata di George Clooney, ma, lasciatemelo dire, sono solo incidenti di percorso.

Certo è che da Maria Giacobbe in poi ‘la donna sarda cosciente di sé’ ha cessato di essere un’idea per diventare un fatto.

Incontro dunque la scrittrice in un Hotel, carino, ma non lussuoso. Sono carica di emozioni e la Giacobbe mi dice ‘Diamoci del tu’. Io ubbidisco e mi sento lanciata in un episodio di Ai confini con la realtà.

Non è sola, ma accompagnata dall’ultima dei suoi quattro nipoti: una ragazzina bionda e bella come solo un elfo scandinavo può esserlo.

Mi spiega che ogni suo nipote all’età di quindici anni ha ricevuto in regalo un viaggio con la nonna: lei. Solo loro due, da soli, senz’altro controllo parentale, per rafforzare il legame unico e specialissimo tra nonna e nipote.

Questa è la sua ultima nipote, il regalo è il viaggio a Parigi.

Mia nonna mi portava a Cagliari.

Dei 17 nipoti, solo io avevo il privilegio di accompagnare mia nonna a Cagliari. Così voglio credere e non indagherò.

Cagliari per me era come la Genova per Paolo Conte, per me che ero nata in fondo alla campagna, proprio dietro La Città. Era meraviglia, stupore, spavento, avventura. Era saltare un giorno di scuola, era il giorno di festa. Era Il viaggio.

Il viaggio erano 40 minuti di percorso con la corriera della SATAS, alias autobus, che mia nonna chiamava ‘Il Postale’, o meglio ‘Su postalli’. Perché la corriera o il postale portava la posta ed una volta che la posta veniva scaricata, dal bagagliaio (non dalla casella di posta elettronica), noi passeggeri ci salivamo e siccome mia nonna ed io arrivavamo prestissimo sulla piazza, eravamo le prime e sedevamo affianco all’autista, che ci accoglieva con un brumoso ‘E inzà?’, che vuol dire qualcosa tipo ‘come va?’ e mia nonna rispondeva con un ‘E inzà!’ affermativo, che vuol dire qualcosa tipo ‘Tutto bene, grazie’. Davanti al ‘parabrise’, diceva mia nonna, per evitare che mi venisse ‘brutta voglia’, cioé la nausea.

Il porto di Cagliari

Mia nonna andava spesso a Cagliari, riceveva le commissioni delle donne del vicinato: visite da fissare in cassa mutua, documenti da richiedere o ritirare, acquisti di beni di generi vari. Non so come mia nonna avesse imparato a districarsi nelle strade e negli uffici e nei commerci della grande città, forse era solo più coraggiosa, forse era un talento naturale. Un semplice plus genetico: il sapersela sbrogliare.

Dagli orti di Sestu, cosi si chiama il ridente villaggio dove io nacqui, si passava ad un lungo tratto della vecchia 131, accarezzata dai campi di grano, gialli di sole e dai chicchi grossi come noci.

La Città si manifestava lentamente, solo all’ingresso del Cimitero di San Michele, circondato da palazzoni grigi cominciava a prendere la sua forma. Il postale s’infilava, svoltando ora a destra, ora a sinistra, nelle vie e si addentrava in quello che a me sembrava un labirinto sempre più intricato sino ad arrivare al Porto.

Ed eccola Cagliari: un lampo bianco al ‘parabrise’.

Il porto era subito al lato destro fuori dalla stazione delle corriere, sempre pieno di vento, che spettinava i miei capelli e le chiome delle palme che lo definivano in tutta la sua lunghezza e che facevano da belvedere ai portici della Via Roma, che si perdeva in fondo al mio orizzonte.

Il mare di Cagliari

Per vostra conoscenza la Via Roma sta a Cagliari come la rue de Rivoli sta a Parigi. Lì troverete le boutique (non i negozi o peggio le botteghe), lì mia nonna ed io ci andavamo solo per far turismo, tanto per vedere. Raramente, che prima c’era da sbrigare altro.

‘E sbrigadiri’ mi diceva mia nonna trascinandomi per un braccio, mentre attraversavamo la Piazza Matteotti, che si apre davanti al bianco palazzo spagnolo del comune. La piazza era buia come un bosco. Enormi erano i ficus dalle foglie grosse ed oleose e le cui radici possenti occupavano in modo confuso il pavimento e con prepotenza spaccavano il cemento per sorgere dalle profondità.

Saltavamo dunque di qua e di là per evitare d’inciampare sulle radici muscolose della piazza per salire sulla piccola Via Sassari, da cui si raggiungeva la Piazza del Carmine, che allora era considerata il salotto buono. Al contrario della prima è larga, aperta, ordinatamente piantumata ai lati e con al centro una specie di palco su cui si esibisce la Madonna, del Carmine, appunto.

Due erano gli appuntamenti d’obbligo sulla Piazza del Carmine.

Il primo: comprare Il caffè macinato alla Lavazza. Una bottega odorosa, tappezzata di scaffali scuri, carichi di scatole di latta. Si comprava il caffè in chicchi e se volevi lo macinavano, cosa che mia nonna voleva. Ed ero contenta che lo volesse, perché i chicchi profumano, ma quando li macini il risultato è un’esperienza mistico-olfattiva senza eguali. Mi bastava annusare cinque minuti e non riuscire più a dormire per i tre giorni successivi. Un’overdose di caffeina.

Seconda tappa: visita alla Chiesa del Carmine, ovviamente.
La Chiesa della Madonna del Carmine, distrutta nei bombardamenti del ’43 è un fuoco d’artificio di generi architettonici e laboratori artistici: sovrapposizioni ben riuscite.

Enorme il mosaico absidale, opera modernissima di Aligi Sassu, che racconta la storia del Carmelo. Mi piaceva tanto, tutto colorato e diviso in riquadri come le figurine dell’album dei giocatori. Mi spaventava, invece, la statua lignea della Madonna, alla quale io e mia nonna attribuivamo poteri magici, perché, mi raccontava, come tale statua venne portata dal Monte Carmelo a Roma e donata ad un membro della famiglia Ripoli di Neoneli. Nel viaggio verso Cagliari, questi si salvò da una tremenda tempesta, e come ringraziamento fece costruire proprio quella cappella in onore della Madonna.

Cagliari, Piazza del Carmine

‘Prega, filla mia, prega’ m’incitava mia nonna ‘che ci protegge pure a noi’, nel nostro viaggio a Cagliari, pensavo io, e già mi sentivo lontana anni luce da casa.
‘Hai fatto la preghierina?‘, chiedeva mia nonna, ‘Si, nonna’, ‘e per chi hai pregato?’, s’incuriosiva, e stavo attenta a dare le giuste priorità ai diversi membri della famiglia, cercando di capire chi in quel preciso momento avesse più bisogno di preghiere. Esitavo sotto lo sguardo di mia nonna e della Madonna di legno, che mi guardava severa come una regina spagnola.

Non volevo correre rischi:

‘Per tutti’
‘Tutti, tutti?’
‘Tutti, tutti’
‘E inzà andausu’

E allora andiamo, usciamo, torniamo all’aria bianca e accesa della piazza, della città che continua a salire e sale e sale e non si ferma mai.

‘Ta traballosu custu logu!’ ansimava mia nonna, ed era vero, è vero. Cagliari è faticosa, è tutta in salita.

Sali lungo la Via Sassari, compra il pane, che profuma croccante sino alla Via Mameli, tagliane un pezzetto da smangiucchiare, taglia a destra, sempre in salita, verso il Largo, che sale sulla Piazza Yenne. Ed è vero che è fatica, ma poi, come tutti gli scalatori, quando arrivi in cima e riprendi fiato, che soddisfazione! Che bello che è il mare, scintillante e festoso lì sotto, con tutte quelle belle barchette che fanno ‘ciao’ con le vele e i loro alberi maggiori e minori.

Dalla Piazza Yenne, il cammeo più grazioso di Cagliari, si accede alla Via Manno. La sciccosa via dello shopping. Adesso si fa shopping, allora si faceva commercio. Dalla via commerciale scendono in picchiata le stradine del quartiere La Marina e tutte ritornano come torrenti al porto.

Qui si respira l’anima più ‘butteghera’ della città. Essere commercianti per i cagliaritani non è un mestiere, è un pensiero, è la natura stessa. È Cagliari.
Ad esserlo i cagliaritani l’hanno imparato dai cartaginesi, migliorando il mestiere con i romani e a perfezionarlo e direi quasi ad aggraziarlo con i pisani.

Oggi le botteghe de La Marina sono caffè, ristoranti, graziose boutique, allora erano ‘buttegas’, con la porta aperta sulla strada da cui alitava l’aria fresca d’umidità marina.

Mia nonna non andava sulla Via Manno a far shopping, svoltato l’angolo tra il Largo e la via, la donna subiva una misteriosa trasformazione: da cortese e riservata diventava battagliera e consumata commerciante.

Con fare deciso saliva verso la bottega di Signor Giuseppe, che vendeva mutande, canottiere e calzini in filo di Scozia, reputatissimi.

Precisazione:

nei 10 chilometri che dividono Sestu da Cagliari c’era una sorta di ‘border line’, che non sono mai riuscita ad individuare, attraversata la quale si produceva un’impennata sociale davvero interessante.

Nel mio paese tutti i Signori erano appellati ‘Ziu’ (Ziu Franciscu, Ziu Vincenzu, Ziu Boiccu, etc.) e tutte le Signore ‘Zia’ (Zia Maria, Zia Bissenta, Zia Bibiana, ecc.).

Arrivati a Cagliari la lingua sarda faceva una gentile concessione all’italiano, nel desiderio, forse, di elevarsi socialmente, per cui tutti gli ‘Ziu’ diventavano ‘Signori’ e tutte le ‘Zia’ diventavano ‘Signore’.

Signor Giuseppe, quindi, era il commerciante preferito di mia nonna, che era cliente e in quanto tale ‘Signora Bonaria’.

Mia nonna non comprava, discuteva, Signor Giuseppe non vendeva, discuteva. Il prezzo di partenza non era mai quello finale e tra la partenza e l’arrivo c’erano lunghe discussioni e trattative, animate e furiose. C’era un agitare di braccia e di mani a indicare l’oggetto della trattazione, a sbandierarne le qualità, la finezza, l’indiscutibile valore. Una lingua dei segni conosciuta solo da loro.

Mia nonna alzava la voce e Signor Giuseppe l’abbassava, lei abbassava il tono e Signor Giuseppe alzava la voce, in un duetto in cui io mi vergognavo come una ladra.

‘Nonna‘, invocavo.

‘Citti’, intimava lei. E io zittivo, che non son cose da bambini, queste.
Poi con uno scatto di reni, mia nonna faceva finta di andar via. Faceva finta, chiaramente, ma il Signor Giuseppe si allarmava, usciva dalla bottega e la richiamava e lei, scontrosa, niente.

Io non ci credo che il Signor Giuseppe non lo capisse, lo capivo io che avevo sette anni, figurati lui, scafato com’era, che in quella bottega poi ci ha fatto una delle boutique più eleganti della Via Manno, poco lontano da dove ora c’è ‘Zara’.
Secondo me, Signor Giuseppe, appena vedeva mia nonna svoltare l’angolo aveva già in testa il prezzo finale, e tutto il resto era puro gusto della trattativa.
Gusto provava mia nonna quando Signor Giuseppe dall’alto la richiamava ancora e ancora e infine pronunciava la frase risolutiva:

‘Torridi, Signora Bonaria, che già si du fazzu su prezziu!’.

Mamma mia, com’era sexy mia nonna, quando a quella frase voltava verso di me la testolina già bianca acconciata in una crocchia e un sorriso malizioso da ragazzina.

Era quella “l’espressione un po’ così” della ‘Vittoria’ sul maschio dominato.
Rimontava dunque le curve della Via Manno e chiudeva l’affare. Al prezzo voluto da mia nonna e stabilito da Signor Giuseppe.

Signor Giuseppe non c’è più, né la sua bottega. Neanche mia nonna.

È strano come io ripensi a lei in uno dei luoghi di Cagliari dove insieme non siamo mai state. Sul Viale Buoncammino, che è un alto belvedere, il punto più alto all’interno della città, lungo il quale sfila l’antico carcere omonimo e sull’altro lato del viale si apre una magnifica terrazza verso la città, il mare e l’immenso stagno di Santa Gilla.

Forse perché io là ci salivo dalla fossa de Sa Duchessa, dove s’incastra l’antica università di Cagliari, un palazzone accerchiato da prefabbricati montati in modo schizoide. Università che io ho frequentato, non per passione, ma su pressione di mia nonna e di mia madre e pure delle mie zie.

Studia, filla mia, studia. – Salmodiavano in coro tutte quante, come canto ‘a tenores’. Era convinzione che, non la rivoluzione, ma un eventuale riscatto dovesse partire dall’alto, cioè dalla testa e da lì arrivare alle tasche e dunque restituire l’autonomia economica.

E io studiavo. Frequentavo lezioni tanto interessanti quanto inutili: Carlo Ricci ci parlava dell’inferno e del paradiso, a noi che il paradiso l’avevamo perso e ci infilavamo in un inferno di disoccupazione e miseria.

Claudio Magris ci parlava dell’Italiano ‘neo-standard’ e cosi ci giungeva dal ‘Continente’ la notizia che l’italiano stava già cambiando, a noi che l’Italiano Standard ce l’avevano infilato in bocca a forza, strappandoci con la tenaglia dell’analisi logica la lingua sarda.

Cagliari, Piazza Yenna

Dev’essere stato allora che noi sardi abbiamo smesso di parlarci e di capirci. Chissà.

Non che mi dispiaccia parlare italiano. Anzi, devo dire che tra le lingue straniere studiate è quella con cui mi sento più a mio agio. Per approssimazione, ovviamente. Soprattutto con i congiuntivi all’imperfetto.

E così, dopo tali lezioni, con la testa piena di confusa sapienza, risalivo a piedi la china che da Sa Duchessa porta al Viale Buoncammino. Il terrapieno si alza di scatto, come la parete di un canyon.

I neo-patentati ci vanno per imparare a spuntare, che se sai spuntare all’incrocio tra Sa Duchessa e l’elegantissima Viale Merello, la puoi spuntare ovunque, non c’è salita che ti resista.

In quell’equilibrio di fine maestria tra frizione ed acceleratore, che è poi lo spirito stesso di Cagliari e della Sardegna tutta: perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione.

Anche se, lo confesso, una botta d’acceleratore a volte mi piacerebbe che si desse. Si vedrà.

Fatelo anche voi (Ô Lettori), quando visiterete Cagliari. Affrontate la salita de Sa Duchessa, non abbiate paura, non è mai morto nessuno.

Avviate il passo lentamente, senza fretta, respirate ed inspirate profondamente: non mollate. Arriverete con il fiatone, senza dubbio. Ne sarete contenti, non solo perché siete arrivati, ma anche perché lo spettacolo che vi si presenterà sarà, ancora una volta, mozza fiato.

Cagliari, Via Roma

Sedetevi in una delle panchine centrali del belvedere. Probabilmente avrete il carcere alle spalle, probabilmente vi giungeranno le voci dei condannati, che gridano giustizia, ma voi non fatteci caso, non ci fa caso nessuno. Non fatelo neanche voi.

Voi guardate oltre, avanti. Cagliari è tutta li, ai vostri piedi, sospesa sulle sue acque. Forse non è ancora il paradiso, ma ha i tratti di un paradiso terrestre, pronto a slanciarsi.

Castello, La Marina, Stampace, Villanova, tutti i suoi quartieri più antichi sono ai vostri piedi.

Cagliari non invecchia. Anzi, ringiovanisce: è una bella ragazza, che si rifà il trucco tutte le sere ed ha sempre un vestito nuovo da indossare. Piena di voglie, di speranze, di desideri, di ansie e di progetti sempre nuovi ed entusiasmanti. E di contraddizioni, certo. E chi non ce le ha.

Cagliari vibra di iniziative culturali ed artistiche. Ogni sera un concerto, un’esposizione, un film, la presentazione di un libro.

Appoggiate bene le piante dei piedi al suolo. Scalzatevi, se volete (Cagliari è molto pulita!).

Sentirete le vibrazioni che dal profondo spingono la città verso l’alto, verso il suo avvenire, pronta ad esplodere in tutta la sua bellezza, troppo a lungo trattenuta.
Non è illusione o sogno. Si chiama speranza. Qualcuno la chiama ‘Europa’. Ed è bella carica.

Sarà lì in quel preciso luogo che Cagliari vi apparirà come molti anni fa è apparsa a me.

Un lampo bianco al parabrise.

Carla Cristofoli

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Carla Cristofoli
Carla Cristofoli è nata a Cagliari. Dal 2008 vive e lavora a Parigi, dove insegna italiano. È autrice di due racconti per bambini. Scrive regolarmente brevi racconti, pubblicati su riviste online. È co-fondatrice e responsabile di FormaRes.fr, centro online di formazione per la lingua italiana. Dal 2015 collabora con il magazine Altritaliani.net, per il quale pubblica recensioni su romanzi, raccolte di racconti e poesia a tematiche contemporanee.

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