Veloce-lento in certi romanzi italiani di oggi.

Veloce-lento una formula nei romanzi italiani di oggi. Tale formula la ritroviamo nei romanzi di Paolo Volponi ed Antonio Porta, che, rispettivamente ne “Il pianeta irritabile” e “Il re del magazzino”, raccontano di un mondo post-catastrofe, in cui l’uomo è scomparso o finirà per scomparire, oppure ritroviamo una dialettica fra velocità e lentezza ulteriormente complicata in “Nina dei Lupi”, di Alessandro Bertante e nei romanzi “Sirene”, di Laura Pugno e “Bambini bonsai” di Paolo Zanotti.
Dicotomia fra velocità e lentezza che non è appagata nemmeno nei romanzi più moderni ma la cui lettura, nelle fredde giornate d’inverno, potrà certamente appagarci.

Un romanzo decide di ambientare la propria vicenda in un futuro immaginario. La realtà che esso -come ogni altro romanzo- rappresenta è certo quella di un universo parallello, soltanto ipotetico, uno dei tanti “mondi possibili”, per dirla con il teorico Thomas Pavel, dei piani virtuali con cui romanzi, film e qualsiasi altra costruzione finzionale, circondano – oggi sarebbe più opportuno dire assediano- la “realtà reale”.

Nella formula del romanzo utopico, come in quella del romanzo di fantascienza, c’è però una scommessa in più: c’è, in parte, la decisione di anticipare il tempo, di accorciare le distanze fra l’ora del lettore e un ipotetico mondo avvenire, di provare ad accelerare, a saltare d’un balzo l’attesa. Un effetto di accelerazione che non di rado si somma a quello prodotto dal contenuto del testo stesso e lo reduplica. Spesso il futuro d’invenzione –in particolare nel periodo più classico del romanzo di fantascienza- è un futuro caratterizzato dalla ipervelocizzazione di ogni aspetto dell’esistenza, dagli spostamenti, ai pensieri umani. Si pensi all’azzardo logico che sta alla base di un racconto come Minority Report, di Philip Dick: i tutori dell’ordine sono talmente veloci che anticipano i crimini, e piombano sul colpevole prima che abbia commesso il misfatto.

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Esiste però, storicamente, anche la formula opposta, legata a quei romanzi che si definiscono distopici: il futuro che magicamente ci viene messo davanti agli occhi, per quanto immaginato cronologicamente posteriore ai nostri giorni, è diventato qualcosa di molto simile al nostro passato, o addirittura alla nostra preistoria.

In Italia questo modello è stato esplorato con risultati molto interessanti, ad esempio, negli anni settanta, da due autori prestati al genere, se così si può dire: Paolo Volponi ed Antonio Porta, che, rispettivamente ne Il pianeta irritabile e Il re del magazzino, raccontano di un mondo post-catastrofe, in cui l’uomo è scomparso o finirà per scomparire, ed in cui tutto riparte dalla verginità elementare, dal puro essere della natura animale.

Recentemente un romanzo come Nina dei Lupi, di Alessandro Bertante, pare immettersi su questa scia. Nel futuro ipotizzato da Bertante, in seguito ad una non troppo definita, catastrofica sciagura (un’epidemia, si direbbe, proveniente dal cielo) il mondo umano è piombato in una sorta di spaventoso medio-evo fatto di violenza e sopraffazione, in cui si muovono bande di neoguerrieri (un tempo individui ordinari, perfettamente inseriti nel meccanismo sociale) animate dalla propria incontenibile furia predatoria ed omicida, esasperazione perversa di un feroce istinto di sopravvivenza. Ѐ questa, se si vuole, soltanto la prima delle declinazioni dell’idea di passato contenute nel libro.

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Poiché in questa nuova età del buio, una comunità pacifica, isolatasi sulle montagne, dopo aver ostruito con una frana l’unica strada che porta al villaggio, prova a ricominciare da capo. O meglio, a ricominciare dal passato, da una seconda idea di passato, da una vita che asseconda i ritmi della natura, in cui gli uomini traggono sostentamento dalla caccia e dalla coltivazione. L’idillio, come si può prevedere, termina presto; i cattivi riescono ad arrivare sin lì, distruggono, uccidono e schiavizzano i superstiti. Si salva soltanto la giovanissima Nina, che trova rifugio presso Alessio. Alessio, e da quel momento Nina, incarnano la terza dimensione del passato: quella che addirittura precede l’avvento delle comunità, in cui l’uomo vive solo ed è ancora, in parte, natura. O forse sarebbe meglio dire: ha la natura dalla sua parte. Gli alleati di Alessio e Nina (che si riappropieranno del villaggio, sconfiggendo la banda rivale) sono dei lupi.

Ancora una volta l’intelligenza animale, o meglio il sentire animale, sembra rappresentare una delle vie di salvezza dell’uomo. Un aiuto, questa volta, più che una nuova, auspicata condizione di vita, come nei romanzi di Volponi e Porta.

Fatto sta che l’iperaccelerazione del mondo, la sua insostenibilità, è esplosa (la catastrofe di cui si parla nel romanzo, la “sciagura” che ha fatto terminare il nostro mondo, è figura neanche tanto metaforica di una frattura traumatica da eccesso di pressione, da ingolfamento della storia dovuto alla troppa velocità); e il futuro re-immette al passato, la velocità al tempo ciclico, lento, in cui la natura si riappropria di ciò che ha perso. Perché può aspettare, lei. I suoi tempi sono ben più vasti di quelli della storia umana. Non è un caso che Bertante ci ricordi come tutti gli animali che un tempo abitavano le nostre montagne, le stiano lentamente ripopolando (la sua intervista può essere vista qui: http://www.youtube.com/watch?v=WPx9kdQ0B3k).

La dialettica fra velocità e lentezza è però ulteriormente complicata, nel romanzo di Bertante, dalla modalità della sua scrittura: quello di Bertante è un linguaggio immediato, transitivo, tutto teso, nella intensità e nel nitore della sua resa rappresentativa, ad esercitare una presa diretta sul mondo immaginario che disegna come sul lettore cui si rivolge. Una lingua che non indugia su se stessa, se si vuole.

Il critico Daniele Giglioli ha evocato, in rapporto al romanzo, la categoria della “postmedialità”: si ha l’impressione –spiega Giglioli- che il romanzo voglia abolire lo spessore del suo medium, la lingua: “ Ѐ come se la lingua aspirasse a farsi trasparente, come se il libro non volesse essere in realtà un libro, ma comunicazione diretta da pensiero a pensiero, da un sogno a un altro sogno” (da Alias, supplemento settimanale de “Il Manifesto”, 19-03-2011). Inutile sottolineare come una simile ideale ambizione a costruire una sorta di ponte, di canale di passaggio istantaneo dall’immaginario dell’ autore a quello del lettore, l’elemento della velocità, nella sua forma più estremizzata, quella della simultaneità, torni ad affermarsi là dove, a livello del contenuto, sembrava essere messo in discussione.

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La lettura di questo romanzo ci pone, insomma, di fronte ad un insieme di questioni che problematizzano il rapporto fra le coppie futuro-velocità e presente-lentezza. E credo sia interessante confrontare le scelte narrative di Nina dei lupi a quelle di altri romanzi, più o meno contemporanei, che sollevano questioni simili.

Si pensi ad un romanzo importantissimo come Sirene, di Laura Pugno, che già nel 2007 immaginava un futuro in cui il sole stesso diviene fattore di morte, ed in cui l’unica, vera esistenza libera potrà essere solo quella che ricomincia –o si affida per la prima volta incontestabilmente- dall’esistenza animale (ma il testo della Pugno meriterebbe di essere discusso ben più ampiamente), incondizionata e nuovamente vergine nel proprio coincidere con la mera energia vitale.

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Oppure si pensi al romanzo di esordio di Paolo Zanotti (di cui avevo già parlato brevemente in questo sito): Bambini bonsai, dove i protagonisti bambini del futuro surreale in cui si ambienta la vicenda, incontrano una sorta di oggetto del desiderio che è anche metafora di un nuovo paradosso temporale: la bambina bonsai, dagli occhi di albicocca, una bambina che per non invecchiare, per restare eternamente giovane, vive ad intervalli, concede alla vita, e dunque all’usura del tempo, rarissimi istanti, per poi tornare alla propria condizione di essere liofilizzato, di bella addormentata sospesa, congelata in una sorta di non tempo, in cui l’età non avanza. Va detto, fra l’altro, che in quest’ultimo romanzo, (diversamente da ciò che succedeva nel libro di Bertante) la lingua possiede quella che i teorici della letteratura definirebbero una maggiore opacità; si tratta, infatti, di un linguaggio che ha una forte carica figurale e metaforica, e che dunque impone un ritmo relativamente più lento.

Ed a proposito di opacità e di densità della lingua, c’è un altro interessantissimo romanzo che si lega a tutta questa serie di problematiche. Si tratta di Dai cancelli d’acciaio, di Gabriele Frasca. Quello di Frasca non è un vero e proprio romanzo di fantascienza. La vicenda è ambientata, piuttosto, in un mondo questa volta davvero parallelo al nostro, anche cronologicamente, si direbbe (semmai in anticipo di qualche anno).

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Difficile riassumerne la trama. Diciamo che le storie di una serie di personaggi ruotano attorno al rituale perverso che, ogni venerdì notte, si tiene nei sotterranei della megadiscoteca di una città di provincia. Si tratta di un rituale che unisce sessualità e morte, simbologia cristiana e voyerismo tecnologico. Ciò che di questo libro mi sembra interessante, però, in relazione al contrasto fra il tempo della velocità e quello della lentezza, non è tanto il contenuto, quanto da una parte il modo in cui è stato concepito e prodotto, dall’altra la forma della sua scrittura. Quello di Frasca è, infatti, un romanzo uscito originariamente a dispense, vale a dire per singoli episodi, destinati a dei sottoscrittori. Il suo autore ha divolta in volta inviato le singole parti del romanzo, man mano che le scriveva, a dei lettori (per i lettori) che le richiedevano, e che pagavano per avere il seguito. Solo in seguito i vari fascicoli sono stati raccolti in un volume, normalmente venduto in libreria. Frasca ha spiegato (qui: http://www.lucasossellaeditore.it/Catalogo/Mente/Dai-cancelli-d-acciaio-Frasca-Gabriele , si tratta della presentazione del romanzo all’Università Federico II di Napoli) come sia stato in realtà Sterne, nel 700, a introdurre questa formula; una formula che consente di far sì che tutti i lettori dei vari fascicoli fruiscano del testo più o meno nello stesso lasso di tempo: un modo, dunque –spiega Frasca- di riavvicinare la comunicazione letteraria a quella orale: qualcuno parla, gli altri ascoltano le sue parole, nello stesso momento, tutti assieme.

Ancora una volta, dunque, ad essere invocata è la simultaneità (una simultaneità ideale, l’ambizione della simultaneità). Eppure con la dimensione della simultaneità, e dunque della velocità, contrasta lo stile della scrittura di Frasca. Una scrittura talmente lavorata, talmente improntata alla costante ricerca della densità e della complessità espressiva, da richiedere il tempo dilatato di una fruizione che è assieme studio e decifrazione, interpretazione e intima esperienza estetica.

Nuovamente un paradosso, dunque, a dimostrare come velocità e lentezza, accelerazione e distensione temporale, nella letteratura italiana contemporanea siano due versanti il cui rapporto sia sovente un intreccio da indagare nella sua complessità.

Giovanni Solinas
Università della Sorbonne III

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