Nel 1975 fu pubblicato un rapporto della Commissione Trilaterale firmato da Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki.
La Commissione era stata fondata due anni prima grazie al contributo di David Rockefeller. L’obiettivo era facilitare il dialogo internazionale tra privati cittadini che occupavano posti di potere in Europa occidentale, America settentrionale e Giappone.
Nel corso del primo incontro tenuto a Tokyo nell’ottobre del 1973, furono stabiliti i criteri che ne avrebbero guidato l’impegno e che possono essere così riassunti: rafforzare la cooperazione tra gli Stati Uniti e i loro alleati in un contesto globale caratterizzato dall’aumento dell’interdipendenza e, quindi, della moltiplicazione di problemi comuni.
In particolare, la trasformazione dell’economia capitalistica e le sfide dei movimenti di protesta sociale erano considerati i fenomeni più critici che richiedevano alle democrazie industrializzate la condivisione delle scelte e delle decisioni politiche.
Nel rapporto pubblicato sotto la supervisione del direttore della Commissione, Zbigniew Brzezinski, si ravvisava nella crescita della partecipazione e nella proliferazione delle richieste politiche una delle cause principali della crisi della democrazia. L’impegno e la partecipazione politica stavano creando un sovraccarico sui governi. Le istituzioni democratiche dei paesi più ricchi correvano il rischio di essere travolte dalle speranze alimentate dall’avvento di società opulente e dalla lenta erosione del principio di autorità.
Tale processo si stava diffondendo anche nei sindacati e nelle imprese, nelle scuole e nelle università, nelle associazioni e nelle chiese. In passato tutte queste istituzioni avevano giocato un ruolo decisivo nella formazione dei giovani, ma ora non erano più in grado di trasmettere quel senso di responsabilità indispensabile alla qualità e alla governabilità delle democrazie. In particolare, e con riferimento all’Italia, si lamentava il preoccupante affaticamento del nostro paese a causa di una burocrazia debole e di un sistema politico instabile, quindi incapace di prendere decisioni e facilitare il raggiungimento di accordi condivisi.
Quando il rapporto fu chiuso, il 15 agosto 1975, erano trascorsi esattamente quattro anni dalla decisione di Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro. Con quella scelta era stata avviata una nuova stagione del capitalismo finanziario: una trasformazione del regime economico internazionale dagli esiti allora imprevedibili, ma che richiedeva, a detta dei più, una governance internazionale. Nel frattempo la crisi aveva colpito numerosi paesi, pur se con effetti differenti: in Italia, dopo il miracolo economico degli anni Sessanta, erano state prese misure drastiche come il blocco dei prezzi, l’introduzione delle targhe alterne per la circolazione automobilistica, la cassa integrazione nella grande industria, ecc.. ma soprattutto il paese era entrato nella stagione della “strategia della tensione” (dopo la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969) e successivamente del cosiddetto “partito armato”. Nel 1975, è vero, le Brigate Rosse erano state decimate dagli arresti, ma nel giro di due anni si sarebbero rafforzate fino a tentare “un colpo al cuore dello Stato” con il rapimento e il successivo assassinio di Moro (16 marzo/9 maggio 1978).
Difficile è tirare oggi un bilancio di quel periodo. Ma quanto è avvenuto nell’Italia degli anni Settanta ha smentito le argomentazioni contenute nel rapporto della Commissione Trilaterale. Il problema del paese non era ridimensionare la partecipazione politica per rafforzare la governabilità; semmai occorreva trovare una soluzione politica al problema dell’alternanza al governo: avvicendamento reso improponibile a causa del blocco del sistema politico imposto dalla guerra fredda. Come ha scritto Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi 2007, p. 79), “l’energia civica che a quell’epoca si manifestò non fu allora utilizzata e dopo non è stata più disponibile, almeno nella misura in cui era stata generata”.
La crisi della democrazia non fu dovuta all’effetto della partecipazione e al sovraccarico sociale sul governo; semmai, tutto al contrario, fu il vincolo internazionale a bloccare il paese e a non consentire lo sviluppo democratico delle sue istituzioni. Del resto, come avvertì Ralf Dahrendorf in un commento critico al rapporto, il rinnovamento dello stesso sistema internazionale auspicato dalla Commissione si poneva “non solo in termini dell’effettività delle nuove istituzioni internazionali ma anche in termini della loro qualità democratica” (The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press 1975, p. 192).
C’è a tutt’oggi un silenzio assordante sulla tragedia italiana degli anni Settanta. Probabilmente molti problemi attuali sono imputabili all’incapacità di comprendere tale stagione e di “farsene una ragione”. Penso risieda in quella “guerra civile simulata”, come l’ha definita Luigi Manconi, l’origine della crisi non risolta della democrazia italiana. Incapace di transitare dalla prima alla seconda Repubblica, l’Italia di oggi ha finito col ritrovarsi, per salvare la sua tenuta economica, ad accettare le condizioni e le drastiche misure di un “governo strano” (l’espressione è stata impiegata nel corso di un’intervista televisiva dal premier Mario Monti).
In realtà non è tanto il suo governo ad essere “strano”, ma lo stesso sistema democratico nazionale sempre in bilico tra parlamentarismo e tendenza al premierato. Eppure il problema di oggi, così come negli anni Settanta, non è tanto la governabilità della democrazia, quanto la qualità del rapporto tra energia civica interna e vincolo internazionale.
(nelle foto dall’alto in basso: Aldo Moro e Mario Monti).
Emidio Diodato
(Politologo – Università per stranieri di Perugia)