Per molti anni, l’Italia non sembra aver giocato un ruolo importante nel governare i processi politici che hanno accompagnato l’introduzione dell’euro. Già prima della moneta unica europea si era diffuso sulla stampa un acronimo offensivo per descrivere quei paesi del Sud Europa con economie deboli (PIGS, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), e pur se dalla crisi del 2008 l’Irlanda ha preso il posto dell’Italia, in tempi più recenti si è tornati a parlare di una vera e propria divisione e contrapposizione tra Nord e Sud Europa.
In molti hanno osservato che ciò ha favorito il riemergere di stereotipi anti-italiani che sembravano superati dopo la crescita economica del nostro paese nella seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, terza più grande economia della zona dell’euro, nell’ultimo anno l’Italia è diventata più attiva quando si è trattato di raggiungere il consenso su decisioni che riguardavano il futuro dell’Unione europea.
Senza dubbio questo paradossale effetto della crisi può essere attribuito all’abilità diplomatica del Primo ministro Mario Monti. Se la politica di tagli e tasse, senza riforme incisive, può essere considerata deludente rispetto alle aspettative generate da un governo di esperti economici, la fine della marginalizzazione dell’Italia e il suo ritorno al centro del processo decisionale europeo sono da considerarsi come risultati al di sopra delle più ottimistiche speranze.
Allo stesso modo, sorprendente è stato il garbato senso di orgoglio nazionale che ha accompagnato l’accostamento dei due Super-Mario (Monti e il calciatore Balotelli) suggerito dalla stampa durante gli scorsi europei di calcio. Negli stessi giorni, è stato abbandonato un bambino in un ospedale attrezzato ad accogliere chi non si sente in grado di allevare un figlio, per problemi economici, ed è stato chiamato prontamente Mario.
Ciò che tuttavia sorprende ancor più è che nonostante i tagli e le tasse, l’aumento della povertà tra i meno fortunati, e il continuo venire a conoscenza di corruzioni di vario tipo, gli italiani non abbiano mostrato una propensione alla protesta. Certo, ci sono stati casi anche eclatanti di lotta in difesa del lavoro, ma né i sindacati e neppure altre organizzazioni politiche sono stati capaci di mobilitare quella parte della popolazione che soffre di più la crisi.
Difficile è dire se prevalga la rassegnazione al sacrificio, mista alla speranza che questo serva ad uscire dalla crisi, oppure l’attesa che l’anomalia dell’esperienza del governo Monti concluda la sua fase transitoria, magari dopo aver dato anche qualche piccola soddisfazione nazionale (ricorre qui il tema del Super-Mario, che, ironia della sorte, rinvia anche a un video game di successo internazionale).
Nel 2013 si concluderanno l’esperienza di questo governo no-partisan e il mandato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Anche qualora emergesse una grande coalizione, addirittura guidata da Monti, verrebbero meno le condizioni di un governo che risponde solo all’esterno, poiché occorrerebbe trovare anche il consenso interno. Qualunque uomo o donna sostituirà Napolitano, addirittura lo stesso Monti, non potrebbe non considerare che una democrazia deve sì, oramai, rispondere anche all’esterno, ma a partire da un impegno politico acquisito all’interno.
Qualora accadesse il contrario, non solo la democrazia sarebbe seriamente compromessa, ma le stesse conseguenze sulla pace sociale tra gli italiani potrebbero essere micidiali.
Un governo democratico deve ottenere il consenso all’esterno e all’interno, ma a partire da una piattaforma politica che mantenga compatto il corpo sociale. E se dopo un anno di governo Monti, l’Italia sembra giocare un ruolo nel governare i processi politici europei, il sistema politico interno appare molto più debole di quanto non fosse già al momento della caduta di Berlusconi, sia per la disintegrazione della coalizione di centro-destra sia per la balcanizzazione del centro-sinistra.
Emidio Diodato
Professore associato di Scienza politica
Università per Stranieri di Perugia