Il bel Spaese: Rom tra rabbia e silenzio

Milan e Vera, due rom di un campo alle porte di Napoli, originari dell’ex-Jugoslavia, ci raccontano del “bel Spaese”. “Due versioni del mondo diverse: una patriarcale e statica, l’altra aperta e franca”. Due anni fa, le loro nipotine morirono annegate alla vicina spiaggia di Torregaveta. Tra l’indifferenza generale. Un indifferenza che fece scalpore e di cui si parlo’ anche in Francia. Un angolo della multietnicità dell’Italia di oggi.

Abitazioni pulite, panni stesi ad asciugare, i bambini, in una giornata fredda ma solare, giocano all’aperto, gli uomini parlano tra loro e le donne si affaccendano nei lavori domestici. Tutto normale insomma, se non fosse per il fatto che è un campo rom. Alle porte di Melito, vicino il carcere di Secondigliano, in una zona periferica disagiata del napoletano, c’è un villaggio d’accoglienza comunale, unico polo per i rom dell’ex-Jugoslavia. Baracche, container, roulotte e abitazioni di fortuna accolgono 10 persone alla volta per un totale di 450. I bambini iscritti nelle scuole primarie sono 140, con una frequenza pari al 70%. Situazione positiva specialmente se confrontata a quella di Giugliano di Napoli che è la più preoccupante. Secondo i dati forniti da Vincenzo Esposito, consigliere nazionale Opera Nomadi, sono 600 le persone distribuite in 13 campi all’interno della zona ASI. E poi chiarisce: “Non vi sono servizi igienici, idrici ed elettrici, le condizioni generali sono precarissime poiché vivono a ridosso di discariche sature di ogni sorta di rifiuti. La dispersione scolastica dei bambini rom è altissima”.

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Djordjevic Milan, 47 anni, originario della Macedonia, apre le porte della sua casa, una delle prime del campo di Secondigliano, una delle più grandi, nata dall’unione di due baracche. Da trenta anni Milan vive in Italia ma solo da cinque fa parte di questo campo, in cui vigono regole di convivenza e rapporti di buon vicinato. È un padre padrone che concepisce la famiglia secondo una ferrea gerarchia patriarcale, in cui le donne sono sottomesse alla volontà dei mariti e i figli non hanno prospettive e sogni personali ma seguono le tradizioni, non c’è scontro generazionale. Racconta di sentirsi appartenente all’Italia ma che le radici sono zingare e la loro natura è nomade. A sentire parlare Milan, la vita degli zingari sembrerebbe idilliaca, serena e florida, con una giornata quasi routinaria. Con gli uomini che la mattina vanno a lavorare.

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Ben altre sono le parole di Vera, moglie di Milan, donna senza età, giovane anagraficamente ma invecchiata dalla vita e dalla fatica. Afferma che il loro lavoro è andare a rubare con incidenti di percorso come la carcerazione del figlio e della nuora.

Sogna una casa più grande e più bella, una vita veramente normale.

Milan e Vera non sono due rom qualsiasi, sono i nonni delle bambine, Violetta e Cristina, di 13 e 12 anni, morte annegate nel luglio 2008, sulla spiaggia di Torregaveta. Qui al silenzio rassegnato dell’uomo si contrappone la rabbia di Vera. E’un fiume in piena, parla ad alta voce, quasi cantilenando, maledice l’indifferenza dei bagnanti, denuncia il razzismo alimentato dal clima di odio e di insofferenza che in quei giorni andava gonfiandosi per le disposizioni sul censimento dei rom e per l’episodio del presunto rapimento di Ponticelli, nega che ci sia stato tentativo di rapire un bambino anche perché i rom hanno una media di dieci figli per famiglia. A conferma della sua disinteressata sincerità, sottolinea che la ragazza di Ponticelli, Angelica, è una rumena quindi non della loro etnia.

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Due versioni del mondo diverse. Quella patriarcale e statica di Milan, quella più aperta e franca di Vera e delle altre donne che sembra vogliano dire, vogliano mostrarsi. Trapela come una crepa, tra la visione maschile e quella femminile, come se le donne cominciassero a prendere coscienza. Ricordano la fine degli anni ’50 quando si avviò il movimento femminista. È un bradisisma. Chissà se diventerà un movimento tellurico.

Violetta Luongo

Foto©Altritaliani

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