“Una città di scoglio” – scelto da Rosella Centanni per la nostra rubrica estiva Un libro Una città – è un breve viaggio per Ancona (nelle Marche), del poeta e scrittore anconetano Francesco Scarabicchi (classe 1951). Completa il volume uno scritto di Emanuele Trevi.
Uscito nel 2016 (Ed. Affinità elettive) e accolto con entusiasmo sia dalla critica che dal pubblico, il libro è un diario di “viaggi”, passeggiate, nella propria città. Da luoghi noti come il Porto, la Cattedrale, il Viale, il Passetto a vie e vicoli che si inerpicano nel sali e scendi delle colline che compongono i vari rioni.
Leggendo il testo, mi sono identificata nell’autore; con lui ho ripercorso, con emozione, i suoi “viaggi”.
Emozione non solo per l’amore verso Ancona, la mia città, ma per la scrittura poetica e intensa di Francesco Scarabicchi che mi affascina.
Ho scelto il brano “Passetto”, un luogo a me particolarmente caro. Luogo della memoria. Non c’è angolo del Passetto che non sia legato alla mia vita, dall’infanzia alla maturità, nella stagione tanto attesa, l’estate. Emergono posti, situazioni, persone: da mia madre in riparo dal sole, sotto la Palafitta, alle compagne d’infanzia con i costumi di lana sullo scoglio bucherellato, ai ragazzetti dell’adolescenza, seduti ,a gruppo, sugli asciugamani stesi sul cemento, verso la vecchia Spiaggiola (ora vietata per la caduta di massi), le prime simpatie…fino all’età adulta, sugli scogli bianchi, levigati, nei pressi della seggiola del Papa, con i nostri figli che sperimentano i primi tuffi dal Quadrato.
Da diversi anni il ritorno al Passetto amato. Non è più tempo di stendersi sugli scogli, ma sui confortevoli lettini dell’unico Stabilimento Balneare, sorto su un breve tratto di spiaggia sassosa e artificiale, poco dopo l’Ascensore, sempre gremito di gente. Un luogo comodo, a poco prezzo, dentro la città.
Oltre 10 anni fa, attratta dall’atmosfera festosa e colorata del Ferragosto, una passeggiata lungo il Passetto, tanti gli scatti fotografici. Ne è nata una mostra, apprezzata dagli Anconetani a cui ho suscitato ricordi ed emozioni (VEDI QUI: Ancona…il nostro Passetto).
Il mio sguardo è, difatti, evocativo: non tanto bada all’incuria e alla trascuratezza, a cui da sempre è abituato, quanto a ciò che richiama alla memoria, venato di malinconia per ciò che non è più.
Francesco Scarabicchi ha uno sguardo oggettivo sul Passetto, un luogo, franoso, sbrecciato… e ne descrive sapientemente il carattere: “…scena di rupi e di marina di scoglio che fa del capoluogo una città unica di intimità chiusa eppure tenera come le marne calcaree della sua roccia…”.
Rosella Centanni
TRATTO DAL LIBRO di Francesco Scarabicchi , pp. 27 e 28:
PASSETTO
Un libro del 1990, “Le grotte del Passetto. Architettura e natura del litorale di Ancona”, scritto e fotografato da Emilio D’Alessio, con una poesia di Franco Scataglini (“Una smania de notte”), che conservo gelosamente, mi ha spinto, ieri l’altro, a scendere fino allo scoglio della Seggiola del Papa, sorta di fungo bianco o polipo, e un po’ oltre, nonostante la difficoltà, per coniugare al presente quel breve viaggio lungo la costa del mare di Ancona, per coglierne il sentimento profondo, la bellezza difficile e una sua vocazione ad essere, in qualche modo, insegna perduta della città, araldica decaduta in quella sorta di povertà dimessa in cui versa, tra abbandono, incuria e indigenza, isola di calcare e cemento. Un vento fastidioso e un sole caldo sono la giornata di aprile dopo Pasqua. Poche persone passeggiano, pescatori, alcune ragazze sugli asciugamani, grotte quasi tutte chiuse, nessuna barca. Oltre un secolo segna la nascita, la crescita, la trasformazione di quelle bocche scavate nella roccia del Cònero, dalla Rupe del Cardeto alla Baia di Pietralacroce fino alla Vedova, in quel frammento esclusivo d’Adriatico che non ha parentele o somiglianze, che frastaglia, nel bianco, strapiombi, dirupi e salti fino alle calette, alle insenature, agli scogli a trave come strani camminamenti che proseguono nell’acqua. Basta sedersi sotto il sasso del Papa e guardare il braccio che si allunga fino alla torre degli ascensori per intuirne una sua malinconica intensità, la dignitosa solitudine e quel senso di abbandono che da tempo caratterizza la spiaggia della città. Provo a contare i frantumi verdi delle bottiglie che spuntano dai sassi e dalle scaglie di pietra come una strana erba di vetro insidiosa e tagliente, quasi guardiana a interdire i passi di chi si avventura per scivoli, scalini, piccoli terrazzi e passaggi. Luogo in gran parte disertato, vive d’una sua vita di spogliato decoro, d’un’anzianità perenne sancita da tutti i materiali di riporto, risulta e scarto utilizzati per costruire, accrescere, ristrutturare e conservare; come la grammatica plurale dei cancelli di legno, la sconnessa eppure a suo modo riconoscibile sintassi delle decorazioni e dei fregi, delle simbologie e delle applicazioni che caratterizzano, in una sorta di salmastro carnevale edilizio, angoli, scorci e sguardi.
Ciò che colpisce non è tanto la memoria degli ultimi decenni (i bagliori finali degli anni Sessanta che accendevano le estati della Pineta e della spiaggia) quanto questo presente indefinito di perdurante trascuratezza, questa sospensione toccata dalla verità metaforica delle frane, dal grigiore scaglioso e sbrecciato delle ali della scalinata, dal tono dimesso dei giardini che segna l’intero itinerario. C’è insomma una scissione tra la pur discutibile Ancona delle piazze rinnovate, dei restauri, dei recuperi, dei cantieri e dei lavori e questa scena di rupi e di marina di scoglio che fa del capoluogo una città unica di intimità chiusa e di risentimento eppure tenera proprio come le marne calcaree della sua roccia scavate dagli scalpelli ed erose dal moto perpetuo delle onde che ne modellano il carattere e l’indole, introversione e dolcezza nell’apparente e ruvida asperità dei modi che celano solo l’antica diffidenza e la paura di perdere, ogni volta, quel che si è faticosamente conquistato.