5. (Pirano suite: la Storia…) Salivano i ricordi verso il colle

Quinta puntata del viaggio, con Giuseppe A. Samonà 

Dopo Trieste, una nuova partenza: hai fatto tappa a Koper Capodistria, poi sei arrivato a Piran(o): e qui, dopo esserti soffermato nel cuore della cittadina, ti dirigi verso le sue mura. 

Foto di Sophie Jankélévitch

(Strappo di tempo, di tempi, di luoghi: girando, avanzando, salendo, o forse era prima, costeggiando, incontrerai Leninova Ulica, via Lenin. Où sont passés les vrais rebelles?).
Sali allucinato impastato di secoli pietre leoni, attraverso il reticolo medievale, sino alle mura cittadine. Tra il grigio rosato e il giallo marronato, accavallando almeno tre cinte che rivelano almeno due secoli, il XV e il XVI, apogeo del serenissimo splendore, ma la cui costruzione sarebbe cominciata – dicono sempre nelle gostilne – addirittura nel VII: Venezia allora son ancora modeste palafitte, e nell’Impero agonizzante le popolazioni fuggono sotto i colpi delle invasioni barbariche – una di quelle genti, forse in provenienza da Aquileia, l’avrebbe appunto fondata. (… Ma già i Greci, diversi secoli prima di Cristo, conoscevano il luogo: parlano, parlano nelle gostilne, nelle lunghe notti d’inverno…)

Ma in fondo, a te poco importa. Pur se a essi intimamente legate, le mura sono il contrario dei castelli, dove – ricordi? – è meglio non entrare; la consegna è: vederli dal di fuori. Adesso invece, senza neanche vederle, attraversa una delle loro porte – son molte le porte delle mura –  per a caso vagabondare fra passarelle, passaggi, varchi, torrioni. E appena puoi arrampicati. (Le mura, cioè queste mura, certo, ma anche molte altre in generale, potenzialmente tutte. Ricordi scheggie di immagini splendore delle liste i cataloghi unica immagine di – prova d’un fiato a scioglierle una dentro l’altra – Gondar Marrakech Lucca Istanbul Il Cairo il Machu Pichu Skodar o Scutari Krujë Berat Amman Scicli Tebe dalle sette e Tebe dalle cento porte – ché sempre molte son le porte delle mura – anche se l’una è quasi polvere e l’altra più tempo che spazio di forse Plaudren o Plouharnel o Ploumanac’h o il Cap Fréhel o Notre-Dame-des-Naufragés o la Pointe du Raz o chissà dove cacchio era anche se più che di uomini era opera della natura di Micene Faistos Pilos Procida sulla punta anche se rimanevano solo quattro sassi, mentre invano aspettavi che dal mare arrivassero i battelli. E poi, è ovvio, la madre di tutte le mura, quelle di Troia, nello spazio oggi in Turchia, e nel tempo, nella memoria di tutti. Ecco, le mura, quando si risale nel tempo, quando si guardano da lontano, non esprimono anche, ben più che il limite, il segreto bisogno dell’altro? dell’incontro? Il luogo davanti al quale Ettore dovrà finalmente conoscere Achille, anche se a prezzo della sua vita? Conoscere il nemico nel sangue, persino amarlo come un altro se stesso – attenzione: quando non è nemico, è fantasma…).

le mura di Pirano
Foto di Sophie Jankélévitch

Da sopra schizza ancora più su, più su, volando, come a guardare la terra da lontano: le mura, l’accenno di quel che ne resta, sembrano due braccia con le dita delle mani intrecciate in punta, a stringere la cittadina, quasi che potesse nuotar via – o risalendo nel tempo a guardare gli avvenimenti uno accanto all’altro, è lo stesso: ed ecco che dopo la secolare gloria veneziana, vedi insieme ad altri puntini Pirano, avamposto dell’Istria, passare all’Impero, all’Italia, ai Nazisti, agli Alleati, alla Jugoslavia, alla Slovenia, con in mezzo drammatici spostamenti di popolazioni, gli esodi… Com’è possibile che un puntino, tanti puntini sopportino un simile concentrato di Storia? (Com’è possibile che subito dopo, poco più in là, nel cuore della convivenza fra puntini si sia accesa la spirale dell’odio, dello sterminio?)

Mentre riscendi, sei appollaiato sopra le mura: ed è subito l’Adriatico che ti viene incontro, nel cielo terso segui tutto il golfo, fino a Trieste. Il tempo lungo ridiventa spazio, ma resta in memoria, e finalmente ti sembra di cogliere il senso recondito dell’atmosfera di Pirano: il suo segreto, il suo fascino, sta nel suo appartenere non appartenendo, o ancora nell’originale equilibrio che ha saputo creare fra melanconia e sfasamento: impregnata nei secoli di Venezia, Pirano si è lasciata fidanzare da Trieste, che di Venezia è stata storicamente, geograficamente antagonista. Se ne è innamorata, ne è diventata il retroterra perenne e perduto. Distacco, guardare attraverso un vetro, non poter raggiungere: malinconia. Sfasamento, décalage: riaffermarsi nelle sue radici slave mentre diventava veramente italiana. Esser stata veramente italiana nel momento più tenebroso della storia del Belpaese, la dittatura fascista – che tanto ha contribuito a perderla.

(Ricordi pensieri)

Ricordo 1, sul campo: Ho visto, dunque so? Una signora albero di Natale, ghirlande gioielli come addobbi, incontrata vicino alle mura, italiana di qua da sempre – premette – dice della sua ammirazione per il Cavaliere, ultima incarnazione degli uomini maschi – proprio così dice – che hanno fatto grande il grande paese, e che conobbero e conoscono, riconoscono il problema della comunità italo-istriana, oramai ridotta ai minimi termini.

Ricordo 2, letture, conversazioni con amici, pensieri, che si succedono come le pagine ingiallite di un vecchio quaderno di storia: una scheda? – … Romanizzata sin dal II secolo a. C., poi venezizzata – ma nel frattempo anche barbarizzata, carolongizzizzata, slavizzata… – l’Istria, insieme ad alcune parti della Dalmazia, vede svilupparsi sul suo suolo una tradizione e una lingua locale italiana, originalmente parallele, pur ovviamente incrociandole – sporcandole? sporcandosene? –, rispetto a quelle che si sviluppano sul suolo dell’Italia propriamente detta. Sono originali proprio nel loro venire a contatto, se non intrecciarsi, con altri fili, altre tradizioni, e lingue, variegate popolazioni, principalmente slavofone, ma anche germanofone, albanofone, ellenofone, turcofone etc.

A voler cercare conforto nella geografia, del resto, sempre che la geografia possa aiutare nel definire i destini dei popoli – il più delle volte non lo può, comunque non da sola – la Venezia Giulia, nel senso del territorio compreso fra le Alpi Giulie e il mare Adriatico, dal Golfo di Trieste a Punta Promontore (estremità meridionale dell’Istria), al Golfo di Fiume e alle isole Quarnerine, presenta una forma di unità geografica, o meglio, un’unità storico-geografica – l’Istria ne è la propaggine meridionale, e basta uno sguardo a una cartina per afferrare la sua caratteristica principale: è terra di frontiera. Non più Italia, non ancora Balcani, o sia l’una che gli altri. Non a caso propriamente, completamente italiana, cioè come parte di una comunità anche politica, uno Stato, l’Istria lo è stata solo per poco più di vent’anni. È con lo smembramento dell’Impero austro-ungarico successivo alla prima guerra mondiale, che sul finire del 1920 la Venezia Giulia, con tutta l’Istria, parte della Dalmazia settentrionale e Zara vengono assegnati all’Italia “vincitrice”, Fiume invece sarà annessa nel 1924.

Ma ecco: intanto c’è stata la marcia su Roma, e il fascismo che proprio in quelle zone ha preso forza e ispirazione – la d’annunziana vittoria mutilata… – si è oramai affermato sull’intero Paese. E con il fascismo inizia una feroce politica di snazionalizzazione: gli Slavi vengono cioè privati dei loro caratteri nazionali – divieto di parlare sloveno o croato financo a casa, di scriverlo, in qualunque forma pubblica o privata, chiusura delle scuole plurilingue, italianizzazione di nomi, cognomi, toponomastica, sequestri di beni, espropri, arresti, campi di concentramento, eliminazione fisica degli oppositori etc. L’obiettivo: trasformare questa terra di frontiera, secolarmente ricca della sua pluriculturalità, in un territorio completamente italianizzato; e anzi, con l’aggressione alla Jugoslavia del 1941 rendere questo territorio italianizzato più ampio, sempre più ampio… Non è un caso che la resistenza contro il fascismo nella Venezia Giulia, o quanto meno la sua struttura aggregativa, sia essenzialmente, almeno all’inizio, slovena e croata; ma anche cominciano i primi spostamenti di popolazione: alcuni, diversi, molti non italiani fuggono nella vicina Austria, e soprattutto nell’ancor più vicino Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che di lì a pochi anni si chiamerà appunto Jugoslavia.

Poi arriva l’8 settembre 1943, l’Italia sbanda, si dissolve, il terrore nazista s’installa al suo posto, riempe lo spazio con la rapidità di un prodotto tossico, finalmente spazzato via dall’esercito di Tito, che termina la sua marcia di liberazione entrando a Trieste il 1° maggio del 1945. Una terribile legge del contrappasso, in quelle terre liberate dall’occupazione fascista e poi nazista, rovescia allora il movimento del precedente ventennio: adesso sono le popolazioni italiane che fuggono dall’avanzare della vendetta slava. Sono anni di persecuzioni, eccidi, foibe, esodo, anzi esodi, ché si scaglionano lungo almeno un decennio, dal 1945 al 1954, e non sempre sono accesi dalle stesse motivazioni. Pirano, insieme a Capodistria, Isola ed altre città e territori dell’Istria nord-occidentale, appartiene alla zona B, che spererà sino al 1954 di essere riassegnata all’Italia (si ricorderà anzi che il trattato ufficiale definitivo sarà siglato addirittura nel 1976): sarà quindi fra le ultime a svuotarsi dei suoi italiani, sul finire degli anni Cinquanta….

Il groviglio è complesso, le interpretazioni spesso discordanti, le memorie in conflitto, se solo ci si aggrappi a un filo, per risalirlo, o a un altro, ad esempio cominciando il percorso con l’incendio della Narodni Dom, o la foiba di Basovizza. Una cosa si può affermare, in generale: elevare una memoria, con il suo pezzetto di storia (s minuscola) a verità della Storia (s maiuscola) è un oltraggio alla giustizia, alla verità: è solo nel considerarli nel loro globale aggrovigliamento, e diacronicamente, che si può capire il senso, appunto complesso, degli eventi.

Eppure ancora oggi opposte tendenze nazionalistiche infiltrano, in modo più o meno sottile, la ricerca, per dimostrare la maggior anzianità, il più forte radicamento di un gruppo rispetto a un altro: ora ci sarebbe una continuità di presenza “italiana” a cominciare dagli insediamenti romani, attraverso Venezia, che sarebbe l’unica responsabile dell’importazione artificiale di popolazioni slave, cioè straniere, come forza lavoro, ad usum produzione; ora, al contrario, si considera Roma o Venezia alla stregua di mere potenze colonizzatrici, su un territorio che sarebbe già stato insediato da popolazioni protoslave, magari d’origine etrusca, in un mitico passato preromano… Più tardi, attraverso il secolo breve, è a colpi di censimenti – volti a dimostrare la più grande presenza slava o viceversa italiana – che si cerca di far cadere la bilancia da una parte o dall’altra, come se un censimento considerato staticamente, in questo contesto di repressioni e andirivieni incrociati di gruppi umani, con l’inevitabile coda di silenzi, omissioni, menzogne, potesse avere in sé un qualche valore.

Ma poi, perché mai il fatto di esser eventualmente là da più tempo, e magari più numerosi, dovrebbe dare meno diritti a quelli che sono arrivati dopo, e magari sono meno numerosi? Così, ogni filo del groviglio risalito da solo – di nuovo: segmentare, isolare, separare – finisce per riapprodare al mito infido e falso comune a tutti i nazionalismi: quello già evocato dell’autoctonia. Infido: perché scatena guerre nel nome di una presunta priorità, e purezza. Falso: perché tutti i gruppi sono sempre arrivati d’altrove, e sempre si son distinti mischiandosi… Qui, in modo particolarmente intenso, continuo. È intrecciate nello gnommero, come avrebbe detto Gadda, che le diverse culture, lingue si sono reciprocamente arricchite, è sgarbugliandosene che nel migliore dei casi hanno perso vitalità, nel peggiore son giunte sino alla disintegrazione. La lingua, da queste parti, come in altre la religione, è stata un dissennato strumento d’identità – ma la lingua, a differenza della religione, include, non esclude, identifica ma anche comunica, apre, esce fuori, ama impiastriacciarsi con le altre, e accetta facilmente la pluralità. Fiume, oggi Rijeka – che in croato significa fiume, là dove l’Istria diventa Dalmazia, è forse il luogo che più di ogni altro racconta la storia d’incontro e di scontro della Venezia Giulia – Fiume dove appunto all’inizio del secolo scorso si parlavano lingue diverse a secondo delle attività che ci si trovava a svolgere, e si diceva: el più stupido omo parla quattro lingue…      

L’incubo si è messo irrimediabilmente in movimento quando, dissolvendosi l’ultimo Impero pluriculturale che l’Europa abbia avuto, le diverse nazionalità hanno cominciato a spingere per integrarsi agli Stati-Nazione in cui erano già maggioranza. La riscrittura del proprio passato, delle proprie radici – a partire dal mito infido e falso… – nutre, arma la manipolazione del presente, che si costruisce sulle varianti di una stessa invenzione: nasce il popolo, nel senso di Volk – cioè un gruppo sedicente omogeneo di gente che condividendo lingua e cultura condividerebbe identiche preoccupazioni, e bisogni, i quali sarebbero minacciati da quelli degli altri popoli, specie se limitrofi. Così, i conflitti di classe vengono messi da parte, dimenticati, occultati, a profitto del conflitto fra popoli, inebriati nella difesa della propria identità, che di tutte le menzogne, le costruzioni, è forse la più insidiosa: come può un’identità essere collettivamente composta di individui diversi?

Un aspetto fondamentale di quest’operazione d’occultamento è la sovrapposizione di uno o più elementi d’ingiustizia e tensione, conflitto, interni a una società, su un gruppo sociale, culturale (etnia, razza etc.) esterno, straniero.  L’etnicizzazione dei rapporti di classe, ché di questo in definitiva si tratta, funziona a diversi livelli, e sempre si fonda sulla distortia cristallizzazione di una realtà almeno in parte, se non completamente, fantasmatica – e sempre, attraverso un perverso spostamento semantico, ci si impiega rapidamente a combattere non più quella realtà, non quel problema, bensì i suoi presunti  rappresentanti, che in ultimo, collettivamente, sono ontologizzati come fonte stessa del male: la cultura diventa natura. (L’antisemitismo fornisce fra gli esempi più tristemente eclatanti di questo tipo di procedimento). Nel nostro caso, mentre con l’esplosione della prima guerra mondiale si propaga il virus nazionalista, gli Slavi, tradizionalmente impiegati come forza lavoro nei secoli del dominio veneziano, e quindi spesso in posizione subalterna (da notare che l’etimologia della parola schiavo nelle lingue europee viene fatta derivare da slavo), finiscono per essere razzisticamente risolti, nell’ottica del più radicale nazionalismo italiano (e non solo), come ignoranti, selvaggi, e privi di cultura, di arte, di letteratura: la causa di questa presunta selvaggeria, anzi, risiederebbe proprio nel loro stesso essere Slavi. D’altro canto gli Italiani verranno assimilati ai fascisti, o comunque alla borghesia, e nella nascente Jugoslavia socialista finiranno – ma non sempre – per essere osteggiati più che come fascisti, o borghesi, proprio in quanto Italiani. Eppure, anche nei momenti più bui, esistono uomini e donne contro corrente, che si distinguono dalle scelte dei più, e ci ricordano che i problemi reali sono sempre politici, nel senso più largo del termine, e non etnici. Così, fra le tante storie dimenticate che vale la pena di resuscitare, raccontare, approfondire, c’è quella dei più di duemila operai di Monfalcone, donne e uomini, soprattutto, ma non solo, italiani, che nel 1947 percorrendo il cammino inverso ai grandi esodi dall’Istria, decisero di partire per la Jugoslavia (molti proprio verso Pola e Fiume che contemporaneamente si svuotano dei loro Italiani), per costruire il socialismo… Avventura affascinante, ma anche breve e tragica, certo, perché quegli operai, fedeli all’Internazionale di Stalin, diventarono nemici dopo la rottura con Tito del 1948: ma appunto, si erano mossi per un progetto, un’idealità politica, non in base ad un’appartenenza etnica, ed è per quei motivi politici, non etnici, che furono perseguitati…

Ed è finita. E una comunità culturale, linguistica, quella italo-istriana, che era riuscita a vivere e rinnovarsi durante una decina di secoli, attraverso Stati e regimi politici diversi, si è disintegrata nel giro di pochi anni, disseminando nelle pieghe dimenticate della storia, come sepolte nel fondo d’un cassetto, tante storie di dolore.. Certo, recentemente, a Pula-Pola,  a Rijeka-Fiume, o appunto nella stessa Piran-Pirano, e altrove, ci sono segni di una timida ripresa, mentre anche si cerca di stimolare rapporti e curiosità reciproche, scambio, confronto, fra i diversi gruppi. Solo un profumo, tuttavia, di quello che fu: quel mondo secolare è scomparso per sempre. Ma forse proprio da qui, dove le nazionalità italiana e slava si sono affrontate in modo tanto cruento, e ai margini di dove un mezzo secolo dopo – sul finire del secolo breve – proprio quella stessa nazionalità slava è esplosa dentro, nel conflitto fra le sue diverse componenti, in una spirale d’odio e pulizia etnica che sembrava non potersi più fermare, in queste stesse terre dall’incedere oramai pacifico, sorridente – ma è il sorriso memore, di chi ricorda – può nascere il laboratorio che tracci la possibile via di un futuro più luminoso, in cui gli Stati-Nazione si scioglieranno per far posto ad aggrovigliati Gnommeri-Cultura, che finalmente potranno affrontare in modo più libero la ricerca di una società più libera – ed equa. Qui più che altrove si capisce infatti come – contrariamente a quel che predica, sia pure in mille salse diverse, ogni nazionalismo – le culture, e le lingue, traggano forza, originalità individuante, idee, progetti non nella difesa diffidente di una mai esistita purezza, che anzi le rende esangui, ma proprio nel confrontarsi, intrecciarsi, reciproco sporcarsi e trasformarsi. Vita, groviglio appunto. Speranza. Utopia?

(Fine dei pensieri ricordi)

 Il viaggio continua. Prossima puntata: Da una parte all’altra della spiaggia

Traccia dei contenuti:
Puntata 1. Trieste, itinerari di viaggio
Puntata 2: Partire da Trieste, itinerari
Puntata 3: Autobus, Koper, Piran, Portorož
Puntata 4: Ma se invece prosegui per Piràn
Puntata 5: (Pirano suite: la Storia…) Salivano i ricordi verso il colle
Puntata 6 (ultima): Da una parte all’altra della spiaggia (Fiesa Strugnano Portorož)

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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