Dedicato a Venezia e al coraggio dei veneziani. Un articolo, scritto oggi di getto da Andrea Curcione, per raccontarvi i sentimenti di chi vive in città e come da veneziano lui percepisce questo dramma annunciato.
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In questi giorni sto osservando le immagini in televisione e sui social dei danni prodotti dall’acqua alta nella mia città, e nelle isole. L’acqua salata, torbida, trasportata dal vento, che fuoriesce da ogni fessura del terreno e invade, occupa, come in un film dell’orrore, la maggior parte dei negozi e delle abitazioni.
Non c’è difesa, non c’è paratia che ha retto contro una marea così alta, che ha ricordato quella dell’alluvione del 1966. Anche allora soffiava forte sulle rive della città il vento della bora e dello scirocco; anche allora le barche avevano mollato i loro ormeggi e finivano per navigare per le calli diventati improvvisamente dei canali lagunari. Un grido disperato, universale, si era alzato, allora come oggi, in difesa di una città così cara e così fragile. Eppure, nonostante siano trascorsi 53 anni da allora, l’”Acqua granda” non ha cessato di colpire Venezia, in maniera più o meno forte.
Osservo i volti dei veneziani. Coloro che hanno una certa età sono stanchi, rassegnati, feriti e delusi, perché in tutto questo tempo nulla da allora è cambiato; soprattutto si sentono impotenti. Ascoltano con inquietudine le sirene che ogni mattina o ogni sera in questi giorni avvisano, come campane a morto, l’imminente arrivo di questo fenomeno naturale, e pregano che la marea e il vento siano clementi. Attendono notizie dall’Ufficio Maree che come un centro di vaticino preannuncia il livello dell’acqua: un metro e dieci, un metro e venti, un metro e sessanta alle undici e trenta…
Ormai i negozi più esposti hanno sistemato davanti alle porte le paratie in acciaio, e le manichette con le pompe, piccoli ma importanti gesti di resistenza contro una forza d’invasione capace di rovinare con il salso i pavimenti, gli oggetti elettronici, le prese elettriche, i prodotti in vendita.
Le tradizionali librerie, le biblioteche hanno visto i danni più profondi. Centinaia di libri rovinati, bagnati nelle loro pagine e nelle copertine grondanti di acqua; un vero disastro.
E poi la Basilica di San Marco, la sua cripta, un tesoro inestimabile, e le chiese sparse per la città.
Ovunque è allagamenti, acqua invadente, rovinosa. Si sa, il mare fa quello che fa, non lo puoi comandare, come il clima, ma poi tutti imprecano contro il MOSE, una gigantesca diga artificiale progettata trent’anni fa e non ancora terminata che quando entrerà in funzione dovrebbe proteggere la città da questo fenomeno; o per lo meno attutirne l’impatto. I veneziani da una parte sono speranzosi, non ottimisti; dall’altra sono scettici. Non va giù a nessuno che lo Stato – che poi siamo noi – abbia speso milioni e milioni per un’opera gigantesca della quale non c’è fiducia, nemmeno nella sperimentazione. Una marea – questa sì di denaro pubblico – che nel tempo ha alimentato tangenti, bustarelle milionarie, persone indagate, processate e condannate. E nel frattempo non si sono ancora visto i risultati, l’opera è quasi conclusa al novanta percento e intanto le parti realizzate e immerse hanno bisogno di costante manutenzione, quella che abbisognerà tutta la struttura ogni anno per un costo sempre elevato. E i veneziani continuano a imprecare e sperare, mentre il clima cambia, e agli abitanti non gliene frega niente che questi eventi – come qualcuno scrive sui quotidiani per polemizzare contro gli allarmisti del clima – si erano ripetuti anche in altre ere passate, come nel mesozoico, o all’affiorare delle terre emerse.
La gente vive ora, adesso. E i danni si vedono ora, adesso, e tutti sono convinti che si ripeteranno sempre di più in futuro. Anche domani. Ammiro quei ragazzi, quelle persone che si sono strette alla città per dare una mano, per aiutare chi in questo momento ha visto i propri sacrifici rovinati dall’acqua. I veneziani non si perdono d’animo; seppur rasseganti si rimboccano le maniche e vanno avanti a sistemare ciò che resta a testa alta. Ci sarà tempo più avanti per le lamentele. Nessuno crede più alle favole.
Tutto questo fa capire che Venezia non potrà essere difesa solamente dal MOSE. Venezia ha bisogno di un rinnovamento culturale e fisico dove la mentalità egoistica e negativa da “bottegai” deve essere superata per il bene comune, come abbiamo visto in questi giorni grazie allo sforzo di tanta gente, dai privati ai Vigili del Fuoco e a tutte le Forze dell’Ordine che si sono prodigate per aiutare. Tutti, a cominciare da chi governa la città, devono fare la loro parte. Soprattutto la manutenzione periodica: lo scavo dei rii della città per esempio, il rinforzare le fondamenta, rialzare in qualche modo le “insule”, evitare progetti di scavo che comportano subsidenza, e soprattutto il moto ondoso. Queste sono le cose da fare principalmente per evitare che la città non venga travolta da fenomeni eccezionali come in questi giorni. Solo così il MOSE potrà fornire il suo contributo. Non lasciamo che siano solo gli stranieri ad avere a cuore questa fragile città. Venezia appartiene a tutto il mondo, ma soprattutto ai veneziani.
Andrea Curcione, da Venezia
Portfolio con foto di Laure Jacquemin da Venezia © + 2 ricavate da Facebook
Questo mio articolo « Noi siamo colpevoli, aiutateci voi », è uscito giovedì 14 novembre sulla Nuova Venezia. È un estratto da un lungo reportage che sarà pubblicato oggi dal quotidiano francese Le Monde.
Giri per la città, la mattina dopo, e un solo pensiero si ripete incessante: la notte scorsa Venezia è morta. Non è solo un pensiero, più cammino, più mi guardo intorno e più quel pensiero diventa un sentimento forte e tangibile. Vaporetti affondati, alberi sradicati, capitelli polverizzati, e poi negozi distrutti, appartamenti resi inabitabili. I vaporetti affondati sono a pochi passi da casa mia. Erano ormeggiati lì per la notte. La mareggiata deve averli fatti sbattere l’uno contro l’altro, distruggendoli. Più in là, via Garibaldi, uno dei luoghi più vivi e vivaci della città, invaso l’altra sera da una vera e propria ondata d’acqua, sembra uscito direttamente da quel lontano e famigerato 4 novembre 1966, da quell’alluvione devastante, solo che sono passati cinquantatré anni, ed è successo di nuovo, e non un solo negozio di questa – che è l’unica via veneziana – si è uscito salvato. C’è chi si danna per rimettere in ordine quanto possibile, e chi si guarda intono smarrito, senza sapere bene da dove incominciare. Alcuni di quei negozi sono ridotti talmente male che ti domandi se riusciranno mai a riaprire, con la consapevolezza, poi, che oggi e domani si ripete, maree eccezionali, senza sosta, estenuanti e invincibili, e allora ti chiedi anche perché mai darsi così da fare. C’è un senso di impotenza che si mescola a rabbia, a rassegnazione, a paura. In Riva dei Sette Martiri, il bar Melograno, dove ho trascorso, negli anni, centinaia e centinaia di mattine e di pomeriggi a scrivere, ha le vetrate sfondate. Guardo dentro, e quel sentimento diventa profonda tristezza, dolore. È il mio luogo dell’anima questo, e a vederlo ridotto così, non trovo le parole. Poco più avanti, all’altezza della Biennale, il muretto che si affaccia sulla laguna ha dei tratti completamente distrutti, strappati via come se fossero fatti di polistirolo. La mattinata è grigia, ma sono costretto a mettere gli occhiali scuri. Voglio che le mie emozioni rimangano mie, nascoste là dietro. Il mio cammino continua e l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, ma poi riesco a trovare il modo di far convivere dolore e indignazione. Succede quando esco dal negozio-galleria del fotografo Marco Missiaja. Non conosco nessuno che ami questa città quanto lui, che sa guardarla attraverso i suoi obiettivi come pochi. Quel posto, che ho imparato a conoscere come un concentrato di bellezza e talento, che mostra Venezia al mondo intero, nel giro di pochi minuti è diventato come una specie di discarica, di foto accartocciate, macchine fotografiche da buttare, cornici divelte. Con lui, abbiamo evocato il Mose. Il Mose, quella ridicola e scandalosa grande opera, costata miliardi di euro, mai finita e che, scommetteteci, mai entrerà in funzione, servita solo ad arricchire i soliti noti, alcuni finiti in galera, altri invece usciti indenni, quell’opera è non solo inutile ma pure dannosa, visto che c’è chi ha dimostrato come sia essa stessa una delle cause di queste maree eccezionali sempre più frequenti. Allora, là fuori, rientrando a casa, una cosa l’ho capita: Venezia la può salvare soltanto il resto del mondo. Una sovrastruttura internazionale composta da gente competente e capacissima, perchè noi, veneziani e italiani, ormai è assodato, non siamo in grado di gestirci da soli. Abbiamo lasciato morire la città più bella del mondo e con lei noi stessi. Qualcuno ci aiuti a resuscitarla. Noi, lo confessiamo finalmente a gran voce, siamo soltanto colpevoli.
Né en 1960 à Venise, Roberto Ferrucci est un journaliste et écrivain italien. Il est notamment l’auteur de Ces histoires qui arrivent, (La Contre Allée, 2017), Venise est Lagune, (La Contre Allée, 2016). Il est très investi, en tant qu’écrivain, pour la sauvegarde de sa ville. Il est également professeur de création littéraire à l’université de Venise et à l’université de Padoue. Il collabore aussi avec la Maison des écrivains et de la littérature à Paris.
Grazie per questa testimonianza!
Io non credo che gli italiani o i veneziani non possano salvare Venezia.
Certo parliamo di una città che è patrimonio mondiale ed è giusto che sia a cuore a tutti.
Penso che occorrerebbe più politica, ma più seria. Meno vetrine, annunci e più concretezza.
Sembra incredibile che solo in Italia ogni opera pubblica richieda anni se non secoli. Del MoSe si inizio a parlare dopo l’alluvione del ’66, poi è stata approvata negli annoi 90, la prima « pietra » dei lavori è nel 2004, siamo al 2019 e l’opera ancora non è completata ed intanto la rugine già sta logorando le paratie già sistemate anni fa.
Ricordo che per la metro di Roma è occorso un secolo.
Passi la corruzione, se cosi si puo’ dire, personalmente ritengo che le opere vanno comunque fatte ed è compito della magistratura punire eventuali reati, ma almeno l’efficienza, la tempistica…