Sale Greco. La poesia di Leonardo Sciascia.

Primo piano tematico dedicato a SciasciaUn contributo di Valerio Cappozzo su un aspetto spesso trascurato e poco noto dell’opera di Sciascia: la poesia.

Altritaliani Sale Greco Poesia Leonardo Sciascia

Diversi sono i narratori che nelle loro poesie, solitamente poco conosciute, hanno riposto il personale modo di cogliere la realtà. Attraverso l’uso del linguaggio poetico, essenziale, vi concentrano quei simboli che nei romanzi si ritroveranno sviluppati in trame articolate. Come il «cocomeraio, che preso in mano un cocomero, lo apre con un taglio perfetto e ne presenta il cuore sulla punta del coltello» – così scrive Umberto Saba a Giacomo Debenedetti nel 1946 – Leonardo Sciascia riesce a esprimere in poche ma pregnanti immagini la Sicilia, luogo geografico e intimo dove prende forma la sua scrittura. E lo fa, come richiesto dalla poesia, risalendo all’origine di quegli stimoli che sono stati sollecitati, nel suo caso, dalla terra assolata, dai mari solcati sin da tempi immemori, dal grano bruciato, dagli odori acri della campagna e dai volti delle persone, il tutto osservato da «l’immobile occhio del bue». In queste istantanee con prospettiva inusuale, la poesia riesce a inquadrare il momento e a renderne universale lo scenario. Leggendo i suoi versi torna alla mente la locuzione oraziana «ut pictura poësis», secondo la quale le parole dipingono il paesaggio che esprime lo stato d’animo. «Come Chagall, vorrei cogliere questa terra», ossia il colore che si libera dalla forma diventando da essa indipendente, sfumatura degli oggetti e dei corpi, sensazione onirica della realtà rappresentata.

Cappozzo Valerio Altritaliani la Sicilia il suo cuore

Le prime pubblicazioni del giovane Leonardo Sciascia sono le brevi prose poetiche delle Favole della dittatura (1950) e le poesie di La Sicilia, il suo cuore (1952), edizione abbellita dalle incisioni di Emilio Greco. Entrambi i libri vengono stampati dall’editore Bardi di Roma (ripubblicati dallo stesso Bardi nel 1996 e poi riuniti in unico volume da Adelphi nel 1997). In queste prime prove viene messo a fuoco lo sguardo di Sciascia sul mondo circostante, come se l’autore mirasse con la precisione del tiratore un obiettivo lontano che nei romanzi troverà la vitalità del racconto, il vigore della denuncia e l’urgenza della scrittura militante. Ma è nei suoi versi che si trova il colore identitario dell’inchiostro che userà nel futuro. Il narratore Sciascia comincia la sua carriera con delle Favole, in ognuna delle quali il protagonista è un animale pensante e parlante che descrive, con la sottigliezza della poesia e l’efficacia del tono prosastico, il nesso segreto tra immaginazione e natura. In questi scritti, che non sono affidati al tepore materno di chi legge le fiabe a voce alta, interviene a sfatare l’idillio l’agghiacciante consapevolezza del distacco dall’innocenza del bambino, con l’amarezza dell’uomo adulto conscio del fatto che «nessuno saprà capire quel che ci è accaduto». Questa citazione di Leo Longanesi, posta da Sciascia in esergo al suo libro, è preceduta da un’altra simile di George Orwell, «non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo», come si domanda nel finale de La fattoria degli animali, il celebre interrogativo provocato dall’impossibilità di distinguere chi sia l’uomo o il maiale in una situazione di sconsiderata avidità di potere che ribalta i ruoli. Frasi scelte da Sciascia, lettore attento, che a sua volta aiuta i lettori a entrare con la giusta prospettiva nel contesto dei suoi primi scritti.

L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava
persino dei versi. Ma quando il padrone
morì, confidava: «Gli volevo bene, ogni sua
bastonata mi creava una rima».

Tutto è ribaltato in queste prose liriche che si rifanno inizialmente alla tradizione greca nata con Esopo e latinizzata con Fedro, la morale e la saggezza pratica sono affidate agli animali, così il versificare, il piangere la morte, conoscere il perdono e l’affetto, tutto quello che gli uomini stanno smarrendo. Chi tra una bestia e l’uomo si riveli essere più magnanimo è evidente in ogni frase di questo libretto, come si deduce che agli umani è rivolto il giudizio più misero nella ripetizione continua della loro ottusità.

Dentro la trappola, una di quelle trappole a
gabbia, il topo stava quieto, pieno di disgu-
sto e di noia. L’uomo entrò in cucina e stette
a guardarlo. Quando incontrò gli occhi del-
l’uomo, il topo capì che stava scegliendo-
gli un genere di morte. «Poveretto», pen-
sò, «sta pensandoci più di me che debbo
morire».

Un mondo impoverito, desolato, in cui la sensibilità e l’intelligenza degli animali rimane inascoltata: sorde sono le loro parole, muti i loro sguardi agli occhi di persone distaccate da se stesse, dalla propria terra, dalle proprie tradizioni ancestrali. In queste brevi narrazioni non c’è l’ironia delle prose liriche di Toti Scialoja né il sarcasmo comico di Trilussa, per citare due autori che danno voce ad animali, ma l’austerità del Verismo, proprio quello di origine siciliana.

La poesia di Leonardo Sciascia. Altritaliani Cappozzo
Leonardo Sciascia con il nipote nella campagna siciliana

La Sicilia, il suo cuore è la silloge che raccoglie le uniche poesie di Sciascia. Nel titolo un movimento a zoomare che porta al centro della questione oltrepassando brine, nebbie, vapori acquei e illusioni.

Come Chagall, vorrei cogliere questa terra
dentro l’immobile occhio del bue.
Non un lento carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti;
e le stoppie bruciate, i radi alberi,
che s’incidono come filigrane.
Un miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana è l’estate
che qui distese la sua calda nudità
squamosa di luce – e tanto diverso
l’annuncio dell’autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio è vorace sulle cose.
S’incrina, se il flauto di canna
tenta vena di suono: e una fonda paura dirama.
Gli antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell’occhio melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero agli dèi; gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

L’essenzialità delle immagini taglia il paesaggio siculo con le nuvole lattiginose e i corvi che abbassano lo sguardo dove brucia ciò che rimane della mietitura, a sprazzi presenziata da sparuti alberi che non riescono a creare una corona scenografica intorno a questa rappresentazione della natura, ma sono dei frammenti rinsecchiti dalla noia dei secoli. In questa pace carica di tensione si attende la pioggia, la voracità del silenzio interrotto dallo sgomento impaurito, il fischio delle canne al vento, le stesse che gli antichi greci non ascoltarono, lo stesso suono al quale non risero nella luce strozzata di questo momento. Non riemersero dalle acque e non si nascosero maliziosi tra le fronde, non mangiarono i frutti di una terra senza mitologia. La Sicilia che descrive Sciascia ha una sua vita, una storia solo sua che non è bagnata dal Mediterraneo, ma è tutta interna, ventrale, è la fitta di un’isola isolata anche dai gesti più comuni, dalle stagioni peninsulari, dalle sere in cui volano gli uccelli che, a differenza di chi se ne è andato, tornano dalla migrazione.

L’inverno lungo improvviso si estenua
nel maggio sciroccoso: una gelida
nitida favola che ti porta, al suo finire,
la morte – così come i papaveri
accendono ora una fiorita di sangue.
E le prime rose son presso le tue mani esangui,
le prime rose sbocciate in questa valle
di zolfo e d’ulivi, lungo i morti binari,
vicino ad acque gialle di fango
che i greci dissero d’oro. E noi d’oro
diciamo la tua vita, la nostra
che ci rimane – mentre le rondini
tramano coi loro voli la sera,
questa mia triste sera che è tua.

L’oro che i greci sapevano vedere anche in una pozzanghera sulfurea è tornato ad essere fanghiglia. L’unica preziosità che ci si può permettere è la propria esistenza, mentre le rondini danno spettacolo in cielo, una danza che osservata con occhi funerei diventa un movimento triste, un continuo precipitare per forza di inerzia. Arriveranno a smuovere questo ristagno «i sussurrati segreti della notte», fino all’arrivo dell’«azzurro giorno marino», il risveglio di tutte le cose, quando i «ragazzi scalzi invadono / i mandorleti».

Sciascia osserva questa «rissa leggera che s’incanta / di luce», vede «gli occhi vivi che brulicano / dietro l’inganno delle imposte chiuse» e come ogni giorno cercherà un altro punto di fuga, «la palma che svetta nell’azzurro», o l’immersione nella sua terra, nel «verde trapunto dal giallo dei limoni». La poesia è per lui quel ciottolato che porta all’inizio del percorso sterrato, e ci saranno lunghe camminate raccontate in prosa, avventure, denunce, pensieri, constatazioni che alle sue prime poesie devono la profondità dello sguardo, l’amore per le parole quando vengono condivise, come ricorda Montale:

E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezza e di silenzi, parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.
(Eugenio Montale, Mediterraneo in Ossi di Seppia)

Valerio Cappozzo

+ Link ai diversi altri contributi del nostro dossier tematico «Leonardo Sciascia 30 anni dopo».

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Valerio Cappozzo
Valerio Cappozzo è professore di letteratura italiana all’University of Mississippi e direttore del programma di Italianistica. Specializzato in filologia materiale e critica letteraria è autore del "Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari" (Leo S. Olschki 2018) e di vari saggi sulla poesia medievale. Studioso anche di poesia italiana moderna e contemporanea è membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, della Fondazione Giorgio Bassani, presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, vice-presidente dell’American Boccaccio Association e co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».

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