Mediterruggine. Dedicato al nostro caro vecchio mar Mediterraneo.

Proseguono su Altritaliani i “racconti psicogeografici” di Ennio Cirnigliaro, archeologo e storico genovese. Questa storia qui gli è nata pensando ad un luogo ben preciso, lo scheletro di un ristorante del borgo marinare di Pegli, quartiere del ponente della città di Genova.

Mediterruggine

Avete mai sentito il suono delle palificazioni salate e arrugginite di qualche vecchio e fatiscente capanno sulla scogliera quando il vento e le onde lo colpiscono con indifferenza? Come un relitto spiaggiato, quell’ammasso di ruggine e storie corrose se ne sta lì ad osservare la vita che gli scorre intorno e gli sbatte contro per proseguire oltre. Non contano i ricordi che si è cucito addosso, proprio come i passaporti delle anime in pena abbarbicate sulle stesse onde che arrivano a lui. Anche loro cigolano; cigolano i loro muscoli, le loro parole, i loro pensieri, i loro sogni senza sonno e i loro sonni senza sogno. Un intero epos di anonimato e di afasia è portato a riva, e sbatte sulla ruggine che, a sua volta, gli sbatte contro, in un gioco di rimandi fra perdenti che rende eguale la materia ferrosa, figlia di qualche lontana fonderia, con quella che fu materia organica, vivente, figlia dell’unione di due corpi altrettanto vivi.

Poche cose danno l’idea del vuoto quanto gli scheletri degli edifici di fronte al mare, dove per mare non si intende qui un mare qualsiasi, ma quel quasi lago che inizia a Gibilterra e finisce sul Bosforo, fra gli ingorghi di navi pronte ad oltrepassare l’opposto assoluto delle Colonne d’Ercole, quel Ponto Eusino, ossia « Mare buono con lo straniero » (per tradurre letteralmente dal greco) , che, a differenza dell’ignoto atlantico al di là dell’Iberia, è gentile, umano, materno e paterno. Questo per i Greci, che lo risalirono fondando empori e colonie su su sino a Kerc, dove anche lui finisce, cedendo il posto alla Palude Mereotide, quel Mar d’Azof che apriva le porte alle immensità dell’Asia.

Secoli dopo, i genovesi, che impiantarono una colonia poco lontano, a Theodosia, da loro chiamata Caffa, avevano addirittura pubblicato un manualetto, il Codex Cumanicus, destinato ai mercanti. Era un vero e proprio glossario in cui ogni parola latina era tradotta nella corrispondente parola cumanica, dal nome della lingua di quella popolazione, talvolta confusa coi Tartari e con essa mescolata nell’indistinto dell’oriente.

I turchi, gente di terra che, dalle remote profondità dell’Asia, giunsero in Anatolia poco dopo il Mille, chiamarono quel mare con nome con cui ancora lo conosciamo: « Kara Deniz », « Nero mare », contrapposto al grande Mediterraneo, che loro chiamarono « Ak Deniz », bianco mare. Da una parte, brume quasi nordiche ; dall’altra, la luce meridiana.

Del resto, se stiamo alla geografia, l’estrema punta settentrionale del Mar d’Azov è posizionata intorno al quarantasettesimo parallelo, più o meno la latitudine di Digione; se non è nord, certo non è sud. Quanto alla propaggine meridionale del Kara Deniz, ad Istanbul, la quale, pur essendo quasi alla stessa latitudine di Napoli, ha un clima ben più rigido della città italiana, al punto da essere nota per le copiose nevicate, una volta, stando a quanto racconta il grande Orhan Pamuk, apparve all’orizzonte addirittura un iceberg disceso forse dalle foci del Danubio. Quando lo vidi io, il Mar Nero, era invece un agosto, e il Bosforo sapeva quasi di Tropico, con tutte quelle navi in fila che andavano così lente da farmi subito pensare alla canzone « Panama » di Ivano Fossati .

Ma torniamo a noi, al nostro caro vecchio Mediterraneo.
Esso è un mare, dunque, chiuso da altri mari e da altre storie cui pure si unisce permettendoci di raggiungerle, delle storie la cui eco viene portata ad ogni riva dalla risacca che la abbraccia. Questo mare, così pieno di vita e di microplastiche, impiega oltre settant’anni per ricevere una completa trasfusione d’acqua dall’Oceano Atlantico. Per almeno sette decadi, quindi, le voci dei bambini sulla spiaggia di Rimini, gli scarichi delle fogne di Ostia, i selfie dei tedeschi sulla Riviera ligure e gli amori clandestini nella Laguna Veneta girano e girano, mescolandosi nelle remote profondità di alcuni suoi punti (una di quelle è il canyon del Polcevera, proprio di fronte al grande porto di Genova, dove la scarpata di quella che fu un’antichissima valle scende in basso per oltre mille metri).

Guardo la sera scendere a intermittenza fra le luci delle diverse bocche di porto e l’ovattato sciabordare delle barche grandi e piccole e osservo ancora la ruggine. Ora sembra cantare. È il canto delle sirene arrugginite di questo grande mare di gente che incerto galleggia in un presente il quale, per l’ennesima volta, fa di queste latitudini e di queste longitudini, la perfetta sintesi di tutto il bene e di tutto il male del mondo. Ascolto ma non mi faccio legare al palo; al contrario, mi avvicino e, accostando l’orecchio, trascrivo ogni bisbiglio cercando di ridargli voce.

Ennio Cirnigliaro

LINK Altritaliani ad altri racconti “psicogeografici” di Ennio CIRNIGLIARO. Storie vere, a volte di fantasia, ma sorgono tutte da un dove preciso, reale, dalla cartografia personale dell’autore.

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Ennio Cirnigliaro
Ennio Cirnigliaro è nato a Genova nel 1974. Archeologo per professione e vocazione, militante politico di lunga data, indaga il presente con quella particolare chiave di lettura “stratigrafica” propria di chi ha l’abitudine di inserire i fenomeni singoli in un più ampio contesto. Ha pubblicato su riviste varie articoli specialistici nel suo ambito, oltre che testi politici e sociali aventi come denominatore comune l’antifascismo, l’antisessismo, l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’ecologia sociale. Ha pubblicato per Prospero editore “Medioevo digitale. La storia contemporanea attraverso i social network”, 2021.

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