Per « Controcanto » un contributo di uno dei più brillanti e controversi intellettuali del novecento: Leo Longanesi.
Amato e odiato, anarchico o fascista, ironico, indomabile. Abbiamo voluto riproporre un suo vecchio contributo su l’Italietta, come ebbe a chiamarla in un suo libro. Lo proponiamo oggi, all’indomani di elezioni politiche nel Paese che potrebbero segnare una svolta radicale nel rapporto tra cittadini e politica con il trionfo dei populismi e il declino della politica. E’ interessante vedere come già nel 1953, il giornalista e scrittore notava la perdita dell’anima di una borghesia sempre più chiusa solo sulla ricchezza, una ricchezza senza aspirazioni di alcun genere e che non induceva ad allargare le potenzialità del paese. L’ironica, diremmo sarcastica, critica di Longanesi appare prodromica di un paese, quello di oggi, che resta Italietta, che appare profondamente cambiato e segnato nell’animo. Occhio quindi all’attualità di Longanesi che denunciava già una borghesia che andava appiattendosi, che stava perdendo la sua capacità di fare, anche cultura, in senso lato e non solo economica, che perdeva la sua aspirazione ad essere per il paese un modello di benessere nel senso pieno della parola. Eppure, malgrado le inquietudini odierne sul futuro dello stivale, traspare dalle sue parole un mesto ottimismo, almeno nel suo incipit che vuole, ricordando significativamente un Cavour morente, che inspiegabilmente, pur innanzi a qualsiasi avversione, l’Italia « va ».
Da: « Ci salveranno le vecchie zie? » (pag. 11 – 15)
Tutti lo sanno, ormai, che il conte di Cavour, sul letto di morte, esclamava: « …Abbiamo fatto abbastanza, noialtri: abbiamo fatto l’Italia, si, l’Italia: ‘e la cosa va’… »
« La cosa va »: in queste tre parole, a pensarci su, a ripetersele col tono di voce di chi sta per rendere l’anima a Dio, c’è un ottimismo contenuto che non persuade, che resta li, a mezz’aria, a dirci che il povero conte di fiducia non ne aveva troppo nelle nostre capacità di tenere in piedi l’Italia.
Si: « la cosa va ». E’ sempre andata dalla morte del conte; la cosa « va » ancora…Ma è una « cosa » misteriosa, una misteriosa cosa « che va », e non se ne sa il perché.
Tutto quello che a noi sembra falso e provvisorio, tutto quel gran correre avanti e indietro senza precisi scopi, tutto il disordine e l’arruffio, tutto il fare e il disfare, tutte le affannose e inutili e ridicole e patetiche contraddizioni che accadono in Italia, forse ci sono indispensabili; forse noi non riusciamo a scoprire il segreto senso che promuove e alimenta la vita italiana. Ma è pur vero che a guardarsi attorno c’è da chiedersi: « Come mai funziona la luce elettrica? Come mai qualcuno ancora si preoccupa di accenderla? E perché mai lo spazzino raccoglie le foglie secche nei viali? E perché la maestra non insegna agli alunni di uccidere i compagni? E perché l’operaio non fa la rivoluzione? E perché ancora c’è chi dice ‘Prego, signore’? »
La risposta a tutto cio’ è ancora quella di Cavour: « la cosa va ». E « va » perché è sempre « andata », perché una cosa che seguita ad andare avanti per quasi un secolo ha una forza di durata ancora lunga e occorre una forza altrettanto solida per arrestarla.
Ma della borghesia italiana di ieri restano soltanto le cassette di ghisa rossa per imbucare le lettere, altrettanto solide, cordiali, decorose, restano i vecchi marchi di fabbrica, gli alti abeti piantati dai nonni nei giardini delle ville, resta la bottiglia del Fernet, resta la rete ferroviaria, ma l’animo di quei borghesi è rimasto attaccato al loro gilè bianco, non vive più sotto i pullovers degli eredi. I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo; vogliono diventare qualcosa di diverso, qualcosa d’altro. Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di povere. La storia attira l’agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d’oggi, la sola cosa che gli sta al cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente.
E’ ricco, ma debole questo nuovo borghese, perché « intimamente ed eternamente incapace di ricchezza »; potente, trema per un dazio, sussulta per una circolare, palpita per un articolo di giornale.
Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso, un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: è una differenza di zeri, fra gente che vale zero.
Leo Longanesi