Quali cose nell’ultimo mezzo secolo hanno maggiormente cambiato la vita di tutti noi? Ciascuno ha senza dubbio la propria risposta a questa domanda. Dico la mia.
Una fonte di cambiamenti epocali viene subito in mente : la straordinaria e multiforme rivoluzione informatica, entrata in modo prepotente e generalmente benefico nella nostra vita, nei nostri affetti e persino nel nostro corpo. La mela ce la siamo addentata con gusto, fino a farci sanguinare le gengive. All’inizio era il verbo : telefonare. Poi si è incarnato nel telefonino. Nei primi tempi sono stati in molti a osservare questo fenomeno con perplessità. Ricordo quella cena in cui, forchetta alla mano, ho detto agli amici d’aver comprato il mio primo «cellulare» (parola peraltro ambigua : in italiano e in francese indica anche il furgone della polizia, il «panier à salade», avendo quindi nell’inconscio collettivo un certo sapore di prigionia, di perdita della libertà). Mi hanno guardato come se avessi confessato chissà quale indecente trasgressione. Scherzando ma non troppo, uno di loro ha alzato la voce e ha pronunciato una frase del tipo : «Ma insomma, Alberto, ti comporti proprio come quelli che vogliono solo farsi notare !». Tra i miei amici c’era chi pronunciava frasi del tipo : «Mai e poi mai io possederò un telefonino!». Usare il telefonino sembrava solo un modo per darsi delle arie. Da allora è passato un quarto di secolo e nel frattempo abbiamo cambiato mondo.
Oggi lo smartphone ritma la nostra esistenza dal mattino (quando rimpiazza la vecchia sveglia e poi ci regala i notiziari: «Ore sette. GR1. Direttrice Simona Sala» e subito dopo «Il est 7h30. Merci d’être à l’écoute de France Info. Voici les infos du jour.») alla sera, quando salutiamo via WhatsApp le persone a cui vogliamo bene, guardandole in faccia ovunque esse siano. L’insaziabile Whats Appetito ha alimentato il nostro rapporto con gli altri e fa sentire meno soli anche chi ha purtroppo tutte le ragioni per esserlo. Il telefonino è nato con le parole ed è finito con le immagini. Tante immagini. Talvolta troppe. Talvolta costruite ad arte per trarci in inganno. Ma questa è una sfida per la nostra intelligenza. Le trasformazioni tecnologiche ci costringono a usare il cervello se vogliamo difenderlo. Se non lo facciamo, ci esponiamo al pericolo della disinformazione e pagheremo noi stessi il prezzo degli inganni a cui andiamo incontro.
All’inizio dell’epoca del telefonino, Umberto Eco dedicò un numero della sua rubrica settimanale sull’Espresso (la Bustina di Minerva, nome che non derivava dalla dea della saggezza ma dagli italici fiammiferi, sulla cui bustina eravamo abituati a scrivere sintetici appunti) al fatto che, secondo lui, il telefonino doveva essere autorizzato solo per alcune specifiche categorie di esseri umani. In pratica, le persone che, per evitare il peggio, hanno assoluto bisogno d’essere reperite: i trapiantatori d’organi, gli idraulici e gli adulteri. Poi, siamo nel 2005, è stato lo stesso Umberto Eco a porsi, sempre attraverso la Bustina, la fatidica domanda: “Si può ancora vivere senza telefonino?”. Un bel cambiamento tra i due articoli! Benché realizzate tra il serio e il faceto, nel meraviglioso stile di quel personaggio che tanto ci manca, quelle riflessioni sono estremamente significative. Nello spazio di circa un decennio si è passati dall’ostilità alla rassegnata accettazione. Dal no al sì al telefonino. Il successivo decennio, tra il 2005 al 2015, ha visto la nostra comune conversione allo smartphone, ossia la rivoluzione nella rivoluzione. È la fine della storia o tra una decina d’anni saremo ancora qui a parlare di una nuova metamorfosi del feticcio di cui non possiamo più fare a meno? Vedremo. O forse vedrete.
Come sempre accade alla vigilia delle rivoluzioni, nessuno ne aveva previsti gli sviluppi. Chi nel 1789 immaginava il Terrore ? Se qualcuno lo avesse fatto, avrebbe evitato di mettersi il gilet giallo prima di passare quel 14 luglio dalle parti della Bastiglia. E nel 1794, al tempo del Terrore, nessuno avrebbe immaginato una Francia imperiale nelle mani di un giovane corso che si prendeva per Napoleone. Le rivoluzioni sono imprevedibili per definizione e quella informatica lo è stata in modo particolare. Solo un anno fa si discuteva animatamente del «passaporto sanitario per i vaccinati» (a proposito : dove sono finiti i sapientoni che lo definivano «inutile, impossibile e pericoloso»?), mentre oggi lo smartphone, col suo bravo «green pass», è il nostro compagno di vita. Il normale strumento per viaggiare, per far la spesa, per mangiare al ristorante e persino (in Italia) per andare al lavoro.
Il bello (o il brutto) della rivoluzione informatica è che pare inesauribile quanto imprevedibile. Ogni giorno può riservarci altre sorprese solo perché a Shanghai o a San Francisco, a Blois o a Casablanca, a Madrid o in una masseria pugliese qualcuno ha avuto un’idea e trovato i mezzi per realizzarla. La rivoluzione informatica innesca e valorizza la fabbrica delle idee, che possono più facilmente uscire dalla loro caverna per entrare nella società e nella vita di tutti noi. Nella caverna dei miei ricordi c’è la conferenza sulla «società dell’informazione» svoltasi a Bruxelles all’inizio del 1995 su iniziativa del vicepresidente statunitense Al Gore e della Commissione europea. C’erano molti stand di aziende ad alta tecnologia. Un esperto mi parlò di come «un giorno una persona potrà andare a vivere a Samoa, ordinando poi, via computer, le canne da pesca in Europa». A parte il fatto che, se andassi a vivere a Samoa, le canne da pesca le porterei con me nel bagaglio, la cosa impressionante – davvero impressionante – è come la realtà abbia largamente superato l’immaginazione stessa di molti partecipanti a quell’incontro planetario. Altro che «un giorno», altro che Samoa e canne da pesca ! L’e-commerce ha cambiato la nostra vita qui e adesso. L’ «un giorno» di cui mi parlava quell’esperto nel 1995 a Bruxelles era semplicemente dietro l’angolo del calendario. La rivoluzione dell’informatica e delle comunicazioni si è alimentata da sola in un modo che i suoi stessi protagonisti hanno avuto difficoltà a prevedere. Tutti i settori ne sono stati più o meno direttamente coinvolti.
Tengo a fare due esempi : uno di questi giorni e l’altro relativo al mestiere che faccio da una vita. Nel primo caso si tratta dell’ «anagrafe digitale», inaugurata in Italia dal presidente Sergio Mattarella questo 14 novembre. Sarà possibile ottenere via computer quei certificati che in altri tempi eravamo abituati a «conquistare» al prezzo di code snervanti e di lunghe attese.
L’altro esempio delle trasformazioni da noi vissute è ben diverso, ma per me carico di ricordi. Fino agli anni 1980, la composizione dei giornali era fatta col piombo fuso della linotype, minestra grigiastra in continua ebollizione dentro la sua speciale «pentola». Poi, di colpo, si è passati al computer e alla cosiddetta «composizione a freddo». È difficile raccontare la scena di un gruppo di linotypes in azione tutte insieme, ma è bello sapere che nessun operaio e nessun correttore di bozze deve più respirare quei vapori di piombo fuso.
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Un’altra cosa che ha cambiato la nostra vita di europei è oggi nelle nostre stesse tasche : l’euro. Ma qui occorre una precisazione. La moneta unica è stata in realtà una scelta politica conseguente a un altro cambiamento storico : la caduta del Muro di Berlino e il tramonto in Europa della vecchia «logica dei blocchi», scaturita dalla Seconda Guerra mondiale. Dunque l’euro è la punta dell’iceberg di una metamorfosi molto più profonda e complessa, che ci permette di vivere in un’Europa più larga e più unita. Il 9 novembre 1989, la spallata al Muro è venuta a seguito di una conferenza stampa, in cui un giornalista italiano dell’agenzia Ansa ha semplicemente chiesto a un responsabile della Germania Est quando ci sarebbe stata la libertà di passaggio tra le due Berlino. Alla risposta «Subito !», la gente si è precipitata nelle strade. Ma fino ad allora quella frontiera dava i brividi, così come quella austro-cecoslovacca e tante altre.
I due episodi – crollo del Muro nel novembre 1989 e vertice comunitario di Maastricht nel dicembre 1991 – sono legati uno all’altro. Probabilmente non avremmo l’euro nelle nostre tasche se il Vecchio continente fosse ancora diviso dalla Cortina di ferro. Abbiamo l’euro perché il presidente francese François Mitterrand ha visto nell’unione monetaria il modo migliore per perpetuare la fedeltà europea di una Germania in fase di riunificazione, sulla cui testa non pendeva più la spada di Damocle della minaccia sovietica. Una Germania che (questo il timore di Mitterrand) avrebbe ormai potuto immaginarsi in una strada solitaria, costruendo attorno a sé nuovi equilibri nel Vecchio continente.
L’euro è stato realizzato in tempi rapidi, sotto l’effetto dello choc delle novità all’est. Certo esistevano progetti, libri bianchi e convegni sull’unione monetaria, ma per rompere gli indugi c’è voluta una situazione d’emergenza. Il mese prossimo i giornali e le tv ci proporranno i loro commenti in occasione dei trent’anni del Consiglio europeo cominciato a Maastricht il 9 dicembre 1991 e terminato a notte fonda, nelle prime ore dell’11, dopo un negoziato difficile, snervante e anche rischioso per i destini stessi dell’integrazione europea. Per una volta non erano i britannici a creare problemi, visto che si erano subito chiamati fuori dall’ipotesi della moneta unica e quasi nessuno era preoccupato da questo. I problemi stavano nel rapporto franco-tedesco e anche nel timore tedesco della presenza italiana nella futura ed eventuale moneta unica.
Il clima psicologico del vertice era un cocktail di tensione, di improvvisazione e d’eccitazione. In quel contesto difficile si sono fatti largo i «criteri di Maastricht», in buona parte basati sulla situazione stessa di Francia e Germania. Di qui i limiti massimi che sono stati allora decisi per il debito pubblico (60 per cento del Pil) e il deficit della finanza pubblica (3 per cento del Pil). In pratica Francia e Germania non avrebbero dovuto far altro che continuare per la loro strada, mentre l’Italia avrebbe dovuto compiere grandi sacrifici per rispettare quei parametri. Oggi molta acqua è passata sotto i ponti della Mosa (il fiume che attraversa Maastricht). Le previsioni sul deficit pubblico nel 2021 e nel 2022 parlano dell’8,1 e 5,3 per cento per la Francia e del 9,4 e 5,8 per cento per l’Italia. Il debito pubblico viaggia a sua volta su livelli largamente superiori a quelli immaginati a Maastricht. Evidentemente ci sono le conseguenze del Covid, ma è chiaro che la moneta unica non poteva essere basata solo su parametri rigidi, cosa di cui le autorità europee si sono poi rese ampiamente conto.
Resta il fatto che l’euro, deciso trent’anni fa ed entrato nei nostri portamonete vent’anni fa (il primo gennaio 2002), è ormai chiaramente utile e solido malgrado le sue debolezze. Una soprattutto : nella zona euro c’è una sola moneta per diciannove Paesi, ciascuno dei quali ha tuttavia la propria legge finanziaria e la propria politica di bilancio. L’euro è una sorta di miracolo. Ma, quando un miracolo supera la prova del tempo, cambia nome e si trasforma in una conquista. L’euro è dunque una conquista sempre più irreversibile giorno dopo giorno, anno dopo anno. Soprattutto se gli anni sono speciali, com’è stato il caso di questi ultimi in tempo di pandemia. In assenza dell’euro, la crisi finanziaria seguita al 2008 e quella sanitaria cominciata nel 2020 avrebbero presumibilmente portato a una divaricazione tra le valute europee. Il marco si sarebbe rivalutato e la lira si sarebbe svalutata. I paesi colpiti da svalutazione avrebbero cercato una rivincita sul piano commerciale e sarebbero stati accusati di praticare una «svalutazione competitiva». Di conseguenza, lo stesso mercato unico europeo sarebbe stato messo in discussione e forse in crisi. Per capire che questo scenario non sarebbe stato affatto impossibile, basta ricordare quanto accadde alla metà degli anni Novanta, quando il presidente francese Jacques Chirac mosse all’Italia accuse di «svalutazione competitiva», minacciando ritorsioni. È storia recente, non del tempo delle Guerre puniche.
Al cambiamento portato dalla nascita della moneta unica si è accompagnata un’altra svolta di diversa natura, ma altrettanto significativa : l’adozione degli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone (che alcuni Paesi applicano purtroppo con una certa reticenza). Quando questa intesa venne firmata, l’Italia si trovò in una situazione difficile perché essa riguardava solo cinque dei sei Paesi firmatari del Trattato di Roma del 25 marzo 1957. Tutti tranne appunto l’Italia, che ha comunque raggiunto il Club di Schengen, operativo dagli anni 1990.
Una delle grandi novità di questo mezzo secolo è dunque la facilità di circolazione delle persone, dei capitali e delle merci. Il rovescio della medaglia di questa facilità di circolazione sta nelle delocalizzazioni industriali, che hanno provocato un calo del peso specifico del settore manufatturiero nei Paesi dell’Europa occidentale a vantaggio della parte est dell’Unione. Ci sono state ovviamente conseguenze in termini di occupazione, con la nascita di problemi molto complicati in alcune situazioni locali. Il caso dell’industria automobilistica è oggi sotto gli occhi di tutti. Basta guardare ai nomi storici dell’auto europea, come Fiat o Renault. Il gruppo Renault, che era l’emblema stesso dell’industria nazionale, ha oggi in Francia meno di 50 mila dipendenti. Il comune di Parigi (2,2 milioni d’abitanti) ha un numero di dipendenti superiore a quelli di Renault nell’insieme della Francia. Tra le auto commercialmente più competitive di questo gruppo ci sono quelle (a buon mercato) della filiale romena Dacia. La produzione si è spostata all’est.
La caduta delle barriere in Europa si è accompagnata a una facilità di viaggi, dentro e fuori i confini degli Stati. L’alta velocità ferroviaria ha compiuto in questo 2021 i suoi quarant’anni di vita in Francia, che è stata da questo punto di vista il Paese pioniere nel Vecchio continente. Il presidente Valéry Giscard d’Estaing aveva fortemente voluto l’alta velocità ferroviaria, ma – ironia della sorte – furono un presidente socialista (Mitterrand) e un ministro dei Trasporti comunista (Charles Fiterman) a inaugurare la prima linea TGV, la Parigi-Lione, nel settembre 1981.
Oggi in Europa non esiste una geografia. Ne esistono due : quella tra le città collegate dai treni veloci e quella che raggruppa le altre località, dove si arriva con molto maggiore difficoltà e che si sentono spesso emarginate. Il « restringimento dell’Europa » è reso evidente anche dai voli a basso costo, che consentono di spostarsi facilmente e che permettono a molte persone di lavorare in un altro Stato senza rompere i legami col proprio. Nel giro di mezzo secolo, l’Europa è insomma diventata un «villaggio» e questo lo si vede anche sul piano dell’informazione.
Nel 1977 arrivai a Parigi per un anno. Ricordo la cupidigia con cui attendevo l’arrivo dei quotidiani italiani, al pomeriggio e talvolta il giorno successivo. Guardare le trasmissioni tv della Rai era semplicemente inimmaginabile. Quando nel 1986 sono tornato a vivere a Parigi, le informazioni dall’Italia arrivavano un po’ più facilmente, ma non molto. Poi sono cominciati gli anni del cavo, delle parabole e della teletrasmissione dei giornali (stampati in vari Paesi europei in teletrasmissione e quindi disponibili in edicola di primo mattino). Oggi noi possiamo vedere praticamente tante tv italiane stando in un altro Paese europeo quante stando in Italia.
Le barriere in seno all’ «Europa-villaggio» sono cadute, ma quelle intorno si sono rafforzate. Il villaggio è diventato un fortino. Le scene viste in questo novembre alla frontiera tra Polonia e Bielorussia sono agghiaccianti, sconvolgenti. Immigrati accalcati a migliaia nel freddo, respinti da un lato dai polacchi e dall’altro da quegli stessi bielorussi che li avevano fatti arrivare con l’intento di mettere in difficoltà l’Unione europea. Una vendetta politica per le sanzioni contro Minsk. Una vendetta sulla pelle di tanti esseri umani. Una vera indecenza, che ci pone un grande problema morale.
L’immigrazione è una realtà che ha cambiato il volto stesso della società europea in generale e di quella italiana in particolare. Una delle sfide fondamentali per l’avvenire dell’Europa sta proprio nella definizione di una strategia comune verso i Paesi che la circondano. Le situazioni variano da Stato a Stato, così come l’atteggiamento dei diversi governi sulle questioni legate alle attuali migrazioni. Resta da capire se a prevalere saranno i punti di vista di ciascun Paese o gli interessi e i valori comuni. Tutti i governi europei devono capire che non si può essere generosi solo a parole. Non si possono fare bei discorsi, scaricando poi i problemi sulle spalle del vicino.
Esattamente settant’anni fa, molti italiani decisero d’emigrare a seguito di una delle catastrofi naturali che più hanno segnato la storia del dopoguerra nella Penisola: lo straripamento del fiume Po, che il 14 novembre 1951 ruppe gli argini in provincia di Rovigo inondando le campagne, devastando tutto e facendo un centinaio di morti e oltre duecentomila sfollati. Una parte di queste persone non sono più tornate in quei villaggi. Alcune di loro sono andate in altre regioni italiane o all’estero, Francia compresa. È a loro che penso nel darvi appuntamento al mese prossimo sulle note e con le parole (in bergamasco, sottotitolato) di Ivan Della Mea a ricordo di quella tragedia italiana https://www.youtube.com/watch?v=nwcXnnUIw3c
Alberto Toscano
LINK AI PRECEDENTI APPUNTI DI ALBERTO TOSCANO: https://altritaliani.net/category/editoriali/appunto-di-alberto-toscano/
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Caro Alberto, linotype e bancone di composizione, Ludlow per i titoloni e i grossi caratteri, e il concerto delle grosse Olivetti verso le ore 20 nel salone dei cronisti. Un po’ di nostalgia.eh?